Il Mezzogiorno tra magia e religione popolare

mamuthone

Mamuthone sardo

La Civiltà Cattolica n.3754

18 novembre 2006

Giuserppe De Rosa s.j. 

I problemi politici, sociali ed economici del Mezzogiorno d’Italia sono stati oggetto di studi approfonditi e di accurate ricerche, particolarmente nella seconda metà del secolo XX. Una forte spinta a tali studi è venuta anche dalla popolarità che ha avuto il libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli (1). Nello stesso tempo, sotto l’impulso di don Giuseppe De Luca (2) e del prof. Gabriele De Rosa (3), sono stati pubblicati studi eccellenti sulla vita religiosa delle popolazioni meridionali dei secoli XV-XIX. Tra questi studi merita una particolare attenzione il volume di G. M. Viscardi, dell’Università di Salerno: Tra Europa e “Indie di quaggiù” (4).

«Las Indias de por acà»

II Mezzogiorno è indicato con un’espressione — Las Indias de por acà — con la quale lo designò nel 1575, in una lettera al p. E.Mercuriano, quarto preposito generale della Compagnia di Gesù, il p. M. Navarro, che l’aveva percorso in lungo e in largo come missionario. Con tale espressione egli intendeva designare la realtà spirituale, ma anche materiale, di un Mezzogiorno per molti aspetti non dissimile dalle Indias de allà, evangelizzate da san Francesco Saverio.

Ma si chiede Viscardi: l’espressione «Indie di quaggiù» è appropriata, e l’«arretratezza» religiosa e culturale, oltreché economica e sociale, è esclusiva delle contrade e delle popolazioni del Mezzogiorno d’Italia nell’età moderna? È il Mezzogiorno la terra per eccellenza della magia e della superstizione, e non quindi del «vero cristianesimo», o non partecipa di una mentalità religiosa che caratterizza altre zone dell’Europa occidentale e settentrionale, orientale e meridionale?

In altre parola, il Mezzogiorno è «l’unica India o è un’India tra le Indie»? In un saggio dedicato a sfatare i più comuni pregiudizi sul Mezzogiorno, che sono stati rafforzati e resi popolari da Cristo si è fermato ad Eboli e dagli studi etnologici di E. De Martino (5), secondo i quali la mentalità magica e superstiziosa nel Mezzogiorno è un prodotto e un effetto del sottosviluppo economico, Viscardi rileva che «magia e superstizione non sono patrimonio esclusivo delle popolazioni meridionali». Si sofferma poi sulla «frattura» fra Nord e Sud, osservando che «il Mezzogiorno è stato danneggiato dal tentativo ossessivo di azzerare il distacco dal Nord, perché è stato indotto ad assumere modelli estranei alla sua storia, alle sue tradizioni e alla sua “vocazione”».

I sinodi, fonte di conoscenza della religione popolare

II «corpo» del volume è rappresentato dallo studio accurato e minuzioso dei sinodi, prescritti dal Concilio di Trento agli arcivescovi e ai vescovi: c’era infatti l’obbligo di convocare sinodi o concili provinciali ogni tre anni e un sinodo diocesano ogni anno. In realtà, questi sinodi sono lo specchio più fedele della vita religiosa del Mezzogiorno. La loro conoscenza è perciò indispensabile per delineare la religiosità del Mezzogiorno nei secoli XVI-XIX. I sinodi erano la legittima riunione, convocata dal vescovo, di sacerdoti e chierici della sua diocesi, per discutere dei problemi pastorali e deliberare su di essi. In realtà, il compito dei sinodi era quello di far conoscere i decreti del Concilio di Trento e di tradurli in prescrizioni rispondenti alle situazioni locali. Tali sinodi furono realmente celebrati ogni anno e ogni tre anni? Indubbiamente no.

