Con la lettera ai vescovi il Papa ammonisce i suoi e sfida la storia

lefebvrianiL’Occidentale, 15 marzo 2009

 di Stefano Fontana

La Lettera che Benedetto XVI ha inviato a tutti i vescovi del mondo per chiarire le ragioni del ritiro della scomunica ai quattro vescovi consacrati da Lefebvre può sembrare un segno di debolezza e quindi sconcertare,  ma anche un segno di forza, se si crede veramente che la verità e la carità siano la vera forza.

Non era mai successo che un papa parlasse pubblicamente di cattolici che “hanno pensato di doverlo colpire con una ostilità pronta all’attacco”.Ostilità che ha preso spunto dalla questione del ritiro della scomunica, ma che “rivela ferite risalenti al di là del momento”. Non era mai successo che un pontefice denunciasse pubblicamente di essere stato “trattato con odio senza timore e riserbo”, senza che gli fosse concessa nemmeno la tolleranza che solitamente non si nega a nessuno.

E’ chiaro che la Lettera non parla tanto ai Lefebvriani, né agli Ebrei, ma parla ai vescovi cattolici, dei vescovi cattolici. Il papa si lamenta del comportamento dei “suoi”, non degli altri. Certamente deplora il caso Williamson, che “si è sovrapposto alla remissione della scomunica” e afferma che la Fraternità San Pio X ha fatto sentire “molte cose stonate, superbia e saccenteria”.

Quanto agli ebrei, addirittura li ringrazia, perché hanno capito che nella remissione della scomunica non c’era nessun ritorno indietro rispetto ai passi di riconciliazione tra cattolici ed ebrei fatti dopo il Concilio, passi che – ci tiene a dirlo il papa – “fin dall’inizio sono stati un obiettivo del mio personale lavoro teologico”. Negando questi passi egli negherebbe non solo l’operato dei suoi predecessori, ma anche il suo personale lavoro di teologo.

Il problema è dentro la Chiesa e non fuori. Dentro la Chiesa troppi aspettavano il momento opportuno per scagliarsi contro di lui ed accusarlo di voler tornare indietro a prima del Vaticano II o di occuparsi di cose marginali anziché dell’evangelizzazione. “Mordere e divorare” sono le parole adoperate da San Paolo per descrivere la situazione presso i Galati, che egli stigmatizza nella sua Lettera. Benedetto XVI confessa, da esegeta, di aver sempre inteso quelle parole di Paolo come enfatiche e retoricamente eccessive, ma di essersi accorto che rappresentano invece l’attuale realtà dentro la Chiesa.

Da tempo i giornali divagano nel fare nomi di alti prelati favorevoli e contrari alla linea di questo pontefice. Osservatori attenti da tempo segnalano problemi di governo dentro la curia romana. Tutto questo senz’altro esiste, ma certamente è anche sempre esistito. Segretari e cardinali fanno spesso muro attorno al papa, talvolta per proteggerlo, talaltra per isolarlo. E il carattere di Ratzinger non è quello di Wojtyla. Ma è evidente che c’è di più, oltre le normali beghe umane che non risparmiano nessun ambiente.

C’è che questo papa ha tracciato una linea molto precisa. Anche in questa Lettera di denuncia egli precisa che se sbagliano i lefabvriani a non accettare il magistero dei pontefici successivi al 1962, sbagliano anche quanti pensano che il Vaticano II sia stato un nuovo inizio, dato che invece “porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa”.

Il punto, in fondo, è uno solo: se Dio debba avere un posto in questo mondo. Se la natura e la ragione umana siano ordini di per sé sufficienti o se abbiamo bisogno di speranza e di salvezza, se la vita “senza elemento religioso” divenga “come un motore che non ha più olio” (Guardini) oppure no. Benedetto XVI ha tracciato la linea che no, il mondo non ce la fa da solo e il cristianesimo deve tornare ad essere una forza che anima la storia, presente nell’ambito pubblico e, soprattutto, consapevole di essere la religione “vera”.

Il cristianesimo pone alla ragione (al mondo) il problema della sua verità, la aiuta a chiarirsene l’idea e la rende quindi capace di capire la verità stessa del cristianesimo. Questo papa ritiene che il cristianesimo e solo il cristianesimo faccia sì che il mondo si riappropri di se stesso e si renda pienamente conto della sua verità. Non è integralismo, perché non appiattisce i due livelli l’uno sull’altro, ma toglie definitivamente spazio ai sottili distinguo dei vescovi liberal, dei teologi progressisti e dei cattolici della carità senza verità.

Nella Lettera, con gusto tragico per l’ironia, Benedetto XVI nota che molte critiche gli sono state lanciate perché si sarebbe occupato di cose marginali come la Fraternità di Lefebvre e non della evangelizzazione. Sono pretesti, perché quanti criticano su questo punto il papa vorrebbero una “Chiesa minima” che accompagna e non annuncia.

Per questo egli nella Lettera rende noto di sapere bene cosa sia la  priorità del Successore di Pietro: “rendere Dio presente in questo mondo”. Proprio quello che molti critici, con ogni probabilità, guardano con sospetto, segno, secondo loro, di un ritorno indietro contrario allo “spirito” del Concilio.

Mai un papa aveva mostrato in questo modo la sua debolezza. Però questa Lettera sconcerta solo per un po’, a prima vista. Poi vi si nota la forza della verità, la capacità di riconoscere addirittura propri errori procedurali e soprattutto la rivendicazione della vera forza del cristiano, la carità: “Non dovrebbe la Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede”?

Il papa della Verità è anche il papa della Carità. La guerra è ancora lunga, ma la vittoria è già sua.

(A.C. Valdera)