Amnesty International diventa abortista

Corrispondenza romana 12 Novembre 2025

di Giuseppe Brienza

La ONG Amnesty International, in un rapporto pubblicato il 6 novembre scorso, ha reso esplicito il suo cambio di posizione in materia di aborto denunciando «preoccupanti passi indietro» in materia avvenuti in diversi Paesi europei con «il rischio di vedere i risultati conquistati in materia di diritti riproduttivi messi in discussione da un’ondata di misure retrograde».

Sebbene sia stata fondata nel 1961 dal cattolico britannico Peter Benenson (1921-2005), dopo la sua morte Amnesty ha progressivamente abbandonato la posizione neutrale sulla legalizzazione dell’uccisione dei bambini nel grembo materno mantenuta fino al 2007, dichiarando che «la completa depenalizzazione dell’aborto è essenziale per proteggere i diritti umani». In questo modo la dirigenza dell’ONG che dovrebbe avere come scopo statutario quello di contribuire alla tutela internazionale dei diritti umani, ha intrapreso una battaglia politica di segno opposto attivandosi affinché gli stessi diritti non siano estesi ai bambini non ancora nati.

Nel 2020, in questo senso Amnesty aveva affermato che «la tutela dei diritti umani inizia alla nascita». Negli ultimi anni, poi, interpretando estensivamente il suo mandato originario, ha assunto un protagonismo pro choice che, per fare un esempio, l’ha portata a proporre al Governo britannico l’imposizione di “zone cuscinetto” in prossimità delle strutture abortive che hanno poi condotto all’arresto nel Regno Unito di diversi cristiani pro life colpevoli solo di aver pregato in silenzio per scongiurare le c.d. interruzioni volontarie di gravidanza.

Nel rapporto internazionale citato, dal titolo Quando i diritti non sono reali per tutte e tutti: la lotta per l’accesso all’aborto in Europa (Index Number 01/0275/2025, Novembre 2025, reperibile sul sito www.amnesty.org), la ONG avverte che il diritto all’aborto è sempre più minacciato in Europa, considerando come “minaccia” il solo riconoscimento di presupposti e condizioni legali, amministrative e sanitarie che, a tutela del concepito, limitano alle donne l’accesso all’interruzione di gravidanza. Tale involuzione, com’è logico, deriva dall’arbitraria definizione, da parte dell’attuale dirigenza di Amnesty, dell’aborto come un “diritto umano”, con la conseguente privazione a medici, farmacisti e personale sanitario del diritto all’obiezione di coscienza.

Già l’anno scorso un esponente dell’organizzazione a livello europeo come il direttore esecutivo di Amnesty International Irlanda Stephen Bowen, aveva dichiarato esplicitamente che l’obiezione di coscienza all’aborto non dovrebbe essere consentita in nessun Paese. Come rilevato dall’associazione prolife britannica Society for the Protection of Unborn Children (SPUC), a tale presa di posizione Bowen era arrivato presentando un rapporto di Amnesty nel quale si condannavano i professionisti del settore medico che si rifiutavano di partecipare agli aborti nella Repubblica d’Irlanda invocando «spesso le clausole di coscienza». «Il fatto che alcuni professionisti sanitari si rifiutino di fornire un servizio sanitario sulla base della coscienza», ha lamentato Bowen, sarebbe quindi «inaccettabile» (cit. in Amnesty International champions “abortion providers as human rights defenders” while ignoring plight of pro-life Christians arrested for silent prayer, SPUC News, May 28, 2025 – https://spuc.org.uk/).

Nel rapporto del 6 novembre scorso, che si è avvalso delle testimonianze di «11 attiviste e attivisti per i diritti all’aborto e di organizzazioni per la salute e i diritti sessuali e riproduttivi, attraverso interviste condotte tra maggio e settembre 2025», fra gli “ostacoli” all’aborto che starebbero crescendo in Europa sono incluse le «consultazioni obbligatorie [delle gestanti] senza giustificazione medica» e l’«obiezione di coscienza del personale sanitario», entrambe che colpirebbero soprattutto «le donne appartenenti a gruppi emarginati (giovani, LGBTIQ+, migranti o senza status legale)».