Si trattava infatti di una frequenza eccessiva, che, d’altra parte, incontrava molti ostacoli, sia da parte del clero, che temeva di perdere privilegi acquisiti nel tempo, sia da parte delle autorità politiche, illuministe e giurisdizionaliste, che tendevano a limitare il potere della Chiesa e, di conseguenza, anche l’attività sinodale. Ad ogni modo, i sinodi celebrati furono moltissimi, anche se soltanto di pochi di essi furono stampate le costituzioni sinodali. La lingua usata è generalmente il latino, anche se in alcuni esso si alterna col volgare. I temi trattati sono grosso modo gli stessi: catechismo e sacramenti, confraternite e casi riservati, osservanza delle feste e vita onesta del clero, obblighi dei parroci, pratiche magiche e superstiziose. Tuttavia, nonostante la ripetitività, la documentazione sinodale resta decisiva per scrivere non solo la storia religiosa, ma la storia tout court del Mezzogiorno.

Magia e stregoneria

Viscardi studia alcuni sinodi particolarmente significativi: i sinodi lucani del Seicento, i sinodi della diocesi di Policastro, dell’arcidiocesi di Salerno, della Badia di Cava, dell’arcidiocesi di Benevento. Egli si sofferma in particolare sulla magia, sulla stregoneria e sulle superstizioni. Rileva anzitutto che tali pratiche non erano proprie e specifiche del Mezzogiorno, come afferma E. De Martino in Sud e magia, ma erano diffuse in tutti i Paesi europei, cattolici e protestanti.

Rileva poi che non era l’ignoranza o l’incultura a determinare l’insorgere e il persistere delle pratiche magiche nella cultura e nella mentalità delle popolazioni meridionali, ma erano le condizioni di vita: in una società rurale, minacciata continuamente dalle epidemie, dalle carestie, dai terremoti e dalle calamità naturali in genere e perciò ossessionata dalla morte, il ricorso alla magia diveniva il modo per esorcizzare o almeno ammortizzare la paura. Rileva infine che i sinodi erano particolarmente preoccupati per la diffusione della stregoneria, per il rapporto che le pratiche di stregoneria — «maleficij, incantesimi, sortilegi, stregarie, magie e fattocchiarie, legature, fatture, segnature» — instauravano con il demonio, che veniva adorato, con la conseguenza di una pratica apostasia dalla fede cristiana.

La preoccupazione dei sinodi riguardava in modo speciale le pratiche di stregoneria dirette a rovinare la salute delle persone e la buona riuscita dei matrimoni: si trattava di pratiche di magia nera, fatte allo scopo di arrecare danno alle persone e ai loro beni — ad esempio la salute e i raccolti — e cercare di rovinare i matrimoni col «maleficiare huomo o donna per tirarlo all’amor suo» e col mettere «discordia tra uomo e donna, con l’impedire la concettione de figliuoli», col «procurare aborto con simili incantesimi» e col fare «legature per impedire li matrimoni». In realtà, c’erano «donnicciole» (mulierculae) malefiche, dette «strigae, seu lamiae», che confezionavano filtri di amore (pocula amatoria), sortilegi e «legature» con i quali «tormentavano le persone e provocavano amori illeciti» (inclinando pudicos animos, ad libidinem).

Superstizioni popolari

C’era poi un elenco dì superstizioni popolari, che non comportavano atti di magia, ma che tuttavia erano da evitare: così, era diffusa l’orazione a santa Susanna per fomentare il mutuo amore tra le persone; il giorno della festa di san Giovanni Battista, le ragazze cantavano canzoni d’amore e mostravano un vaso ornato di fiori, in cui dicevano che fosse conservato il capo di san Giovanni Battista, chiedendo in cambio delle offerte; la notte della vigilia si raccoglievano cardi, felci e semi di erbe, che dovevano essere conservati fino all’alba dell’Annunciazione: si trattava di erbe medicinali con proprietà medicamentose e di cardi, dai quali le donne pronosticavano la fortuna in generale e in particolare la fortuna in amore; la devozione alla cintura della Vergine Maria e la processione della statua della Madonna, che doveva servire alla richiesta della pioggia o del buon tempo.

Particolarmente deprecate nei sinodi erano — oltre le «legature» e altre «arti diaboliche» che facevano «impazzire o infuriare li maritati», li facevano «odiosi l’uno all’altro o perdere le forze per usare il matrimonio» — l’accompagnamento, dopo la benedizione nuziale, della sposa alla casa del marito con strepiti, musiche e danze, come anche l’accompagnamento della sposa alla chiesa con strumenti musicali, che venivano suonati, insieme con lo sparo di archibugiate anche in chiesa.

