Il Gregoriano

gregorianoIl Timone n.115 luglio-agosto 2012 (Rubrica diretta da don Nicola Bux)

di Giammarco D’Amico

Hermann Broch, scrivendo della sua Austria ai primi del Novecento, diceva: «Assolvendo i suoi doveri nei confronti della tradizione, Vienna scambiò per cultura la passione per i musei e divenne essa stessa […] un museo. […] La musealità era dunque riservata solo a Vienna; come segno di declino, come segno del declino dell’Austria».

Affermazione che fa riflettere: quanti musei diocesani sono stati aperti negli ultimi decenni, trasferendovi la suppellettile liturgica? Quanta musica polifonica e quanto canto gregoriano sono passati in sede concertistica? Quanti organi storici restaurati, dopo il concerto di inaugurazione, sono ripiombati nell’assoluto mutismo perché considerati incompatibili con la liturgia rinnovata?

Sono segni di decadenza per l’arte sacra? O per la liturgia stessa, privata delle opere migliori poste al suo servizio, e sostituite con surrogati più comodi e a buon mercato? Qualche tempo fa, Fulvio Rampi, illustre gregorianista, intervenendo nel mio profondo Sud ad un convegno sulla musica sacra a cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, ha icasticamente intitolato la sua relazione “II canto gregoriano: un estraneo a casa sua”.

Sì, un estraneo, perché è sotto gli occhi di tutti l’ostracismo ingiustificato che esso patisce. Nessuno disconosce il valore artistico al canto gregoriano, ma perlopiù gli si nega la sua natura liturgica primigenia e la sua stessa funzione ontologica, condannandolo a sopravvivere, magari come un ospite servito e riverito, in ambienti che sostanzialmente dovrebbero essergli transeunti e provvisori, come raffinate rassegne con-certistiche o incisioni discografiche di gran livello.

A volte anche i lodevoli corsi di canto gregoriano – che, grazie a Dio, continuano a fiorire ovunque – e sono solitamente accolti in chiese illustri, in monasteri insigni, in luoghi di devozione veramente unici, prevedono semplicemente un saggio finale a cura dei corsisti o un concerto. È evidente la difficoltà a riaccoglierlo in casa come fratello e familiare, senza sapere che è uno dei primi famuli del Padrone: esso è, e resta, Parola di Dio cantata.

Ovvero: prima di essere un’opera d’arte è parte integrante e, in alcuni casi necessaria, della liturgia. Si è completamente capovolta la prospettiva esistente prima della riforma solesmense, quando il gregoriano – eseguito male o malissimo – era considerato cifra imprescindibile della liturgia e argine alle degenerazioni secolaristiche dei riti, oggi invece abituati ad accogliere di tutto al loro interno. Dopo più di centocinquantanni di studi, e con un Magistero che autorevolmente suggella tali studi, assistiamo a questi evidenti sviamenti dovuti a quella che il Santo Padre ha definito «ermeneutica della discontinuità».

E ci dobbiamo dunque accontentare di ascoltarlo o eseguirlo in concerto, ovvero nell’equivalente del museo, per le arti figurative: luogo encomiabile, anche idealmente parlando, ma anticamera e al contempo conseguenza della definitiva decadenza, come lo stesso Broch spiegava: «La decadenza verso la miseria porta alla degradazione nella vita puramente vegetativa, ma la decadenza verso la ricchezza porta al museo. La “musealità” è appunto un vegetare nella ricchezza…».

Come la Vienna della Belle Époque destinata a finire nei funesti bagliori della Grande Guerra, la sensibilità cattolica per la vera arte sacra e liturgica, oggi così affetta da “musealità”, è destinata a terminare in un estetismo passatista pago esclusivamente di certa filologia spinta agli estremi confini e senza innesto nella Tradizione, che resta un concetto altamente dinamico?

Ad ascoltare Benedetto XVI e a seguirne l’esempio delle liturgie da lui presiedute, potremo invertire questo trend: se si riacquisisce al senso comune ciò che la legge liturgica prevede e una splendida tradizione ci ha consegnato, si potrà riportare il gregoriano a casa propria, ovvero a servizio del Culto divino.

A volte, sarà eseguito poco raffinatamente, magari sarà poco compreso dal popolo, ma starà al posto suo e ciò non potrà che giovare all’ordine delle cose! Anche qui vale sempre l’antico adagio: Serva ordinem et orda servabit te (Rispetta l’ordine e l’ordine ti salverà).