I Paesi presi di mira dall’ONG come artefici di crescenti limiti all’accesso sarebbero l’Italia, la Croazia, la Slovacchia e, soprattutto, l’Ungheria di Viktor Orbán, nella quale «le donne sono costrette ad ascoltare il battito cardiaco del feto prima di poter interrompere una gravidanza».

.Per quanto riguarda l’Italia il documento di Amnesty accusa la crescita degli ostacoli presenti per l’accesso all’aborto che consisterebbero nel fatto che le autorità di Governo, in applicazione della legislazione nazionale vigente, non adottano «le misure necessarie, previste dal diritto internazionale, per attenuare le conseguenze» degli elevati tassi elevati di obiezione di coscienza presenti nel nostro Paese (è obiettore circa il 63% dei ginecologi), impedendo così «l’accesso ai servizi abortivi a chi ne ha bisogno».

Altro addebito all’Italia (presente nel citato rapporto della ONG) sarebbe che quello per cui «il partito di governo» (cioè Fratelli d’Italia) avrebbe «promosso iniziative legislative per consentire ai gruppi antiabortisti e a coloro che “sostengono la maternità” di accedere ai centri di consulenza obbligatoria per chi richiede un aborto legale. In questi casi le autorità hanno giustificato tali misure con argomenti quali il basso tasso di natalità oppure una retorica falsa e razzista sulle persone migranti che “sostituirebbero” la popolazione bianca “autoctona”».

 Fra gli Stati che rimarrebbero «molto restrittivi» sul “diritto” all’aborto sono annoverati dal rapporto il Liechtenstein, Malta e la Polonia. Tali condanne, com’è evidente, sono lanciate sulla base di un pretesto giuridicamente infondato, ovvero quello per cui l’aborto sarebbe un “diritto umano”, ciò che non risulta in nessun atto giuridico riconosciuto nell’ambito del diritto internazionale positivo.

Come affermato in questo senso dalla giurista Alicja Grzeskowiak, già presidente del Senato della Repubblica di Polonia (1997-2001) e artefice dell’art. 38 della Costituzione polacca che riconosce il diritto alla vita del nascituro, «il diritto all’aborto, fino a oggi, non è stato iscritto nel novero dei diritti umani, anche se i tentativi delle organizzazioni internazionali in tal senso sono molto forti. […] L’introduzione del diritto all’aborto nel sistema legale contraddice infatti in modo evidente l’essenza dei diritti umani, ma anche l’essenza del diritto stesso. Tale diritto viola la naturale dignità dell’uomo, che ogni legge deve tutelare» (Alicja Grzeskowiak, Diritto all’aborto, in Aa.Vv., Lexicon. Termini ambigui e discussi su famiglia, vita e questioni etiche, EDB, Bologna 2006, p. 291).

Tre anni dopo che la Corte Suprema degli Stati Uniti ha annullato, nel caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, la sentenza Roe v. Wade (1973) che ha dato l’avvio alla battaglia internazionale per considerare l’aborto un “diritto”, l’interruzione volontaria di gravidanza ha cessato nel Paese “in cui tutto è nato” di essere un istituto tutelato costituzionalmente essendo lasciato alla singola regolamentazione degli Stati federati. Questa decisione ha portato quindi a divieti parziali o totali dell’aborto in ben 21 Stati. E’ evidente, quindi, come attualmente negli Stati Uniti l’aborto non possa più minimamente essere considerato un “diritto” bensì una eventuale facoltà concessa, a determinate condizioni, dalla legge ordinaria.

Il modello da seguire sarebbe quindi, secondo l’ONG, la Francia di Macron che, nel marzo 2024, ha iscritto, come noto, l’aborto in Costituzione, quale libertà garantita comunque, e non come “diritto fondamentale”.