Ancora più netta era la condanna delle donne che, seguendo un’antica consuetudine mediterranea, in caso di morte di un congiunto, esprimevano more pagano il proprio dolore strappandosi i capelli, graffiandosi il viso ed emettendo grida e urli spaventosi. A queste donne che ricordavano le prefiche del mondo antico e che, certo, non esprimevano la visione cristiana della morte, veniva proibito l’ingresso in chiesa (6)

In conclusione, come nel Mezzogiorno così in tutta l’Europa, «il processo di folklorizzazione e di paganizzazione del cristianesimo era difficilmente evitabile in un contesto sociale in cui l’istruzione era poco diffusa, in cui, per via del basso livello tecnico e scientifico, assumevano un peso drammatico la paura della fame, la minaccia degli elementi, l’imminenza della malattia e della morte (7).

Il fatto grave è stato di ordine ideologico, più propriamente «illuministico»; quando si è trattato di individuare un luogo ideale per la «bassa» magia, si è scelto il Mezzogiorno. In tal modo il Sud è diventato non solo l’altra Europa, pur non essendo diverso da essa, ma anche l’altra Italia, quella afro-mediterranea: una terra sottosviluppata e colonizzata prima economicamente e poi culturalmente.

Di esso ha detto J. Le Goff: «Forse Cristo si è fermato per sempre a Eboli, abbandonando il Sud a Pulcinella?». Forse avrebbe potuto opportunamente ricordare che la caccia alle streghe, che condannò a una morte atroce molte donne, non è avvenuta nel Mezzogiorno, bensì nel Centro e nel Nord dell’Europa.

La stregoneria, cioè, prosperò indubbiamente nel Sud dell’Italia, ma prosperò assai di più nei Paesi del Nord, come già osservava il papa Innocenze Vili nella Bolla Summit desiderantes del 5 dicembre 1484 (8); «”E in effetti pervenuto alle nostre orecchie che in certe regioni della Germania superiore e nelle province, città, territori, distretti, diocesi di Magonza, Colonia, Treviri, Salisburgo e Brema parecchie persone di entrambi i sessi, dimentichi della loro stessa salvezza e deviando dalla fede cattolica, si sono date ai demoni incubi e succubi; per mezzo d’incantesimi, fatture, scongiuri ed altre superstiziose infamie ed eccessi magici fanno deperire ed estinguersi la progenie delle donne, i piccoli degli animali, le messi della terra, i grappoli delle vigne, i frutti degli alberi […]. Queste persone affliggono e torturano gli esseri umani, le bestie da soma, le mandrie e i greggi con ogni sorta di crudeli tormenti […]. E con bocca sacrilega rinnegano perfino quella stessa fede che hanno ricevuto con il battesimo». Di qui la terribile «caccia alle streghe», che causò la morte di molte donne innocenti, accusate di partecipare ai sabba e di avere rapporti col demonio, raffigurato sotto forma di caprone.

Preservazione della fede. La religione popolare

La maggiore preoccupazione dei sinodi non era tanto la lotta alla magia e alle superstizioni quanto la preservazione della fede dalle contaminazioni magiche e superstiziose e la sua restituzione alla genuinità evangelica; era anche quella di proteggere le persone più portate a credere alle arti magiche, che, trovandosi in situazioni di particolare bisogno, ricorrevano ai maghi e alle streghe, agli astrologi e agli indovini, che si facevano pagare lautamente. Particolare classe di persone da evitare erano i greco-albanesi e gli zingari, perché praticavano la divinazione, predicevano il futuro, insegnavano molte superstizioni e distribuivano carte sulle quali erano scritte preghiere adatte a ottenere o a fare qualcosa.

