Dimezzare i poveri insegnando a produrre

lavoro_AfricaMondo e Missione – rivista del PIME – giugno luglio 2005

di padre Piero Gheddo

Interessante il “Rapporto mondiale sull’occupazione 2004-2005” pubblicato nel dicembre2004 dall’ILO (Organizzazione Internazionale del Lavoro), organismo dell’ONU. Risponde in termini concreti alla domanda: perché sono poveri? E dimostra la falsità dello slogan: loro sono poveri perché noi siamo ricchi. Si dovrebbe dire: sono poveri perché producono poco. Il direttore generale dell’Ilo, Juan Somavia, dice che “la povertà non solo è dovuta alla mancanza di lavoro, bensì alla natura poco produttiva di questo lavoro. L’aumento della produttività è il motore della crescita economica, che consente ai lavoratori di guadagnare abbastanza per uscire dalla trappola della povertà”.

Sui 2,8 miliardi di occupati nel 2003, circa la metà vivono con meno di due dollari al giorno (550 con meno di un dollaro al giorno): non basta avere un lavoro per non essere poveri, bisogna avere “un lavoro decente e produttivo”, cioè produrre di più e meglio e questo vale soprattutto nel campo agricolo, che è la base di ogni sviluppo economico.

Nei paesi in via di sviluppo (o di sottosviluppo!) il settore agricolo impiega il 40% della popolazione attiva e produce solo il 20% del reddito nazionale (Pil). Come ho detto tante volte, a Vercelli produciamo 75 quintali di riso all’ettaro, nell’agricoltura tradizionale africana solo 5 quintali. L’abisso fra 75 e 5 è l’abisso fra ricchi è poveri. Poi ci sono molte altre concause, ma questa sta alla base della povertà: se non si produce, si rimane poveri.

Nel nostro mondo ricco si discute su cosa possiamo fare per aiutare i popoli poveri ad evolversi. Si parla molto di aiuti economici e tecnici (e certamente ci vogliono), non si parla mai del bassissimo tasso di produttività dell’agricoltura e dell’industria di questi paesi: l’aiuto dovrebbe anzitutto consistere nell’aiutare ad elevare questo tasso di produttività attraverso l’educazione dei poveri e la creazioni di condizioni adatte per produrre: pace, diritti umani, stabilità politica, democrazia, libertà economica.

Secondo l’ILO, dal 1993 al 2003 i paesi industrializzati hanno aumentato del 14,9% il loro tasso di produttività, l’Asia dell’Est del 75,0%, l’Asia del Sud del 37,8%, il Medio Oriente e Africa del nord dello 0,9%, nell’Africa subsahariana la produttività è diminuita dell’1,5%! Il Rapporto dell’ILO esamina i fattori che sono centrali per una maggior produttività: innovazione tecnologica, regolamentazione del mercato del lavoro, regole commerciali più eque, riconoscimento dei diritti di proprietà, ecc.

Anche in questo Rapporto sono del tutto ignorati i fattori culturali ed educativi. Sembra che tutti gli uomini e tutti i popoli siano su piano di parità riguardo alla produzione (agricola ad esempio) e se alcuni producono poco o quasi niente, occorre trasferire tecnologie, macchine, regolare il commercio, ecc. Ma non è così. Non si dice una grande verità: tutti gli uomini sono uguali per natura: tutti creature di Dio, stessa dignità, stessi diritti, stesse potenzialità; ma sono diversi per cultura, religione, storia, tradizioni, mentalità, costumi, strutture familiari e sociali: non si dice mai che vi sono culture e religioni che favoriscono lo sviluppo e altre che lo ostacolano!

Commentando questo Rapporto dell’ILO, il Cespas (Centro Europeo di Studi su Popolazione, Ambiente e Sviluppo, cespas@cespas.org) scrive: “Se l’Occidente è da secoli la forza trainante del mondo è perché ha alle sue fondamenta la cultura cristiana e l’educazione alla realtà che ne consegue. Per aumentare la produttività è perciò urgente investire maggiormente nell’educazione, che per l’uomo è domanda di senso davanti al suo lavoro. Solo da qui nasce un vero sviluppo umano”.

Quindi, la cultura occidentale è superiore alle altre? No, ogni cultura ha la sua dignità e i suoi valori ed è servita, ad un determinato popolo, per sopravvivere nelle situazioni in cui si è trovato (clima, isolamento in territori vastissimi e spopolati, povertà di risorse, tempo preistorico, ecc.). Ma nel tempo della globalizzazione, lo sviluppo dell’umanità mette in risalto l’importanza della cultura per lo sviluppo, che ha in sé, soprattutto nelle sue radici religiose, i valori vincenti.

Vent’anni fa un docente dell’Università di Trento, Franco De Marchi, profondo conoscitore dell’Estremo Oriente, scriveva (non trovo più la citazione esatta) che i popoli orientali hanno adottato dall’Occidente cristiano le tecnologie, le leggi, la democrazia, i metodi produttivi; insomma tutto quello che favorisce lo sviluppo economico e sociale. Ma ignorano le filosofie occidentali e il cristianesimo che stanno alla base e sono il motore che ha trasformato le società cristiane portandole allo sviluppo.

A lunga scadenza, prevedeva, questo porterà gli orientali ad una schizofrenia fra quello che credono e quello che vivono e non potranno evitare di interrogarsi sulle loro culture e credenze religiose. Giovanni Paolo II afferma con parole forti nella “Centesimus Annus” (n. 5): “Non c’è vera soluzione del problema sociale fuori del Vangelo”.