Chi vuole nuovi altari alla dea Vittoria?

Agostino a Milano

Agostino, inviato da Simmarco, giunge a Milano per incontrare Ambrogio

Avvenire 3 ottobre 2007

Siamo tornati alla disputa fra Ambrogio e Simmaco nel IV secolo: una sfida che oppone credenti e neopaganesimo

di Rino Fisichella

La Chiesa ha una responsabilità del tutto peculiare in questo frangente della storia. Se lo sguardo è capace di cogliere l’oriz­zonte entro cui si pongono i diversi elementi che segnano il dramma dell’attuale momento storico, è facile comprendere l’aspettativa che mol­ti ripongono sui suoi interventi. So­no ancora sotto gli occhi di tutti le chilometriche code di attesa di quan­ti hanno voluto rendere un ultimo sa­luto a Giovanni Paolo II.

Credenti e non credenti sono colpiti da manife­stazioni di popolo così massicce. Ai tanti interrogativi che questi avveni­menti sollecitano si troverà sempre una risposta più o meno interessan­te. A chi vedrà in esse una mancan­za di intelligenza, perché si riduce la fede a emozione, risponderà un altro che andrà a scomodare i principi del­la psicanalisi per dimostrare che sia­mo di fronte a una generazione sen­za padre.

Non mancherà mai qual­cuno disposto a esprimere la propria opinione sulla Chiesa cattolica.  Cosa spinge, dunque, ad avere tanta attenzione verso la Chiesa se non so­no le sue manifestazioni di popolo né i suoi capi carismatici né tanto meno il numero crescente dei suoi fedeli a riportare in primo piano l’e­sigenza del sacro e l’importanza del­la religione per la vita? A noi sembra di trovare una risposta nel momen­to culturale che stiamo attraversan­do. Più volte ho avuto occasione di ri­badire che quanto stiamo vivendo trova una sua analogia con la crisi vis­suta nel IV secolo.

Come allora, an­che oggi siamo dinanzi alla grande sfida tra cristianesimo e paganesimo; ognuno porta le sue motivazioni e cerca di arrestare l’avanzata dell’altro. In questo frangente non sarà inutile riportare alla mente il grande dibat­tito tra Ambrogio e Simmaco. Di fat­to, la discussione era incentrata sul­lo scontro tra l’imporsi del cristiane­simo e l’eclissi della religione roma­na. Ambrogio e Simmaco e­rano coetanei; forse, da par­te di madre, anche parenti.

Erano cresciuti insieme e si può ritenere che fossero a­mici; sul versante della reli­gione, tuttavia, il vescovo di Milano e il prefetto di Roma si trovavano agli antipodi. Se­guire per brevi accenni i te­sti che contengono questa diatriba mostra con eviden­za i contenuti della posta in gioco. Il pretesto era stato for­nito dall’altare della dea Vit­toria, posto all’interno della curia, da­vanti al quale i senatori dovevano giu­rare fedeltà all’imperatore e alle leg­gi di Roma mentre offrivano incenso e vino in onore della divinità. L’alta­re, innalzato da Augusto nel 29 a.C., venne rimosso da Costanzo II, figlio di Costantino nel 357; ricollocato nel Senato per il breve periodo di Giu­liano l’apostata, fu definitivamente tolto da Valentiniano II.

Simmaco diventa il portavoce dei se­natori pagani i quali per ben due vol­te lo inviano presso l’imperatore af­finché ripristini l’uso dell’altare del­la dea Vittoria unitamente ai privile­gi che accompagnavano la religione di Stato. La richiesta di Simmaco fu respinta da Valentiniano II con la pie­na soddisfazione di Ambrogio, che e­ra ripetutamente intervenuto con le sue Lettere per contrastare le tesi del prefetto di Roma.

Dietro la questione dell’altare della dea Vittoria, comunque, si celavano non solo due concezioni differenti di religione, ma due religioni diverse; la vecchia romana e la nuova cristiana, che venivano ormai a scontrarsi in maniera definitiva. Per gli antichi gre­ci come per i romani, la religione e­ra di triplice natura: mitologica per i poeti, naturale per i filosofi e politica per gli uomini di governo.