L’insistenza dei sinodi, celebrati nelle diocesi del Mezzogiorno nei secoli XVI-X1X nel denunciare la magia e la superstizione, presenti tra le popolazioni rurali, potrebbe far pensare che la vita religiosa delle popolazioni meridionali fosse un cumolo di pratiche magiche e superstiziose e che, più che di religione cristiana, si dovrebbe parlare di folklore religioso, cioè di religione appartenente alla «cultura folkloristica» in conflitto con la «cultura clericale». (9) In realtà, la religione delle popolazioni meridionali era una «religione popolare»: era cioè una «religione», intesa come rapporto di fede, di fiducia e di amore con Dio, con Gesù Cristo, con la Madonna, con i santi, come partecipazione ai sacramenti e alle altre pratiche cristiane, ai pellegrinaggi e alle festività della Chiesa. Ma era una religione «popolare».

Su questo termine c’è stato negli ultimi decenni del secolo XX un dibattito assai acceso tra coloro che davano ad esso una connotazione sociologica e di classe, per cui la religione «popolare» era la «religione delle classi subalterne», povere, ignoranti e sfruttate, e quindi si opponeva, contestandola, alla religione delle classi dominanti, e coloro che vedevano il termine «popolare» in connessione col termine «prescritto», per cui la religione popolare era la religione come «interpretata» e «vissuta» dalle persone di ogni condizione sociale, ricchi e poveri, nobili e plebei, e che talvolta era in contrasto con la religione «prescritta» dai concili e insegnata e proposta dei vescovi nei sinodi provinciali e diocesali (10). In altre parole, la religione popolare era la religione cristiana «vissuta» dall’insieme delle popolazioni del Sud.

Certamente c’erano in essa elementi folkloristici, magici e superstiziosi, residui del vecchio paganesimo che erano restati anche a motivo di un’evangelizzazione assai superficiale; ma non era semplice folklore, né un impasto di pratiche magiche e di superstizioni. Compito dei si-nodi diocesani e provinciali era quello di purificare la religione popolare dalle incrostazioni folkloriche, magiche e superstiziose che la deformavano. Perciò una buona parte delle costituzioni sinodali denunciava e condannava le arti magiche e le pratiche superstiziose.

Tuttavia, il fulcro di esse stava nel riproporre la dottrina e la pratica cristiana, nello sforzo di richiamare le persone a una fede più pura e a una pratica più conforme alla morale cristiana. Purtroppo, nel loro sforzo di riformare le credenze e i costumi popolari, i vescovi non potevano contare sulla cooperazione dei parroci e dei sacerdoti, sia perché la loro formazione spirituale, teologica e pastorale era scarsa, per non dire, in parecchi casi, assente, sia perché non di rado si accedeva al sacerdozio non per vocazione, ma per salire di grado nella scala sociale e per godere dei proventi del clero «ricettizio» (11).

Non c’erano poi seminati per la formazione religiosa e culturale dei giovani aspiranti al sacerdozio e i pochi che alcuni vescovi avevano costruito secondo la norma imposta dal Concilio di Trento conducevano una vita grama e molte volte erano costretti a chiudere a causa dell’eseguita delle risorse. «E così — rileva Viscardi — i chierici che avrebbero dovuto essere un esempio da imitare, si comportavano né più né meno come i fedeli, per i quali avrebbero dovuto essere un modello di vita etica: frequentavano taverne, non disdegnavano i giochi, partecipavano a banchetti, feste, danze e non pochi vivevano more uxorio con la perpetua e diventavano padri» (12).

E tuttavia, nonostante questa miseria della Chiesa del Mezzogiorno, non si deve trascurare il fatto che in essa è fiorita in forma non episodica la santità cristiana. Infatti, la storia della pietà meridionale mostra che il cristianesimo non solo è penetrato profondamente nel mondo meridionale, ma vi ha suscitato innumerevoli santuari, particolarmente dedicati alla venerazione di Maria, monasteri, conventi, edicole votive, cappelle; ha dato luogo a faticosi pellegrinaggi, spesso a piedi scalzi.

Soprattutto nel Mezzogiorno sono sorti grandi santi: da Nilo di Rossano ad Alfonso Maria de’ Liguori, da Giuseppe M. Tommasi a Gerardo Maiella, da Giuseppe da Copertine a Giuseppe Moscati, da Francesco di Paola e Giacomo Cusmano e ad Annibale di Francia, da Andrea Avelline a Pio da Petralcina, da Domenico Lentini a Bartolo Longo e a Giustino de Jacobis. Davvero «Cristo non si è fermato a Eboli».

