La missione degli Usa

bless_America Liberal Anno IV numero 20
ottobre-novembre 2003

Un testo inedito del pensatore americano

di Russell Kirk

La nazione chiamata Stati Uniti d’America è investita di una missione voluta dalla Provvidenza? E se sì, hanno gli Stati Uniti la capacità e il coraggio di perseguire gli scopi di tale missione? Durante l’era Eisenhower si fece un gran parlare del «Secolo americano» e si pubblicarono numerosi dibattiti – alcuni dei quali decisamente superficiali, il resto non proprio di ampio respiro – su quali fossero gli obiettivi della nazione statunitense. Da allora a oggi, spesso il nostro Paese ha visto inibite le proprie grandiose aspettative. Ma, se agli occhi degli storici futuri sarà mai possibile definire la nostra epoca il Secolo americano, qual è dunque la missione che caratterizza la nostra nazione?

È con questa domanda ben desta nella mente che mi rivolgo dunque alla riflessione di Orestes A. Brownson, nato nel 1803 e morto nel 1876. Lord Emerich Edward Dalberg Acton (1834-1902), uno dei migliori intelletti del secolo Diciannovesimo, giudicò Brownson il più acuto filosofo dell’epoca. E si trattava davvero di un grande complimento, dato che negli Stati Uniti erano gli anni di Nathaniel Hawthorne (1804-1864), di Herman Melville (1819-1891), di Ralph Waldo Emerson (1803-1882) e di un’altra mezza decina di personalità di primo piano, per tacere peraltro dei grandi pensatori vittoriani della Gran Bretagna.

Brownson fu un filosofo politico davvero notevole, un saggista imprescindibile in campo religioso, un critico letterario perspicace, un giornalista serio ben dotato di talento polemico e uno dei più fini osservatori dello spirito e delle istituzioni statunitensi. Benché in gioventù fosse stato un estremista radicale, dopo il 1840 si era trasformato in un formidabile apologeta della verità. Fu del resto il primo scrittore a confutare il Manifesto del Partito comunista di Karl Marx (1818-1883).

«Nella maggior parte dei casi», scrisse Brownson nel 1848 replicando a Marx, «le sofferenze delle persone derivano da cause morali che stanno oltre la portata dei governi civili e raramente chi dipinge le autorità a tinte fosche al solo scopo di accendere l’indignazione popolare contro di esse mostra d’incarnare il tipo del nobile patriota. È infatti possibile offrire servigi molto più efficaci perseguendo strade più tranquille e pacifiche allorché le persone, ognuna da sé e operando nella sfera di propria influenza immediata, rimuovono le cause morali che generano i mali patiti».

In assenza completa di autorità, disse Brownson agli statunitensi della propria epoca, e senza potersi fiduciosamente affidare a princìpi morali comunemente accettati, la giustizia non può durare a lungo in alcun luogo del mondo. Eppure il progressismo e il concetto di democrazia moderni – proseguiva il filosofo – disprezzano il concetto stesso di autorità morale. E, se non li si raffrena negli assalti che portano alla norma comune della vita sociale e alla morale tradizionale, i progressisti finiranno per distruggere completamente la giustizia a svantaggio non solo dei propri nemici, ma addirittura di se stessi.

Brownson affermava che la volontà del popolo avrebbe certamente trionfato se sottomessa a Dio, under God; ma molti progressisti e molti democratici ignorano questa clausola fondamentale. Brownson fu, insomma, un fiero promotore della repubblica statunitense. Il suo The American Republic (The American Republic: Its Constitution, Tendencies, and Destiny, 1866, trad. it. La repubblica americana: costituzione, tendenze e destino, a cura di Dario Caroniti, Gangemi, Roma 2000, n.d.r.) venne pubblicato l’anno successivo la fine della Guerra civile (1861-1865) e contiene l’esposizione più sistematica di ciò che è possibile intendere per «missione degli Stati Uniti».

