Cattolico, intelligente e liberale? 

Duc in Altum 28 Novembre 2025

Aldo Maria Valli

Cari amici di “Duc in altum”, il contributo di Martin Grichting che qui vi propongo probabilmente non piacerà a molti di voi. L’argomento è insidioso e può facilmente essere equivocato: si tratta del rapporto tra l’essere cattolico e avere un’impostazione liberale nell’analisi delle questioni sociali, politiche ed economiche.

Il problema sta in larga parte nel significato che si attribuisce al termine “liberale”, interpretabile in molti modi diversi. Per quanto mi riguarda, mi sono sempre considerato liberale nel senso di antistatalista, favorevole all’iniziativa privata e attento alla valorizzazione della persona, contro ogni forma di massificazione e di coercizione imposta dal Leviatano che per la sua natura totalizzante tutto pretende di controllare e indirizzare. Al riguardo, ritengo che la lezione di Alexis de Tocqueville, specie nel suo capolavoro “La democrazia in America”, sia quanto mai attuale e andrebbe recuperata.

Non stupirà quindi che sia nata una sintonia tra il sottoscritto e Martin Grichting, studioso di Tocqueville e, più in generale, della relazione tra Chiesa e Stato nell’epoca del pluralismo.

Don Martin Grichting, che per “Duc in altum” ha già pubblicato diversi articoli, è presbitero della diocesi di Coira, in Svizzera. Il presente saggio è uscito in lingua tedesca qui.

Tra gli scritti di Martin Grichting ricordiamo “Nel proprio nome, sotto la propria responsabilià” (Cantagalli) e “Religion des Bürgers statt Zivilreligion. Zur Vereinbarkeit von Pluralismus und Glaube im Anschluss an Tocqueville” (“Religione del cittadino invece di religione civile. Sulla compatibilità del pluralismo e della fede secondo Tocqueville”).

A.M.V.

di Martin Grichting

L’arcivescovo di Fulda Johannes Dyba (1929-2000) era un pastore coraggioso e ortodosso, che possedeva anche le “qualità di Chesterton”: sapeva esprimere in modo conciso cosa significasse essere cattolici. Riguardo al fenomeno del Partito dei Verdi, che già ai suoi tempi era schizofrenico perché voleva proteggere le uova di rana ma allo stesso tempo sosteneva la legalizzazione dell’aborto dei nascituri, Dyba affermò: non si possono essere tre cose contemporaneamente: cattolici, verdi e intelligenti. O si è intelligenti e verdi. Allora non si è cattolici. Oppure si è cattolici e intelligenti. Allora non si è verdi. Oppure si è cattolici e verdi. Allora non si è intelligenti.

Una domanda che oggi preoccupa molti credenti è simile: si può essere cattolici, liberali e intelligenti? La risposta è complicata. Perché “liberale” era ed è un termine ambiguo. Va precisato fin dall’inizio che qui si parla di liberalismo politico, non dei cosiddetti “cattolici liberali” che rifiutano e combattono parti della dottrina della Chiesa e quindi si allontanano dalla Chiesa. In questo contesto, “liberale” non significa neanche “di sinistra”, come spesso viene inteso nei paesi anglosassoni.

Da un punto di vista storico, cattolicesimo e liberalismo politico non sono mai andati d’accordo. Pio IX (1846-1878) condannò aspramente quest’ultimo. E i principali esponenti del liberalismo del XIX secolo, come John Stuart Mill (1806-1873), non risparmiarono critiche al cristianesimo e alla Chiesa cattolica. Dal punto di vista politico, nel XIX secolo in molti paesi non ci si facevano sconti.

In questi conflitti, tuttavia, sorge la domanda: cosa è venuto prima, l’uovo o la gallina? Non bisogna infatti dimenticare che prima della Rivoluzione francese la gerarchia ecclesiastica cattolica nobiliare aveva stretto un patto con l’aristocrazia e contribuito a censurare i precursori intellettuali del liberalismo. Non pochi illuministi furono esiliati, altri finirono in prigione o furono costretti a operare clandestinamente. La sovversione con cui reagirono è evidente nell’esempio dell’enciclopedia di Diderot. Egli dovette presentare ai suoi censori articoli ortodossi sulla dottrina cattolica. Tuttavia, l’autore dell’articolo sugli antropofagi, Edme-François Mallet, che tra l’altro era un prete, lo corredò con i riferimenti incrociati “vedi: Eucaristia, Comunione, Altare”.

