Meglio "Amerikano" che "Dhimmi"

dhimmiArticolo pubblicato su Il Corriere del Sud
n. 4/2002; 16 – 28 febbraio

Soltanto il cardinale Ratzinger aveva lanciato il grido di allarme, definendo giustamente il socialcomunismo come “la vergogna del nostro paese”

di Domenico Bonvegna

Nel secolo XX ci fu un periodo in cui certi personaggi nell’ambiente culturale e politico del cosiddetto Progressismo di sinistra diffusero uno slogan, apparentemente pacifista, ma che in pratica poi si è rivelato abbastanza arrendista: “Meglio rosso che morto”. Si utilizzava questo slogan per convincere l’opinione pubblica che era meglio cedere al comunismo pur di avere salva la vita, anziché morire in un conflitto nucleare. Ma sulla “qualità della vita” che il socialcomunismo riservava ai vari popoli che governava, nessuno ci dava risposte adeguate.

Soltanto il Cardinale Ratzinger aveva lanciato il grido di allarme, definendo giustamente il socialcomunismo come la vergogna del nostro tempo. “Il secolo XX si è chiuso con la fine della malattia, l’utopia socialcomunista, e, né poteva essere diversamente posto il carattere letale del morbo, con la contestuale morte del malato, il mondo occidentale e cristiano. (Giovanni Cantoni, ‘A proposito di Libertà Duratura’, in Cristianità, n. 308, nov.-dic. 2001 www.alleanzacattolica.org).

Con l’implosione del sistema imperiale socialcomunista certamente è finito anche il mondo moderno, ossia quel processo di svestimento, o di strip tease, della società Cristiana europea e occidentale, che sinteticamente è cominciato con la cosiddetta Riforma Luterana, proseguendo con la Rivoluzione Francese, e il socialcomunismo.

Ma se il mondo moderno è finito, certamente non è finito il “mondo” cioè gli uomini, anche se è attaccato dai materiali e dai germi di putrefazione del mondo moderno defunto. Oltre questi nemici residuali il mondo occidentale, capitalistico è attaccato da due nuovi nemici che approfittano della sua debolezza: “i popoli di Seattle” e il cosiddetto fondamentalismo islamico, che ha sferrato l’11 settembre un attacco terroristico senza precedenti.

Ed ha ragione il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi quando nota una “singolare coincidenza” fra il fondamentalismo islamico e il movimento antiglobalizzazione nella sua radicale critica ai valori del mondo occidentale.

“A fronte di quest’ultima aggressione – scrive Cantoni – mi chiedo se non sia meglio essere malato che morto, non per uno smodato amore alla vita terrena, che per certo finisce, tale da indurre all’accanimento terapeutico, ma come tempo per convertirsi e per meritare” Ma certa intellighentia non è d’accordo con questa analisi, afferma che la “vita” della cultura islamica è migliore dei morbi, della malattia di cui è affetto l’Occidente Cristiano, anzi sottolineano che vivere all’interno della cultura islamica permette una condizione di sopravvivenza decorosa, migliore rispetto a quella corrotta del neopaganesimo occidentale.

E sempre questi personaggi alquanto ambigui, propongono un nuovo slogan: Meglio ‘dhimmi’ che morto, meglio “protetto” in un mondo islamizzato – o almeno islamizzante – che “libero” in un mondo in cui “siamo tutti americani”, anzi, appunto, “amerikani”. Questi sono i propositi di certi intellettuali che possiamo definire professionisti della vulgata dell’ “islamicamente corretta”, disinformatori o addirittura dei criptomusulmani, che vorrebbero proporci un Islam immaginario, forse inesistente, che si può trovare solo nelle loro elucubrazioni mentali.

Sono quelli che fanno circolare un’immagine edulcorata dell’islam, una non corretta descrizione della “cultura islamica”. Le ragioni per non prestare ascolto alle loro sirene, e per contrastare la loro proposta sono molte; tra l’altro negli ultimi mesi queste ragioni si sono rinforzate: infatti nei Paesi islamici continua la barbara condizione delle donne, la sconoscenza dei più elementari diritti umani, soprattutto quello più importante della libertà religiosa, l’alimentazione in certi ambienti del terrorismo. Ma la ragione di gran lunga più importante è quella che: chi diventa “dhimmi”, “protetto”(in pratica tutti i non islamici), nel mondo islamico, “non può fare missione, quindi è, istituzionalmente, un “cristiano dimezzato”.

Per quanto mi riguarda scelgo di stare col mondo Occidentale e ringrazio il Signore di potere ancora scegliere: “Meglio ‘amerikano’ che dhimmi”. A proposito della guerra in Afghanistan, si è scritto che non si tratta di una “guerra di religione” e quindi non si poteva parlare di “crociata”. A quanti diffidano della guerra di religione o di crociata si può affermare che per “guerra di religione” si può intendere non solo l’uso delle armi per imporre una pratica religiosa, ma per difenderne l’esistenza e la vivibilità.

Per riflettere cito un passo del radiomessaggio natalizio ai popoli del mondo intero, pubblicato da Papa Pio XII nel 1956, l’anno della rivolta del popolo ungherese contro l’Armata Rossa. Il Papa dopo aver dichiarato di non “chiamare la Cristianità ad una crociata”, afferma: “Possiamo però richiedere piena comprensione del fatto che, dove la religione è un vivo retaggio degli antenati, gli uomini concepiscono la lotta, che viene loro dal nemico ingiustamente imposta, anche come una crociata”.

Inoltre in riferimento alla battaglia di Vienna nel 1683 quando il re polacco Jan Sobieski alla guida delle armate cristiane liberò la città dall’assedio turco , Papa Giovanni Paolo II dichiara: Ci sono casi in cui la lotta armata è una realtà inevitabile a cui in circostanze tragiche non possono sottrarsi neanche i cristiani”(Discorso durante la celebrazione dei Vespri d’Europa nella Heldenplatz a Vienna, del 10-9-1983; parzialmente trascritto su Cristianità, n.308 di nov.-dic. 2001)

http://corrieredelsud.it