Il neocolonialismo cinese

Cina-in-Africa

Nell’immagine gli investimenti diretti della Cina in Africa (Foreign Direct Investment -FDI). Dati del 2011, fonte BloGobal, Osservatorio di Politica Internazionale.

Laogai Research Foundation, 24 agosto 2014

Gianni Taeshin Da Valle.

Un nuovo colonialismo vede come protagonisti gli Stati affamati di terra coltivabile (come la Cina anche gli stati del Medio Oriente), e grandi imprese occidentali allettate dal profitto che consegue alla produzione di carburanti biologici, o dalla speculazione sulla compra-vendita di terra.

La Cina va a caccia di grandi terreni agricoli da coltivare in tutto il mondo, così da poter garantire che potrà sfamare la sua popolazione anche in caso di iperinflazione e crisi dei raccolti. In Sud America, Australia e Nuova Zelanda, però, la terra è piuttosto cara: i governi e proprietari terrieri sono abbastanza evoluti e smaliziati da pretendere un giusto corrispettivo. Nel Sud asiatico la terra disponibile non è poi così abbondante (per quanto Stati come il Vietnam e la Cambogia siano disposti a vendere di tutto pur di far entrare capitali stranieri). Perciò le mire espansionistiche cinesi hanno trovato “terreno fertile”, specialmente in Africa, ricca com’è, oltre che di terra estremamente prolifica, anche di petrolio e di altre materie prime.

I primi passi mossi dal PCC in terra d’Africa risalgono negli anni 60, ai tempi di Zhou Enlai: una delle prime infrastrutture realizzate dai cinesi, con 600 milioni di dollari e con più di 15.000 operai cinesi, è stata la ferrovia Tan Zam, nella prima metà degli anni 70. Da allora la presenza della RPC in Africa è stata sempre più invadente perché il continente è una risorsa strategica fondamentale per la Cina: nessuna invasione è stata così tollerante, nascosta e ignorata come quella che la Repubblica Popolare sta portando avanti in Africa.

Tra l’altro il Continente Nero è un vastissimo mercato per merci a basso costo: è molto facile trovare giocattoli. Utensili da lavoro, mobili, casalinghi o medicinali che non vengano dalla Cina. Ciò accade spesso anche in Europa, ma mentre qui da noi sono richiesti determinati standard di igiene e sicurezza, e le forze dell’ordine si impegnano, per quel che possono, per la tutela dei consumatori, in Africa il prezzo è il solo criterio che conta: le autorità non si preoccupano di igiene, sicurezza, biodegradabilità o altro e perciò la Cina può esportare in Africa i suoi prodotti di qualità infima.

Un ministro della Sierra Leone disse una volta: “Se si chiede a uno dei paesi del G7 di realizzare una infrastruttura come una strada, una diga o un ponte, questi partirà da uno studio di impatto ambientale, per poi effettuare uno studio di fattibilità e passare via via alla bozza di progetto, al progetto definitivi, al coinvolgimento delle comunità locali, alle procedure anticorruzione, le gare, l’analisi delle offerte, l’assegnazione dei contratti e, finalmente, potrà dare inizio ai lavori”.

Se chiedete lo stesso lavoro ai cinesi, costoro inizieranno i lavori un mese dopo, finendoli in sei mesi, con manodopera, macchinari, materie prime e qualsiasi altra cosa provenienti dalla Cina. Molti stati africani, inoltre, sono governati da tiranni o da governi di pochi, privi di scrupoli. Sono ben disposti perciò a collaborare con la dittatura del PCC.

Per esempio, il veto della Cina nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite ha impedito la condanna delle atrocità e del genocidio che si era consumato nel Darfur. Il conflitto, iniziato nel febbraio del 2003, vede contrapposti i Janiawid (letteralmente “demoni a cavallo”), un gruppo di miliziani arabi reclutati fra i membri delle locali tiribù dei Baggara, e la popolazione non Baggara della regione (principalmente composta da tribù dedite all’agricoltura). Il governo sudanese, pur negando ufficialmente di sostenere i Janjawid, ha fornito loro armi e assistenza e ha partecipato ad attacchi congiunti rivolti sistematicamente contro i gruppi etnici Fur, Zaghawa e Masalit.

Le stime delle vittime del conflitto variano a seconda delle fonti da 50.000 (Organizzazione Mondiale della Sanità, settembre 2004) alle 450.000 (secondo Eric Reeves, 28 aprile 2006). La maggior parte delle ONG reputa credibile la cifra di 400.000 morti fornita dalla Coalition for International Justice e da allora sempre citata dalle Nazioni Unite. I mass media hanno utilizzato, per definire il conflitto, sia i termini di “pulizia etnica” sia quello di “genocidio”. Il Governo degli Stati Uniti ha usato il termine genocidio, non così le Nazioni Unite.

Diversi stati africani hanno appoggiato a loro volta le posizioni della Cina nell’assemblea Generale dell’ONU: è anche grazie ad essi che la Cina ha potuto bloccare l’ingresso a Taiwan nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, ha evitato numerose condanne da parte della Commissione del’ONU per i diritti umani, ha ottenuto l’assegnazione delle Olimpiadi nel 2008 e dell’Expo nel 2010.

I prestiti occidentali sono di solito condizionati alla politica dei governi africani. Per ottenerli essi devono mostrare una particolare attenzione ai bisogni della popolazione, predisporre un programma di politiche economiche volte allo sviluppo e all’attuazione dei principi generali della democrazia.

I prestiti cinesi invece vengono erogati senza condizioni politiche, finanziano progetti di sviluppo che però devono essere appaltati , da almeno il 70% a imprese cinesi. Queste, poi, di solito utilizzano mano d’opera importata dalla madrepatria , persino detenuti dei Laogai e vengono realizzati senza alcun riguardo per le persone e l’ambiente. Pechino, infatti, in Africa esporta anche manodopera: decine di migliaia di agricoltori.

Liu Jianjiun, della camera di commercio sino-africana ha creato un sistema di villaggi , ribattezzati “villaggi Baoding” dal nome della cittadina dell’Hebei nella quale vive, dove gli immigrati cinesi si concentrano. Pare che risiedano o finora abbiano risieduto in Africa quasi un milione di cinesi già residenti, di cui 10mila sono i contadini dell’Hebei spediti in diciotto Paesi diversi. In Sud Africa sarebbero 20mila i cinesi già residenti, in Algeria ne risultavano 19mila nel 2007.

Il lavoro offerto dalle ditte cinesi agli africani è solo in fondo alle miniere, i dirigenti sono tutti cinesi, come pure buona parte dei tecnici. I molti infortunati sul lavoro, invece, non sempre sono risarciti.

Lavoratori e cittadini protestano che i “potenti stranieri” fanno come vogliono, impongono loro le leggi, i diritti umani e dei lavoratori sono un intralcio in patria, figuriamoci in un altro continente; e allora con i dittatori si fanno affari senza problemi di sorta, vanificando il pur minimo effetto (troppo fioche) voci che da Occidente raramente si alzano contro i tiranni grandi e piccoli, da Mughe, ad Al Bashir, a Dos santos, che ancora infestano l’Africa.

_________________

Nota

(*) Il Gruppo dei Sette (di solito abbreviato in G7) è il vertice dei ministri dell’economia delle sette nazioni sviluppate con la ricchezza netta più grande al mondo (Canada, Francia, Germania,Giappone Italia, Regno Unito, e Stati Uniti) . Dal 1997 è stato affiancato dal G8, la Russia per motivi prettamente politici)