Ma la Rivoluzione francese ha ucciso molti sacerdoti e causato un massacro nella Vandea. Inoltre, si obietta, ha voluto distruggere la Chiesa. In effetti, durante la Rivoluzione si è scatenata una rabbia enorme contro l’aristocrazia consapevole del proprio potere e la gerarchia ecclesiastica di sangue blu ad essa alleata. Molti innocenti hanno perso la vita. Chiunque sia stato a Les Lucs-sur-Boulogne nella Vandea può immaginare cosa sia successo in tutto il Paese. Solo in questo villaggio, le truppe rivoluzionarie hanno ucciso circa mille persone, civili, donne e bambini. Il ricercatore tedesco-americano Ulrich L. Lehner parla di genocidio in riferimento alle atrocità rivoluzionarie. Migliaia di sacerdoti e religiosi sono stati vittime dell’odio dei rivoluzionari in quegli anni. A titolo esemplificativo si citano le 16 carmelitane di Compiègne, ghigliottinate a Parigi nel 1794 perché si erano rifiutate di rinnegare i loro voti religiosi. La Chiesa stessa fu espropriata. Questi atti commessi in nome della libertà e della ragione macchiarono la reputazione dell’Illuminismo e della Rivoluzione francese e contribuirono in modo significativo al rifiuto da parte della Chiesa dei diritti fondamentali, della democrazia e del liberalismo nel XIX secolo.

La Chiesa pre-rivoluzionaria fu allo stesso tempo vittima e carnefice. Può essere oggi un modello da seguire? Alcuni esempi dimostrano perché, nonostante tutto ciò che è poi accaduto durante la Rivoluzione, ciò non può essere possibile. Prima della Rivoluzione francese, 27 famiglie nobili occupavano il 90% dei 136 seggi vescovili. Certamente c’erano anche prelati esemplari. Ma molti si dedicavano ad attività secolari. Infatti, non erano diventati sacerdoti, poi abati e vescovi, per attitudine e inclinazione, ma per ragioni dinastiche, in quanto figli secondogeniti di coloro che dettavano legge nello Stato. In quanto tali, si allearono con lo Stato, anche contro il Papa. Prima della Rivoluzione, il Papa non aveva praticamente alcuna voce in capitolo in Francia. Erano infatti i re a decidere chi diventava vescovo. Inoltre censuravano il Papa, i cui decreti potevano essere pubblicati solo con il loro placet.

La Rivoluzione francese ebbe inizio anche perché il primo stato, il clero, era diviso. La maggioranza era costituita da parroci provenienti dalla borghesia e dal mondo contadino. Spinti da una profonda avversione nei confronti dei vescovi nobili, spesso arroganti, all’occasione degli Stati Generali del 1789 questi sacerdoti passarono al terzo stato, ai rappresentanti del popolo. Ciò portò al crollo del sistema degli stati dell’Ancien Régime.

Ma la Francia era uno Stato cattolico in cui i re proteggevano la Chiesa, si obietterà. Sì, proteggevano la Chiesa. Ma lo facevano anche umiliandola e riducendola a loro strumento. E lo facevano anche combattendo sanguinariamente gli ugonotti, uccidendone molti e cacciandone centinaia di migliaia. Anche per questo, durante la Rivoluzione, il re e la Chiesa pagarono il conto. Il motivo di queste persecuzioni era l’allontanamento dal messaggio biblico. Infatti, oltre il primo millennio, era valsa la parabola di Gesù secondo cui bisognava lasciare crescere la zizzania e il grano e lasciare che fosse il Signore della messe a giudicare alla fine (Mt 13,24-30).

Come sostiene in modo convincente lo storico della Chiesa di Münster Arnold Angenendt, nel Medioevo si sviluppò invece la tesi impaziente secondo cui l’errore non aveva diritto di esistere. In questo modo il cristianesimo fornì argomenti a favore dell’uso della violenza. Lo Stato lo accettò volentieri, poiché il suo principio era “une foi, une loi, un roi” – una fede, una legge, un re. Gli ugonotti non minacciavano solo l’unità della religione di Stato. La loro fede individualistica era considerata sovversiva anche nei confronti della monarchia. Il gallicanesimo, l’alleanza tra trono e altare, era quindi uno strumento di dominio politico per garantire quest’ultimo anche dal punto di vista religioso. E solo per ricordare: il re più cristiano, il Re Sole Luigi XIV (1638-1715), ebbe almeno 16 figli illegittimi da cinque donne. Luigi XV (1710-1774) ebbe più di venti figli illegittimi, generati da quasi altrettante donne. Al confronto, l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder, con i suoi cinque matrimoni, è un principiante assoluto.