Ogni nazione, scrisse Brownson in quel volume, «ha un’idea, datale dalla Provvidenza, da realizzare e la cui realizzazione costituisce l’opera, la missione o il destino di quella determinata nazione». Gli ebrei furono scelti per preservare le tradizioni, così che un giorno il Messia avrebbe potuto giungere. I greci vennero scelti per dare vita all’arte, alla scienza e alla filosofia. I romani sono stati scelti per sviluppare lo Stato, il diritto e la giurisprudenza. E anche gli statunitensi, ha sostenuto Brownson, è stata conferita una missione.

Gli Stati Uniti d’America sono fatti per continuare le opere intraprese nel passato dai greci e dai romani, ma pure per spingersi ancora più in là di quanto fatto da loro. Alla repubblica statunitense spetta infatti il compito di riconciliare la libertà e la legge. Brownson era uno strenuo difensore del concetto di libertà ordinata. Eppure, aggiunse il filosofo nel 1866, gli Stati Uniti «non costituiscono tanto la realizzazione della libertà quanto la realizzazione dell’idea autentica di Stato, quella che garantisce l’autorità del settore pubblico e al contempo la libertà della persona, la sovranità del popolo senza scadere nel dispotismo della società e la libertà personale senza finire nell’anarchia.

In altre parole, la missione degli Stati Uniti è quella di dipanare nel corso della propria esistenza storica l’unione dialettica fra autorità e libertà, fra i diritti naturali dell’uomo e diritti che spettano alla società. Le istituzioni pubbliche dei greci e dei romani finirono per affermare lo Stato a detrimento della libertà personale; le repubbliche moderne o fanno lo stesso oppure affermano la libertà individuale a scapito dello Stato. La repubblica statunitense, invece, è stata istituita dalla Provvidenza allo scopo di realizzare la libertà di ogni singola persona questo anche a beneficio di tutte le altre».

Nella concezione brownsoniana, dunque, il compito storico degli Stati Uniti è quello di rappresentare un modello politico per il genere umano: una res publica in cui l’ordine e la libertà coesistano secondo una logica di sano equilibrio ovvero di sobrio antagonismo, e in cui i cittadini siano al contempo sicuri e liberi. Questa riconciliazione fra autorità e libertà costituisce peraltro la questione centrale della politica. Edmund Burke (1729-1797) è certamente il pensatore politico più importante dell’epoca moderna proprio perché comprese gli antagonismi fra ordine e libertà. E negli Stati Uniti è stato Brownson il pensatore che ha individuato meglio di chiunque altro la centralità di questa problematica.

Riconciliare autorità e libertà così da poter realizzare la giustizia nel contesto di uno Stato vivibile: questa è la missione che gli Stati Uniti non hanno ancora totalmente compiuto, a quasi un secolo e mezzo di distanza da che Bronswon ne scrisse. Eppure non è un compito completamente caduto nell’oblio. Under God, disse Brownson in modo enfatico, ovvero obbedendo a Dio, la repubblica statunitense ha la possibilità di crescere in virtù e in giustizia. Un secolo più tardi, l’espressione under God è stata inserita nel testo del Pledge of Allegiance, la dichiarazione ufficiale di fedeltà alla nazione statunitense.

Eppure, più di recente, ha guadagnato molto terreno anche l’influenza di quegli statunitensi che preferirebbero fare a meno di qualsiasi missione affidata agli Stati Uniti dalla Provvidenza, persone che in sostanza ritengono che la repubblica statunitense possa cavarsela egregiamente da sé senza preoccuparsi di Dio.

La Corte Suprema degli Stati Uniti ha spesso mostrato d’inclinare verso codesto laicismo, giustamente definito da Brownson «umanitarismo». I progressisti umanitaristi, scrisse del resto Brownson in The American Republic, sono i nemici – talvolta involontari – della vera libertà e dell’ordine autentico.

«La democrazia umanitarista, che spregia ogni confine geografico, che disprezza le persone e che sostiene di detenere il monopolio sull’umanità, ha acquistato nuova forza durante la guerra [civile] e minaccia il nostro futuro»: così scrisse Brownson, che denunciò pure l’imminente attacco umanitaristico alle distinzioni fra i sessi e il non lontano assalto alla proprietà privata, giacché distribuita secondo criteri non egualitaristici, che l’umanitarismo stava per condurre.

