Europa: laica sì, ma non atea

europaAvvenire, 28 aprile 2006

Il Vecchio Continente è in decadenza come l’Impero romano? Per Marcello Pera si può evitare, se credenti e non collaboreranno per arginare la crisi morale e spirituale

di Marcello Pera

Personamente, non sono ateo. Non nego l’esistenza di Dio e mi oppongo a tutte quelle filosofie che hanno dichiarato la “morte di Dio” o “l’inutilità di Dio”, da Feuerbach a Marx a Comte a Nietzsche a Freud. È per questo che, dei due temi che mi sono stati assegnati, mi occuperò del secondo – la crisi della civiltà europea – e non del primo, l’umanesimo ateistico.
Questo umanesimo, supposto che sia mai stato un umanesimo, è per me morto e sepolto, anche se l’odore di questi cadaveri intellettuali continua ad ammorbare la cultura europea. Feuerbach e Marx esalano ancora secolarismo, Nietzsche il nichilismo, e Freud l’idolatria della scienza ridotta ad un tranquillante per le coscienze.

Per ragioni che non è il caso qui di spiegare, non posso definirmi un cristiano credente. Seguo Pascal, secondo cui Dio è una scommessa, e Kant, secondo cui Dio è un postulato della vita morale. Credo che si debba vivere velut si Deus daretur, o più precisamente, velut si Christus daretur.

Senza l’idea di Dio, quale limite avrebbe la nostra vita morale? Quale giudice resterebbe delle nostre azioni? Di fronte a chi risponderemmo dei nostri comportamenti? Parlando in positivo, mi considero un credente nei valori fondamentali del cristianesimo, la dignità della persona, la vita, l’uguaglianza, la fratellanza, la solidarietà.

Per completare questa breve auto-presentazione, posso aggiungere i tre fatti principali che mi hanno portato alla convinzione che esiste una grave crisi morale e spirituale dell’Europa.

Il primo fatto è la reazione dell’Europa di fronte alla fine del comunismo. Il sentimento più diffuso fra le élite culturali non comuniste dell’Europa occidentale fu più di rimpianto che di soddisfazione, più di nostalgia che di speranza. Si disse: non crediate che tutti i problemi siano risolti. Oppure: non pensiate che gli ideali di giustizia, uguaglianza, miglioramento, autogoverno, che stanno alla base del comunismo si siano dissolti. Più che sentirsi vittoriosa, l’Europa si sentì orfana. Aveva già perso l’identità positiva cristiana e ora non aveva neanche quella negativa anticomunista.

Il secondo fatto che menziono è la reazione dell’Europa all’11 settembre e al fondamentalismo islamico. Il primo giorno dopo l’attacco alle Torri gemelle e al Pentagono eravamo tutti americani. Il secondo giorno lo eravamo solo nei necrologi. Il terzo giorno non c’era più un americano in Europa.

Non mi riferisco alle divisioni sulla guerra in Iraq, mi riferisco a quella strana “sindrome di colpevolezza” da cui siamo affetti, secondo la quale tutto ciò che ci accade, compreso gli attacchi del fondamentalismo e del terrorismo islamico – supposto che ci sia consentito di chiamarlo “islamico” – sono giustificati dalle nostre colpe ed errori.

Il terzo fatto cui mi riferisco è più personale. Si tratta del mio incontro, prima intellettuale e poi personale, con il cardinale Ratzinger poi Benedetto XVI. Quando ho letto che, secondo lui, «il confronto [fra l’Europa] e l’Impero romano al tramonto si impone», la mia convinzione si è rafforzata.

I sintomi della crisi spirituale dell’Europa – della sua «collisione con la sua stessa storia», come dice Benedetto XVI – a me sembrano evidenti. I principali sono: il mancato riferimento alle radici cristiane dell’Europa in una Costituzione che inizia citando Tucidide e prosegue riferendosi a tradizioni mai menzionate col loro nome; una fioritura di legislazioni nazionali contrarie ai valori fondamentali del cristianesimo, come la vita, la dignità umana, il matrimonio; la secolarizzazione assunta come ideologia o come una sorta di religione di stato; il rifiuto, quale non si vede in America, di consentire alla religione di giocare un ruolo nella sfera pubblica; il multiculturalismo, che è una forma di integrazione degli immigrati che non attribuisce valore particolare alla tradizione autoctona; il relativismo, che è la dottrina secondo cui nessuna cultura o civiltà può essere compara ta con alcun’altra, per cui tutte hanno la stessa dignità.