Fu Napoleone che, insieme a papa Pio VII (1800-1823), risolse il caos ecclesiastico causato dalla Rivoluzione francese mediante il Concordato del 1801. Ma anche il corso asservì la Chiesa. Quando se ne andò e i fratelli di Luigi XVI ‒ giustiziato nel 1793 ‒ salirono al potere nel 1814 (Luigi XVIII e Carlo X), cercarono di riportare in vita l’Ancien Régime. Ma fallirono miseramente. La gerarchia ecclesiastica non aveva imparato nulla dall’Ancien Régime. Così, nel XIX secolo, la Chiesa finì progressivamente ai margini dello Stato e della società. Nel 1905, infine, un’alleanza liberale-massonica-socialista impose la separazione tra Stato e Chiesa. Il Concordato del 1801 fu abrogato. Per la prima volta nella storia, il Papa poteva ora nominare liberamente i vescovi in Francia. E i cattolici francesi oppressi ritrovarono dopo secoli il loro punto di riferimento nel papato. In altre parole: la Chiesa in Francia fu liberata e resa fedele a Roma dai suoi acerrimi nemici: i liberali e i massoni. Naturalmente questi ultimi lo fecero contro la loro volontà, perché volevano distruggere la Chiesa, non liberarla. Tuttavia, in questo modo la Chiesa ottenne una libertà che i “re cristianissimi” le avevano negato per secoli.

Se si considera questo passato in parte contraddittorio e paradossale, bisogna ammettere che non c’è motivo di provare nostalgia. Ma è altrettanto chiaro che ciò che è stato creato negli ultimi decenni da alcune forme di liberalismo è un affronto alla fede cristiana. Nessuno potrà negarlo. L’aborto come diritto umano, l’eutanasia e il favoreggiamento della stessa, il circo LGBT o il matrimonio omosessuale allontanano i cristiani dalla democrazia liberale. E questo spinge alcuni di loro a cercare un ritorno ai tempi passati, proprio come hanno fatto i crimini della Rivoluzione francese.

Tuttavia, con il Concilio Vaticano II, la Chiesa ha cercato di trovare un accordo costruttivo con la forma di governo che deve molto al pensiero liberale. Ha potuto farlo perché il liberalismo, almeno in parte, non è più quello del XIX secolo. Friedrich August von Hayek, uno dei più importanti pensatori liberali del XX secolo, lo ha espresso nel suo classico “La costituzione della libertà”: “Contrariamente al razionalismo della Rivoluzione francese, il vero liberalismo non è in conflitto con la religione e non posso che deplorare l’atteggiamento militante e sostanzialmente illiberale antireligioso che ha alimentato il liberalismo continentale del XIX secolo”.

Analogamente, papa Benedetto XVI ha affermato nel suo discorso natalizio alla Curia del 2005: “Nel periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo”. E, nel senso di una revisione delle precedenti posizioni della Chiesa, ha affermato: “Dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in sé stessa mutevole”.

Papa Benedetto descriveva così la convinzione dei padri del Concilio Vaticano II. Questi non volevano preparare il terreno a un “cattolicesimo liberale” che distruggesse i contenuti della dottrina della fede. Piuttosto, svilupparono un atteggiamento costruttivo della Chiesa nei confronti delle democrazie legate al liberalismo. Ciò comportava anche un riorientamento della missione dei laici, che sono allo stesso tempo cittadini della città terrena.

Senza dubbio si può rimproverare al Concilio un eccessivo ottimismo, forse anche un po’ di ingenuità. Ma il Concilio era anche realista, proprio come si dice di Winston Churchill, che avrebbe affermato: “La democrazia è la peggiore forma di governo, eccetto tutte le altre”.

I vescovi del Concilio Vaticano II erano consapevoli dei limiti e delle incognite del liberalismo. Ciò non è mai stato negato anche dai liberali realisti. Il già citato Friedrich A. von Hayek ha osservato sul tema della massima libertà possibile per tutti: “La nostra fiducia nella libertà si basa (…) sulla fede [originale tedesco: “Glaube”] che, nel complesso, essa scatenerà più forze positive che negative”. Il liberalismo è in effetti una sorta di fede secolarizzata, una speranza, una scommessa sul futuro.

Già i liberali del XIX secolo lo avevano capito. Autori come Benjamin Constant (1767-1830) e Alexis de Tocqueville (1805-1859) cercarono quindi fonti pre-statali che aiutassero il liberalismo a non degenerare nell’egoismo individuale, nel puro utilitarismo e nella barbarie. Perché questo può succedere e succede anche. Riconobbero tali fonti non da ultimo nella religione (cristiana). Anche Liberali cattolici come Charles de Montalembert (1810-1870) e Lord Acton (1834-1902) la pensavano in questo modo. Sulle loro spalle poggia Ernst-Wolfgang Böckenförde (1930-2019) con la sua leggendaria frase: “Lo Stato liberal-secolarizzato vive di presupposti che non può garantire da sé”.