«Né gli umanitaristi possono fermarsi qui. Finché vi saranno dei singoli, i singoli saranno sempre diseguali. […] Esiste la diseguaglianza, dunque esiste l’ingiustizia, e a essa si può porre rimedio soltanto abolendo ogni forma d’individualità e riducendo tutte le singole persone al concetto di razza, di umanità e di uomo in generale. Questa vaga generalizzazione – che non corrisponde ad alcuna realtà e che quindi costituisce una pura nullità – permette [agli umanitaristi] di escludere qualsiasi limite alle proprie rivendicazioni giacché completamente inesistente è il rispetto che essi nutrono verso i confini territoriali e quelli personali; anzi, per loro la stessa creazione è un abbaglio».

Per Brownson, insomma, una società davvero giusta non è affatto una democrazia del degrado sociale. La società giusta non riduce gli esseri umani a un insieme di unità indistinguibili le une dalle altre, distese fianco a fianco sulla deprimente spianata dell’eguaglianza assoluta. La società giusta non parla la lingua dell’invidia, ma quella dell’ordine, del dovere e dell’onore. Nei diversi Paesi, sostiene il filosofo, la forma del governo nazionale dev’essere confacente alle tradizioni e all’esperienza organica del popolo di quel luogo. In alcune nazioni, dunque, la forma del governo sarà la monarchia, così come in altre l’aristocrazia e negli Stati Uniti è il repubblicanesimo, ovvero la democrazia under God, obbediente a Dio.

Agli Stati Uniti non spetta quindi il compito di contendere la sovranità a Dio, sovranità, questa, che sovrasta in modo assoluto ognuno di noi. Compito del governo statunitense dev’essere invece quello di garantire a ogni cittadino la sicurezza nel godimento della propria libertà. Ed è da questa libertà che proviene la giustizia di cui hanno scritto Platone nella Repubblica e Cicerone nel De officiis: il diritto di ogni uomo di svolgere il proprio compito, libero dalle ingerenze degli altri. Questo è, afferma Brownson, il marchio distintivo dell’autentica giustizia sociale: la liberazione, in obbedienza al volere di Dio, di ogni persona, affinché questa compia tutto il bene che ha in sé.

La povertà non è di per se stessa un male, né lo è il non essere famosi; la fatica non è un male e pure il dolore fisico potrebbe non esserlo, come non lo è per i martiri. Il mondo terreno è un luogo di tentativi e di sforzi che l’uomo compie affinché, rispondendo alle sfide, possa trovare la propria natura più nobile. È la missione storica degli Stati Uniti d’America, disse Brownson agli uomini del suo tempo, quella di offrire al mondo esempi di Stato e di società ordinati e al contempo liberi. E Brownson riteneva che gli Stati Uniti fossero stati destinati a questo nobile compito per volere della Provvidenza divina.

Alle orecchie di oggi forse queste parole suonano strane. Per certi versi è proprio così, ma perché? Perché gli umanitaristi – ossia le persone che danno per scontata la possibilità di rendere perfette sia la natura sia la società umana attraverso mezzi puramente terreni – sono riusciti ad assumere il controllo delle università, delle scuole, della stampa più seria, della maggior parte dei giornali e dei periodici, della televisione e della radio.

Il pensiero, e lo stesso vocabolario, della repubblica statunitense è caduto sotto il dominio dell’ideologismo umanitaristico. Addirittura le chiese, o molte di esse, si sono trasformate in trincee umanitaristiche che scagliano saette e condanne umanitaristiche contro quegli amministratori pubblici che ostinatamente continuano invece a ritenere la politica l’arte del possibile.

Ora, che gli statunitensi tradizionali abbiano l’intelletto e l’energia sufficienti per annullare l’effetto delle idee e delle politiche umanitaristiche odierne è cosa ancora tutta da vedere. Quanto incide, però, la disputa fra statunitensi tradizionali e statunitensi umanitaristici sulla questione della missione storica del nostro Paese?