Per una vita religiosa autenticamente «cristiana»

Non si può, tuttavia, non rilevare che le debolezze della Chiesa meridionale, denunciate dai sinodi vescovili e mai corrette o eliminate in maniera profonda, hanno pesato e pesano in parte ancora oggi sulla vita religiosa del Mezzogiorno. Infatti ancora oggi, nonostante i grandi progressi sociali, culturali ed economici (anche se talvolta effimeri e apparenti) che si sono avuti nel Mezzogiorno, sono ancora in parte vive le antiche superstizioni e pratiche magiche (malocchio, fatture di vario genere).

È vero che oggi la magia prospera in tutta l’Italia, con guadagni enormi per i maghi (dei quali si servono anche noti industriali!); ma nel Sud avviene che talvolta pratiche superstiziose si mescolino alle pratiche religiose. È grave anche il fatto che in certe zone in particolare sia scarsa la pratica religiosa degli uomini, per quanto riguarda la partecipazione alla messa domenicale e ai sacramenti.

Inoltre, anche se in modo marginale, c’è la prevalenza, nella devozione popolare, della richiesta di grazie temporali e la permanenza di pratiche «pagane», come il pianto «rituale» per i morti, dal quale sembra assente la fede nella vita eterna, mentre è presente la vendetta per i torti ricevuti e la difficoltà di perdonare, la visione di Dio, non come Padre, ma come Colui che castiga con le malattie e la morte. In sostanza, il Mezzogiorno risente ancora oggi del fatto che è mancata nel passato una vera e profonda evangelizzazione: di qui, la necessità non di abolire le pratiche devozionali della religione popolare, ma di evangelizzarle, dando ad esse un senso propriamente «cristiano», che hanno ancora in misura scarsa o almeno non sufficiente per fare della vita religiosa, in alcune zone del Sud una vita autenticamente «cristiana».

Note

1) Cfr C. LEVI, Cristo si è fermato a Eboli, Roma, Einaudi, 1945. C. Levi, anrifascista torinese, fu confinato per alcuni anni dal regime fascista in uno dei più piccoli e poveri paesi della provincia di Matera, Aliano-Alianello, a cominciare dal 1935-36.

2) Don Giuseppe De Luca (Sasso di Castalda, Potenza, 1898 – Roma, 1962) con le sue Edizioni di Storia e Letteratura ha influito molto sugli studi della «pietà» meridionale (cfr R, GUARNIERII, Don Giuseppe De Luca tra cronaca e storia [1898-1962], Bologna, il Mulino, 1974). La sua opera più nota è Introduzione alla storia della pietà, Roma, Storia e Letteratura, 1962.

3) De Rosa non solo è autore di opere di grande valore come Vescovi, popolo e magia nel Sud. Ricerche di storia socio-religiosa dal XVII al XIX secolo, Napoli, Guida, 1983; Tempo religioso e tempo storico. Saggi e note di storia sociale e religiosa dal Medioevo all’età contemporanea, 3 voll., Roma, Storia e Letteratura, 1987-98; Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Roma – Bari, Laterza, 1978; ma forse il suo merito maggiore è stato quello di aver creato una vera e propria «scuola» per la ricerca sulla religione popolare del Mezzogiorno attraverso la regestazione e lo studio dei sinodi vescovili.

4) Cfr G. M, VISCARDI, Tra Europa e «Indie di quaggiù». Chiesa, religiosità e cultura popolare nel Mezzogiorno (secoli XV-XIX), Roma, Storia e Letteratura, 2005, 456, € 54.00. Questo volume raccoglie 13 saggi riguardanti la religiosità del Mezzogiorno, in particolare della Campania e della Lucania.

5) Cfr DE MARTINO, Sud e magia, Milano Feltrinelli, 1983; ID., Morte e pianto rituale nel mondo antico: dal lamento pagano al pianto di Maria, Torino, Einaudi, 1958.