Alexis de Tocqueville

Questi autori hanno previsto che il liberalismo e la democrazia ad esso associata sarebbero andati fuori controllo se non fossero stati sostenuti da persone che hanno una fede che permette loro di guardare oltre questo mondo e che sono disposte a sacrificarsi per lo Stato dei liberi e degli uguali sulla base di questa visione.

Di fronte alla situazione ambivalente creata dal liberalismo, la nostalgia significa la tendenza a rimpiangere i bei vecchi tempi e a rimanere in opposizione alla forma di governo oggi dominante. L’accettazione della dottrina del Concilio Vaticano II implica invece la disponibilità a professare la propria fede e ad agire. Infatti, essa esorta i cristiani ad essere, attraverso la loro testimonianza e il loro impegno nello Stato, nella società civile, nella famiglia, nell’economia, nei media e nella cultura, mediatori di quelle forze pre-statali di cui ha bisogno una forma di governo che non può legittimarsi come data da Dio. Invece di condannare i diritti liberali, che senza dubbio includono anche la libertà di sbagliare, si tratta di sfruttare questi diritti a favore dell’annuncio del Vangelo. E gli ultimi anni hanno dimostrato che se questa testimonianza cristiana si indebolisce o viene meno, la scommessa di Hayek che la libertà porta più bene che male può andare persa. La decomposizione dell’umanità da parte della sinistra liberale attraverso il wokeismo, l’ideologia LGBT e il culto della morte del movimento abortista ed eutanasico ne sono esempi eloquenti.

Il sì conciliare alla società liberale dei liberi e degli uguali presuppone naturalmente anche che i laici, ai quali con questo sì viene assegnato un ruolo essenziale nello Stato liberale, siano sostenuti dalla gerarchia ecclesiastica: che insegni la fede in modo integrale e senza timori. Proprio nei paesi di lingua tedesca finanziati dalle tasse ecclesiastiche questo avviene sempre meno. I vescovi fedeli al governo, che temono per i loro benefici fiscali ecclesiastici, tacciono o talvolta arrivano persino a tradire i laici coraggiosi. Quando questi ultimi, con spirito di sacrificio personale, vogliono affrontare questioni politiche spinose, vengono sconfessati da tali “pastori”, come è successo recentemente nel caso Brosius-Gersdorf, la candidata abortista fallita alla Corte costituzionale federale tedesca. (Il presidente della Conferenza episcopale tedesca l’ha difesa dai laici cattolici che sostenevano che lei rappresentasse posizioni incompatibili con la dottrina della Chiesa). Tali vescovi sono i reincarnati dei loro colleghi francesi dell’Ancien Régime, che preferivano fare anticamera a Versailles piuttosto che dedicarsi alla pastorale nelle loro diocesi.

Nell’Ancien Régime, prima della Rivoluzione francese, c’era un cristianesimo riuscito, che ha dato alla Chiesa molti santi. Anche nell’era della democrazia, la Chiesa ha testimoniato con coraggio la verità del Vangelo. Molti fedeli lo hanno fatto sacrificando la propria vita. E anche negli ultimi duecento anni la Chiesa ha ricevuto in dono molti santi. Come già detto, in entrambi i periodi ci sono stati anche dei fallimenti. Non si deve strumentalizzare questo fatto per mettere in contrapposizione un’epoca storica con l’altra.  Come dimostra il caso di Giuda, infatti, questo fa parte del lato umano, fin troppo umano, della Chiesa.

A prescindere dal giudizio che si dà delle epoche passate e dal loro rapporto con l’epoca attuale, è sempre bene tenere presente ciò che Romano Guardini osserva nella sua opera “La fine dell’era moderna” (“Das Ende der Neuzeit”): «Essere cristiani significa prendere posizione nei confronti della rivelazione, cosa che può avvenire in ogni fase dello sviluppo storico». Secondo Guardini, ogni epoca è allo stesso tempo vicina e lontana dalla rivelazione. Essere cristiani può quindi essere vissuto in tutti i secoli, perché Gesù Cristo è ugualmente vicino a tutti loro. Perché egli è la via, la verità e la vita. Anche nei tempi passati dell’aristocrazia e del feudalesimo era possibile realizzare ciò che è scritto nella Lettera a Diogneto sui cristiani: “Ciò che l’anima è nel corpo, i cristiani lo sono nel mondo”. Ma questo può essere vissuto anche nei tempi della democrazia liberale. Per questo è ragionevole impegnarsi come cattolici in questa realtà temporale. La democrazia liberale ha, come la forma di governo dell’Ancien Régime, i suoi lati oscuri. Ma a noi oggi spetta il compito di essere la luce del mondo in essa.