Ebbene, parte di questa lotta verte esattamente sulle differenti concezioni che i due fronti hanno circa il compito storico spettante agli Stati Uniti. Esiste, infatti, anche una concezione umanitarista, ovvero socialdemocratica, dell’idea di una missione statunitense, la quale ha già prodotto conseguenze disastrose sia in politica interna sia in politica estera.

Gli umanitaristi – che affondano le proprie radici intellettuali nell’illluminismo francese (colmo d’illuminatori, ma curiosamente privo di luci, come dice Samuel Taylor Colerdige [1772-1834]) – sono affetti dal morbo del mutamento continuo. Lasciandosi alle spalle quanto essi definiscono superstizione (ossia le religione), gli usi tradizionali, le istituzioni esistenti, tutto ciò che è privato (specialmente la proprietà), quanto ci lega alle comunità locali e alla nostra nazione, e la piccola squadra a cui apparteniamo nella vita, gli umanitaristi mirano al razionalismo più arido, all’emancipazione dagli antichi obblighi e limiti morali, alla «democrazia popolare» senza classi, al collettivismo, alla totale eguaglianza di condizioni, all’internazionalismo sentimentalistico (che auspica un mondo privo di qualsiasi diversità), alla concentrazione del potere.

È questa la missione degli Stati Uniti nella percezione degli umanitaristi, che però si differenzia notevolmente da quella in cui credeva Brownson. Peraltro, la concezione brownsoniana di una missione delle nazioni forse deriva in parte dall’idea virgiliana di un fatum, del destino. All’epoca di Augusto, il poeta Virgilio desiderò consacrare nuovamente la missione storica di Roma. Egli avvertiva infatti come nella civiltà romana fosse all’opera un intento divino, una finalità che i cristiani definiranno adoperando l’aggettivo «provvidenziale».

Comunicando questa intuizione agli spiriti migliori sia della sua epoca sia delle generazioni successive, Virgilio ha dunque fatto della romanitas, cioè della cultura romana, un ideale capace in parte di soddisfare quella profezia che attribuiva a Roma una missione storica propria. Qual è dunque la missione degli Stati Uniti oggi? Ancora oggi resta, come disse a suo tempo Brownson, quella di riconciliare libertà e legge.

La grande, lugubre tendenza del mondo contemporaneo mira all’esatto contrario. Né si tratta di una missione semplice da compiere anche internamente al nostro Paese. La difficoltà, peraltro, aumentano a causa dell’immagine che gli Stati Uniti danno di sé nel mondo intero.

Se il mondo conoscerà una pax americana, non dovrà certo essere l’egemonia statunitense che fu a suo tempo tentata dai presidenti Harry S. Truman (1884-1972), Dwight D. Eisenhower (1890-1969), John F. Kennedy (1917-1963) e Lyndon B. Johnson (1908-1973): non certo lo sforzo, insomma, peraltro perseguito con il denaro e con le armi, teso a intimidire ogni nazione della terra al solo scopo di sottometterle tutte a una colossale e oppressiva americanizzazione, che cancella ogni altra cultura e ogni altro modello politico.

Una pax americana stabile e duratura non si produrrà certo con l’inganno e con la tracotanza, ma esercitando con calma la forza e specialmente mostrandosi quale esempio limpido di una libertà ordinata che è bene emulare.

Tacito disse che i romani crearono un deserto che poi chiamarono pace. Noi statunitensi possiamo aspirare a essere strumenti di pace solo se incoraggiamo le altre nazioni a coltivare bene il proprio orto: ovvero facendo addirittura meglio di quanto in passato ha fatto Augusto. Con Orestes A. Brownson, continuo dunque personalmente a credere che la missione storica degli Stati Uniti d’America sia esattamente quella di riconciliare l’ordine e la libertà: quella cioè di continuare a fornire un modello di giustizia a un’epoca d’ideologie feroci e di schemi politici irrealizzabili.

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(Il testo è tratto da The American Mission, contenuto nella raccolta di saggi kirkiani Redeeming the Time, Intercollegiate Studies Institute, Wilmington, Delaware 1996. La traduzione dall’inglese di questo testo così come di quelli di Robert Sirico e Gerald Russello pubblicati in questa sezione sono di Marco Respinti).