Il matrimonio uomo-donna ha duemila anni di ragioni

matrimonio_medioevoIl Foglio 6 aprile 2006

Apologia della tradizione cristiana e della sua difesa della donna contro gli attentati illuministi e ideologici alla sua dignità

di Francesco Agnoli 

Perché questi preti e questi papi devono sempre intervenire in questioni che non li riguardano, loro che non si sposano, non convivono, non pacsano, e non hanno neppure figli? E’ una domanda che si può sentire, talora, anche in ambienti “cattolici”, laddove il magistero laicista abbia fatto tabula rasa del buon senso e della conoscenza storica.

Oppure laddove si stia perdendo, piano piano, il senso reale di cosa sia l’amore e di cosa esso significhi veramente. Sarà bene ricordare, allora, quanto di razionale, di umano, di utile al vivere sociale vi sia nella nostra tradizione cattolica, alla cui costruzione hanno contribuito non soltanto uomini religiosi, ma anche tanti laici, tanti comuni battezzati e non solo.

E’ un fatto storico che la diffusione del cristianesimo nell’Impero romano trova sin da subito nelle donne il suo miglior alleato. Sono le donne, schiave o matrone poco importa, a lasciare per prime il paganesimo, per accogliere con gioia la “buona novella”: proprio loro che nel diritto romano classico erano sotto perpetua tutela, legalmente incapaci, per tutta la vita, salvo qualche eccezione introdotta da Augusto.

Certamente questa condizione di minorità, rimasta sino all’avvento del cristianesimo, toglieva anche all’uomo la possibilità di capire la sua stessa natura, il profondo desiderio del suo cuore. In effetti tutto il mondo antico, prima di Cristo, conosce una donna sottomessa: dove al ripudio, dove alla poligamia, dove a pratiche ancora più terribili, come l’uccisione delle vedove indiane sulla pira dei mariti defunti.

Gli stessi rituali di iniziazione alle varie religioni, sino al battesimo cristiano, sono sempre diversi, a seconda del sesso, a sottolineare così una presunta differente dignità degli iniziati. Col cristianesimo invece l’uomo riconosce appieno la pari dignità tra i sessi e il significato dell’amore: viene invitato alla fedeltà, al sacrificio, in una parola alla monogamia, realizzazione concreta della pari dignità, della interdipendenza e della complementarità tra uomo e donna. “Nec domina nec ancilla, sed socia”, scriveva un filosofo cristiano medievale, mentre d’altra parte gli stilnovisti parlavano addirittura di “donna angelo”, di “mea domina”, “monna”, “mia signora”.

La monogamia (quella vera, che non prevede la possibilità del ripudio), dunque, pur affermandosi storicamente col cristianesimo, non è espressione di un modo di pensare tra tanti, ma è il riconoscimento di un ordine naturale che solo può garantire lo svilupparsi di una vera affettività. Un uomo e una donna, pari in dignità, si uniscono in matrimonio, per realizzare il proprio amore.

Proprio come in natura, dove la singamia tra l’ovulo e un solo spermatozoo, tra milioni, è, appunto, una monogamia! Si potrebbe anche aggiungere che il “matrimonio” tra ovulo e spermatozoo, che darà vita a un figlio, esprime anche geneticamente la complementarità tra l’uomo, con i suoi ventitré cromosomi, e la donna, con i suoi altrettanti cromosomi, per formare una nuova vita.

Divagazione biologica, quest’ultima, che potrebbe sembrare superflua, se non ci fossero alcuni personaggi, che fanno gli scientisti a giorni alterni, e che poi rivendicano la naturalità e la bontà del matrimonio omosessuale, e dell’adozione di un figlio da parte di omosessuali e lesbiche.

Mentre è chiaro, a chi semplicemente voglia osservare la realtà, che da due persone dello stesso sesso, e cioè non complementari né dal punto di vista degli apparati genitali (cioè biologicamente), né spiritualmente, non può nascere nessuno: sempre occorrono, per natura, un ovulo e uno spermatozoo, una Y e una X, un uomo e una donna, e una unione fisica tra loro.