6) C.Levi così descrive il «pianto rituale» per i morti: «Verso l’alba il malato si avviò alla fine. Le invocazioni e il respiro si cambiarono in un rantolo, e anche quello sui affievolì a poco a poco, con lo sforzo di una lotta estrema, e cessò. Non aveva ancora finito di morire che già le donne gli abbassarono le palpebre sugli occhi sbarrati, e cominciavano il lamento. Quelle due farfalle (le figlie del defunto) bianche e nere, chiuse e gentili, si mutarono d’improvviso in due furie. Si strapparono i veli e i nastri, si scomposero le vesti, si graffiarono a sangue il viso con le unghie, e cominciarono a danzare a gran passi per la stanza battendo il capo nei muri e cantando su una sola nota altissima, il racconto della morte. Ogni tanto si affacciavano alla finestra, gridando in quell’unico tono, come ad annunciare la morte alla campagna e al mondo; poi tornavano nella stanza e riprendevano il ballo e l’ululato, che sarebbe continuato senza riposo, fino all’interramento. Era una nota lunga, identica, monotona, straziante. Era impossibile ascoltarla senza essere invasi da un senso di angoscia fisica irresistibile: quel grido faceva venire un groppo alla gola e pareva entrasse nelle viscere» (Cristo si è fermato a Eboli, cit., 206).

7) Cfr J. DELUMEAU, Il cattolicesimo dal XVI al XVII secolo, Milano, Mursia, 1976

8) In Magnum Bullarium Romanorum, V, Augustae Taurinorum, 1960, 296 s.Cfr H. INSTITOR – J SPRENGER, Malleus maleficarum, Spira, Peter Drach, 1486; Il martello delle streghe, Venezia, marsiluio, 1977, 127 s:

9) J. CL. Scmitt, «Religione popolare e cultura folkloristica», il Ricerche di storia religiosa VI (1977), n.11, 9-27.

10) «La religione popolare è così definibile sempre in rapporto a un comando, a un divieto, a un modello che viene dall’autorità ecclesiastica, dalla norma scritta, dalle leggi della Chiesa. Non è cioè una categoria a sé, un’altra religione, con connotati chiaramente autonomi, ma è la stessa religione “ufficiale”, per così dire, vissuta secondo gli umori, gli interessi, le abitudini, le resistenze dell’ambiente storico locale. La religione popolare, in altre parole, non rappresenta una religione più autentica o meno, a seconda dei punti di vista, di quella dei preti e dei vescovi, non è altro termine di una dialettica di distinti: il suo uso serve allo storico sociale che studia comportamenti religiosi e popolari nel rapporto con il modello che per comodità di esposizione chiamiamo “ufficiale”. Anzi, potremmo dire che la “religione popolare” è in sostanza la storia di questo rapporto». (GABR: DE ROSA, «Religione popolare o religione prescritta?», in Chiesa e religione popolare nel Mezzogiorno, Roma-Bari, Laterza, 1978, 7).

11) Le chiese «ricettizie» avevano un patrimonio costituito da beni, censi, decime, amministrati in massa comune, di cui ogni prete era «proporzionario». A far parte del clero «ricettizio» non potevano essere ammessi preti estranei al luogo («forestieri») il vescovo non poteva intervenire nelle faccende interne dell’amministrazione di questo patrimonio, ma doveva limitarsi soltanto alle cose spirituali. Perciò il clero «ricettizio» era sinonimo di clero litigioso e attaccabrighe, geloso della propria «roba», poco incline all’obbedianza verso il vescovo: esso calcolava gli obblighi religiosi del sacerdozio come una rendita della quale vivere. «La struttura ricettizia della Chiesa meridionale è il dato più importante per capire la storia della società religiosa nel Sud: struttura laicale perché di patronato laico, quindi diffidente e sospettosa verso l’autorità del vescovo. E questa struttura, che dava indipendenza al clero paesano, che lo rendeva esperto più di faccende relative ai censo e decime che in questioni di culto divino, conferiva al clero ricettizio molto spesso un senso di immunità anche nella vita morale e civile» (G:DE ROSA, Vescovi, popolo e magia nel Sud, cit., 36-38)

12) G.M. VISCARDI, Tra Europa