Se questa è la crisi, qual è il rimedio? La mia risposta è duplice: un progetto culturale a favore di una religione civile cristiana, e l’adozione di politiche coerenti con questo progetto. Ho avanzato l’idea di una religione civile cristiana nel libro Senza radici scritto con l’allora cardinale Ratzinger.

Quando dico “religione” mi riferisco ad una fede, un credo. Come tutte le religioni, essa è un atteggiamento antecedente alle nostre decisioni culturali e politiche, è una cornice o una guida delle nostre scelte di vita. “Civile” significa che essa è un costume collettivo, il quale fornisce un ethos, cioè un’identità a individui e popoli. In questo senso, “civile” non solo non è incompatibile con le varie confessioni religiose cristiane professate in Europa, ma si accorda con i fondamenti di ciascuna di esse. Questo spiega perché una religione siffatta deve essere “cristiana”. Nel senso che i suoi valori sono quelli che, in Europa, sono stati tramandati dalla tradizione giudaico-cristiana.

C’è ora da chiedersi: chi può impegnarsi in questo progetto culturale? In primo luogo, ovviamente, dovrebbero farlo i cristiani credenti e perciò la Chiesa cattolica e le varie Chiese cristiane europee. In secondo luogo, alla religione civile cristiana dovrebbero essere interessati anche i non credenti, perché essa non implica necessariamente una fede trascendente. In terzo luogo, il progetto dovrebbe essere perseguito da tutti coloro che si richiamano ai princìpi del conservatorismo politico, in particolare la difesa della tradizione, che in Europa, nonostante la cattiva coscienza di coloro che abbozzarono la Costituzione, è la tradizione cristiana. (…)

Nella sua replica al mio scritto, il Papa non rigetta la mia tesi, ma avanza due condizioni: che credenti e non credenti dovrebbero impegnarsi in un vero dialogo, senza barriere; che i non credenti non dovrebbero escludere che la ragione a cui si riferiscono possa essere aperta alla dimensione religiosa. Personalmente, penso che entrambe le condizioni possano essere accettate.

Più precisamente, penso che già esista un terreno comune su cui sia possibile iniziare a lavorare: i diritti umani fondamentali. Il problema che essi pongono è: se, come dicono anche le nostre costituzioni nazionali, questi diritti non sono “creati” dagli Stati, ma da essi “riconosciuti”, da dove derivano?

La risposta dei credenti, come dice il Papa, deriva dalla «fede cristiana [che] vede il mistero del Creatore e la condizione dell’uomo fatto a sua immagine». La risposta dei non credenti non può fare riferimento alla rivelazione cristiana. Tuttavia, se essi vogliono usare la forza della sola ragione e assicurarsi che questi diritti siano garantiti a tutti e ciascuno, allora è dovere dei non credenti sviluppare una teoria razionale dei diritti umani fondamentali, cioè un’antropologia o etica universale in cui questi diritti siano l’impronta di ogni uomo in quanto uomo. (…)

Concludo con una domanda. Ci sono ancora – fra i credenti, i non credenti, gli intellettuali, i politici, gli opinionisti, le Chiese europee – uomini di volontà e di coraggio, non timidi, non arrendevoli, non inclini solo al quieto vivere, non acquiescenti all’ipocrisia del linguaggio intellettualmente corretto ma politicamente suicida, i quali vogliano invertire il corso della crisi europea? Credo – voglio credere – che ci siano.

Ma se la risposta dovesse essere negativa, allora il confronto fra l’Europa di oggi e l’Impero romano al tramonto, di cui parlava il cardinale Ratzinger, diverrebbe di tragica attualità.