Se torniamo velocemente alla storia dobbiamo constatare che una volta riconosciuto il principio della fedeltà e del rispetto tra coniugi, la chiesa non ha finito la sua missione: è sempre in agguato, nell’uomo, la tentazione a violare il buon senso e la natura, persino con la violenza.

Ecco così comparire, o resistere, come residui del mondo pagano, alcune convinzioni disumane: vi sono, nella nostra Europa cristianizzata, movimenti come i catari e gli gnostici in genere, che condannano il matrimonio e la procreazione, come opere malvagie; strani profeti, che predicano la necessità per le donne di divenire uomini, in spirito, per ottenere la salvezza; filosofi stravaganti, da Tommaso Campanella in poi, passando per gli illuministi Diderot, Restif de la Bretonne e Morelly, che cercano di riportarci, sostanzialmente, alla poligamia, con le loro comode e un po’ maschiliste dottrine sulla “comunione di beni, di donne e di figli” (o con le loro idee sulla liceità dell’incesto, o sulla necessità per le donne sterili, come spiega Diderot nel suo “Supplèment”, di indossare un velo nero che ne denunci pubblicamente la condizione!).

Non mancano neppure, sempre tra i cosiddetti “illuministi”, i sostenitori del modello platonico-spartano, come Gabriel Bonnot de Mably: secondo costui, nei suoi “Entretiens de Phocion”, le donne vanno virilizzate a forza, tramite palestra ed esercizi militari, epperò “devono essere rigorosamente contenute nel recinto domestico, senza accesso alla vita pubblica dove farebbero solo danni”.

Mably è chiarissimo: “Bisogna decidere se farne degli uomini, come a Sparta, o condannarle al ritiro”. E come tralasciare, infine, nella breve carrellata di folli concezioni anticristiane e disumane della famiglia o della donna, la visione di Bernard Le Bovier Fontenelle, probabile autore della “Histoire des Ajaoiens”? Secondo costui la famiglia deve essere espropriata del suo compito educativo, e i bambini vanno consegnati allo stato “che provvede con un’educazione uniforme e collettiva alla costruzione dei perfetti cittadini e perfette cittadine di Ajao”.

Importantissimo: che la donna sia tenuta lontana dalle occupazioni intellettuali, al punto di impedirle di imparare a scrivere. (Maria Moneti Codignola, “Il paese che non c’è e i suoi abitanti”, La Nuova Italia). Eppure, di fronte a tutto questo, ci sarà sempre, per fortuna, qualcuno ad opporsi: per esempio il buon Francesco d’Assisi, cercherà di confutare i catari, esaltando la vita, e quindi anche il matrimonio e la procreazione, e celebrando, col presepio, la sacra famiglia e l’idea di un Dio che si è fatto uomo, e figlio.

E poi non mancheranno i grandi poeti cristiani, Dante, con la sua Beatrice, Petrarca, con Laura, a proporre l’idea di un amore grande, fedele, totale: in cui la donna non sia mai bene di consumo, ripudiabile perché sterile, come sarà ai tempi del codice di Robespierre, oppure ospite di un qualche harem o gineceo, o di qualche comune socialista, o di qualche bordello sacro, come quelli ideati da Charles Fourier, per dilettare gli abitanti dei suoi falansteri.

Ma senza arrivare a tanto, si può ricordare quanto raccontato dallo storico non cattolico Adriano Prosperi, nel suo “I tribunali della coscienza” (Einaudi), o da Rino Camilleri, nel suo “La Santa Inquisizione” (Newton). Ci sono ancora, in età cristiana, nel Seicento, sempre riaffioranti dal passato, matrimoni imposti dagli uomini con un semplice “bacio violento”, bigamie o poligamie occulte, matrimoni forzati anche tra parenti, promesse di matrimonio (“sponsali de futuro”), da parte dei maschi, che non sempre vengono mantenute (la donna viene magari abbandonata all’improvviso, una volta rimasta incinta, perché solo convivente)…

Tutte quelle perversioni, insomma, cui allude don Abbondio, usando male prescrizioni sacrosante, quando elenca a Renzo gli “impedimenti dirimenti”: “cognatio, vis, ligamen, si sis affinis…”. In questi casi la chiesa interviene, con i suoi saggi divieti, per salvare la parte debole, e cioè solitamente la donna, e per rendere il matrimonio un patto chiaro, dinanzi a Dio e dinanzi agli uomini, in cui nessuno possa fare il furbo, prendersi gioco del prossimo.