Questa di­visione, pensata dagli stoici, è testi­moniata da un passaggio del De civi­tate Dei di sant’Agostino che riporta il pensiero di Varrone in proposito. La religione di Roma consisteva es­senzialmente nel suo essere politica e pubblica; era convinzione profon­da che la salvezza dell’impero di­pendesse dal rispetto e dalla pratica della religione. Per essere grande, Ro­ma doveva essere sotto la protezione degli dèi e questi richiedevano il cul­to dei cittadini; di conseguenza, ogni mancanza di prassi religiosa si con­figurava come un attentato alla so­pravvivenza stessa dell’impero.

Lo Stato, quindi, doveva garantire con le sue leggi che i cittadini esercitas­sero il culto alle divinità, senza per questo interferire nella loro vita pri­vata. È facile verificare il concetto sot­tostante: da un lato, si codifica la di­stinzione tra coscienza individuale e conformismo pubblico; dall’altro, si raggiunge l’identificazione tra sfera pubblica e prassi religiosa. Questa comprensione aveva portato, di vol­ta in volta, alla condanna dei culti pri­vati o segreti e all’assunzione nel pantheon di un sincretismo di divi­nità senza confronti.

Era inevitabile che questa compren­sione della religione entrasse in rot­ta di collisione con il cristianesimo. Gli antichi romani, d’altronde, nel classificare il cristianesimo come re­ligio illicita non facevano altro che applicare la legge. I cristiani, insom­ma, non erano considerati cattivi cit­tadini – e per questo condannati – perché adoravano un loro Dio, ma perché la loro religione impediva di riconoscere pubblicamente gli dèi romani.

Ciò che si veniva a frantu­mare era la concezione stessa di re­ligione come un atto dello Stato a cui sottomettersi. Per i cristiani, pertan­to, era impensabile accettare il du­plice principio romano: identifica­zione della sfera sacra con quella pro­fana e separazione tra prassi religio­sa pubblica e vita privata. Il princi­pio a cui si ispiravano: «Date a Cesa­re quello che è di Cesare e a Dio quel­lo che è di Dio» ( Lc 20,25) minava al­la base i presupposti su cui era fon­data l’organizzazione dell’impero ro­mano e la sua comprensione multi­razziale che faceva sintesi nel rico­noscimento della divinità dell’impe­ratore e del patto che questi compi­va con le diverse divinità per il man­tenimento della pax romana.

Il cri­stianesimo, per sua stessa natura, non avrebbe mai potuta accettare quella forma di simulazione che i ro­mani richiedevano: in pubblico o­norare la divinità dell’imperatore e in privato pregare il proprio Dio. Una prospettiva oggi accettata passi­vamente da molti che, di fatto, han­no riportato le lancette dell’orologio indietro di alcuni secoli, proprio su un tema vitale per la religione cri­stiana. Come si nota, il problema si ripropone intatto ai nostri giorni.

Certo, non viene chiesto ai cristiani di riconoscere la sacralità dello Sta­to; ciò che si vuole imporre, invece, è un’idea privatistica della religione senza alcuna incidenza nella vita pubblica. Questa prospettiva, co­munque, gioca sull’equivoco di fon­do che un cristiano non potrebbe mai accettare: isolare la fede dalla vi­ta. Di fatto, si verrebbe a confinare l’impegno nel mondo all’interno di una schizofrenia che indebolirebbe sia la fede che l’impegno nella so­cietà, per una mancanza di richiamo reciproco che vuole la fede incarna­ta e l’impegno per la trasformazione del mondo finalizzato al vero pro­gresso di ogni persona e al bene di tutti.

Il problema che siamo dunque chia­mati ad affrontare nei diversi ambiti della vita pubblica appare sempre di più quello etico. È qui che si gioca la sfida del futuro. La questione etica dice molto di più. Essa indica il con­cetto stesso di vita, e precisa i legami che relazionano la scienza e la tecni­ca con i principi che stanno alla ba­se di una genuina scienza e di una tecnologia al servizio dell’uomo. Eti­ca è promozione e difesa della vita, sempre; dal suo inizio fino alla sua fi­ne secondo quella norma che la na­tura porta impressa su di sé e il cui ri­spetto costituisce la realizzazione e il compimento di ogni persona.

(A.C. Valdera)