Africani

Axelle Kabou

Axelle Kabou

il Timone n. 30, Febbraio 2004

di Rino Cammilleri

Verso il 20 dello scorso agosto l’instancabile David Botti, tramite il benemerito circuito mail politicacattolici@yahoogroups.com, mi ha inviato, tradotto, un articolo “elettronico” di Paul Yange E se l´Africa rifiutasse lo sviluppo e che potrete leggere per intero rivolgendovi all’indirizzo su riportato.

Poiché merita qualche commento, riassumo: nel 1991 Axelle Kabou, sociologa camerunense, ha pubblicato un libro dal titolo provocatorio, «E se Africa rifiutasse lo sviluppo?» (L’Harmattan Italia, Torino 1995, trad. it.), in cui si dice apertamente quel che molti pensano ma non osano dire. Una tesi è questa: «Il sottosviluppo dell’Africa non è dovuto ad una scarsità di capitali. Sarebbe ingenuo crederlo.

Per comprendere perché questo continente non ha cessato di regredire, malgrado le sue considerevoli ricchezze, occorre innanzi tutto chiedersi come ciò funzioni al livello micro-economico più elementare: nella testa degli africani». L’autrice, insomma, si domanda se davvero «la volontà di sviluppo degli africani non sia un mito». E si risponde, crudamente, parlando senza giri di parole di «ideologia parassitaria».

Anche se la cosa farà saltare le coronarie ad alcuni predicatori missionari (di quelli che, nelle nostre chiese, battono cassa continuamente accusandoci di insensibilità in quanto occidentali e cristiani).

La Kabou porta un esempio di giro mentale africano: «La tecnica degrada la vita familiare ed i rapporti umani. Gli occidentali stessi lo dicono. Dunque, l’Africa deve rigettare la tecnica. È singolare constatare come perfino le lamentele sul bianchi siano state masse in testa agli africani dai bianchi stessi. Detta più fine: «alienazione culturale».

Al tempo del colonialismo li hanno convinti che il Progresso è una bella cosa. Con la decolonizzazione hanno fatto il contrario. Ma, giustamente, la Kabou si chiede, a questo punto, se la sua gente sia mai stata capace di pensare con la sua testa. E fa presente che «ogni popolo é, in prima e in ultima analisi, responsabile dell’interezza della sua stona, senza esclusione».

Dunque, sarebbe ora di farla finita di piangersi addosso (l’«ideologia parassitaria») e, se proprio non si vuol cominciare a chiedersi come mai gli occidentali si siano sviluppati da soli, fare, semmai, come il Giappone, che «ha saputo conservare la sua cultura pur impegnandosi sul binario dell’industrializzazione, benché non possedesse alcuna ricchezza nel suo sottosuolo, contrariamente ai paesi africani». Ed è diventato una temibile potenza economica.

Certo, aggiungiamo noi: è vero che gli occidentali (giapponesi compresi) non sono felici. Ma neanche gli africani, a quanto risulta. Se la scelta è tra l’essere infelici a pancia piena o a pancia vuota (più guerre continue, massacri interetnici, epidemie devastanti, profughi permanenti, esodi biblici), mi sembra che non debbano esserci dubbi.

Non solo: l’Occidente, proprio perché, essendo ricco, ha tempo per pensare, ha tutti i mezzi, se vuole, per ovviare alla sua infelicità. Laddove c’è poco da dibattere sulla condizione umana se la giornata e dedicata a cercare di sopravvivere. Torniamo al libro e a un altro dito nella piaga: «La lettura africana della tratta negriera e del fatto coloniale è di un semplicismo mozzafiato: io ero tranquillamente a casa mia quando vidi arrivare un uomo di colore bianco che mi chiese ospitalità ad approfittò della mia gentilezza per spogliarmi dei miei beni, uccidere i miei e ridurli in schiavitù. Di conseguenza, io porgo reclamo ad esigo dei risarcimenti».

Naturalmente, la storia è leggermente diversa: certe tribù razziavano schiavi nella tribù vicina e li rivendevano ai mercanti musulmani, i quali li avviavano in catene alle caste per rivenderli a chi aveva le colonie in America (dove gli indios indigeni erano, ahimè, iperprotetti, dalle legislazioni spagnola e portoghese; a differenza dei neri africani, che “appartenevano” ai loro capi).

Quei neri americani che, capeggiati da Malcolm X, si facevano musulmani per protesta contro la discriminazione, evidentemente non conoscevano la storia. Come poco la conoscono quei popoli africani che, oggi, si convertono sempre più frequentemente all’islam. Il successivo colonialismo ottocentesco abolì la tratta degli schiavi e la contrastò come poté (infatti, essa dovette diventare clandestina e cambiare direzione: non più l’America ma l’Oriente, anche Medio).

Ma poi, diciamola tutta: se gli africani avessero veramente voluto, non avrebbero avuto la possibilità di evitarlo, il colonialismo? Si risponde (appunto, semplicisticamente) che i bianchi avevano fucili e cannoni. Già, ma la disfatta dell’esercito italiano ad Adua fu inferta da abissini armati di modernissimi Remington (per la vostra curiosità: quei fucili erano stati venduti dagli americani, dopo la guerra di Secessione, ai pontifici; confiscati dai piemontesi dopo la presa di Roma, erano stati rivenduti in Africa).

Di più: gli zulu, pur armati di sole zagaglie, qualche decennio prima avevano inferto agli organizzatissimi inglesi una sonora batosta. Conclude la Kabou: «La questione è piuttosto di sapere cosa, al di là della morale, potrebbe obbligare un occidentale potente a pagare debiti coloniali e soprattutto a far passare l’interesse dell’Africa prima del suo». Già. Teniamo presente che il libro ha più di tredici anni. La stessa età di un altro libro, occidentale e rivolto a occidentali, intitolato significativamente «La cultura del piagnisteo».

Il guaio è che, ahimè, l’Africa non è la sola a rimpiangere un mitico passato (ripeto: mitico). C’è anche Bin Laden