Così nasce il matrimonio tridentino, al cospetto della comunità, consensuale e immediato: atto solenne in cui gli sposi assumono un impegno, una responsabilità, che è anche, da un punto di vista naturale, una garanzia per loro e per i loro figli. Anche a questi infatti la cristianità ha sempre pensato, introducendo l’obbligo di mantenere anche i figli nati da rapporti adulterini, e creando quella grande opera di carità che furono le ruote degli esposti, in cui genitori indigenti potevano abbandonare al sicuro, e senza conseguenze, i loro bambini. Migliaia di “Marcellini pane e vino” furono salvati da queste ruote, e tanti cognomi ancor oggi lo ricordano: Esposito, degli Esposti, Trovato, Trovai, Proietti, Fortuna.

Poi, nel Novecento, arrivano il comunismo e il nazionalsocialismo, con l’introduzione del divorzio, dell’aborto, e degli accoppiamenti forzati, decisi dallo stato nazista. Françoise Navailh, nella sua “Storia delle donne, Il Novecento”, a cura di F. Thebaud, Laterza, 1992, riferendosi alle conseguenze delle leggi anticristiane di Lenin sulla famiglia, scrive: “L’instabilità matrimoniale e il rifiuto massiccio dei figli sono i due tratti caratteristici del tempo.

Gli aborti si moltiplicano, la natalità cala in modo pauroso, gli abbandoni dei neonati sono frequenti. Gli orfanotrofi sommersi, diventano dei veri mortori. Aumentano gli infanticidi e gli uxoricidi. Effettivamente i figli e le donne sono le prime vittime del nuovo ordine delle cose. I padri abbandonano la famiglia, lasciando spesso una famiglia priva di risorse” (Vedi Desideri-Themelly, “Storia e storiografia”, vol. I-II, D’Anna).

Gli effetti di tale politica divorzista e abortista si vedono ancor oggi: basti pensare quanti e quanto grandi sono gli orfanotrofi negli ex paesi comunisti (Romania, Ucraina, Bielorussia, Russia).

Nell’Italia fascista, invece, anche grazie alla presenza forte dei cattolici, cose simili non accadono: eppure anche la politica familiare di Mussolini è avversata dal mondo ecclesiastico, a differenza di quanto comunemente si crede. Lo spiega bene Giulia Galeotti, nel suo “Storia dell’aborto” (Il Mulino), allorché ricorda l’ostilità della chiesa alla concezione fascista secondo cui “il numero è forza” e i figli devono essere tanti, perché serviranno lo stato, pagheranno le tasse e saranno soldati (la “maternità intesa come patriottismo”).

Questa concezione, infatti, arriva al fascismo non dal cattolicesimo, non dal medioevo oscuro, ma da una visione illuminista e poi ottocentesca, diffusa da non cattolici come Diderot, Giuseppe Compagnoni, Peter Frank e tanti altri.

Secondo il Frank, ad esempio, “la donna gravida non è più semplice moglie del cittadino, ma in un certo modo proprietà dello stato”. In tutti questi casi di cui ho parlato, contro le aberrazioni dei vari filosofi o dei vari regimi, la cristianità si oppose, a difesa dell’uomo, di ogni uomo. Per questo, anche oggi, la chiesa, i battezzati, tutti coloro che hanno a cuore l’uomo, non possono fare a meno di intervenire: per tutelare una istituzione che è sacra (“dal dì che nozze, tribunali ed are”, scriveva persino Foscolo), e coloro che vi sono coinvolti.

Per impedire, magari, che succeda come in molte parti d’Europa, dove un bambino può essere prodotto, da due uomini, comprando un ovulo, più o meno costoso, da unirsi forzatamente (non per amore, ma con una siringa) con uno spermatozoo imprigionato dall’ago, e per usare poi, alla fine, un utero affittato. Un figlio così nascerebbe non dall’amore, ma dalla violenza, in ogni momento della sua “fabbricazione”, sulla natura delle cose.

Non serve essere credenti, per capirlo: basta essere uomini.