Impegno o ritirata? I cattolici e il matrimonio omosessuale” (*)

NYTimes_testataCultura & Identità.

Rivista di studi conservatori
Anno VI, nuova serie, n. 5, 22 giugno 2014 (pag 42-44)

Davanti alla disparità delle forze in campo — da una parte miliardari con il pallino abortista o eutanasico o omofilo e dall’altra sparuti gruppi che si autofinanziano — nasce fra i cattolici la tentazione di abbandonare il fronte, ripiegarsi su se stessi e, se del caso, deviare l’azione ecclesiale verso mete in sé buone e meno diametralmente contrapposte con l’etica secolaristica e ostile alla vita della modernità radicale trionfante. Lo scrittore cattolico conservatore Ross Douthat, editorialista —fra i pochi non liberal — del New York Times non è d’accordo e, in una intervista, spiega perché i cattolici non devono effettuare ritirate — o “riconversioni ” della loro mission — più o meno pretestuose.

di Ross Douthat

La scorsa estate la rivista Commonweal ha pubblicato un saggio polemico di Joseph Bottum dal titolo Le cose che condividiamo. Ragioni cattoliche a favore del matrimonio omosessuale [1]. Bottum, già direttore di First Things [2], si è a lungo opposto pubblicamente al matrimonio omosessuale, ma in Le cose che noi condividiamo sostiene che non è più prudente per i cattolici americani opporsi al riconoscimento legale del matrimonio civile delle persone dello stesso sesso, primo perché tale opposizione è probabilmente destinata a essere una causa persa; poi perché gli unici argomenti validi contro il matrimonio omosessuale non hanno più senso in una cultura essenzialmente post-cristiana; e, infine, perché il matrimonio civile di persone dello stesso sesso potrebbe alla fine rivelarsi una buona cosa per le coppie omosessuali, come pure, più in generale, per la cultura stessa del matrimonio in America.

Secondo Bottum, i cattolici dovrebbero invece concentrare i loro sforzi sul “re-incanto” [3] di una cultura che ha dimenticato “l’essenziale inabitazione divina ” del mondo. Egli non propone alcun cambiamento nell’insegnamento della Chiesa e così molti lettori del saggio di Bottum lo hanno criticato per non essere andato abbastanza lontano. Molti conservatori, invece, lo hanno criticato per essersi spinto troppo oltre. Abbiamo invitato Ross Douthat, editorialista conservatore del New York Times, e Jamie Manson del National Catholic Reporter per commentare le tesi di Bottum.

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Condivido molte delle pulsioni che animano il saggio di Joseph Bottum: il riconoscimento che gli oppositori del matrimonio gay siano stati accuratamente ridotti in uno spazio straordinariamente ristretto; la frustrazione per come il dibattito è stato condotto da parte dalla Chiesa; il desiderio di salvare la ricchezza del cattolicesimo dai cliché e dalle caricature della guerra culturale in atto. Io pure condivido il suo scetticismo su alcuni degli argomenti di diritto naturale dispiegati in difesa del matrimonio tradizionale, così come la sua opinione secondo cui la marcia verso il matrimonio fra persone dello stesso sesso è conseguenza logica di premesse abbracciate dalla cultura molto tempo fa, nonché la sua enfasi sui fondamenti metafisici della nostra situazione attuale. Ma per tutto questo, io credo che la sua conclusione essenziale sia confusa oppure pretestuosa.

La logica del ragionamento di Bottum è simile, come egli stesso riconosce, alla logica del saggio di Paul Griffiths apparso sulle pagine di Commonweal una decina di anni fa — Legalize Same-Sex Marriage, del 28 giugno 2004 —, che affermava che i cattolici dovevano sostenere il matrimonio civile delle coppie gay come mezzo per liberare la visione sacramentale del matrimonio propria della Chiesa da un contesto culturale «profondamente pagano», nella speranza di «rendere la Chiesa più attraente e bella» [4], per contrasto con la legge civile.

Rispondendo a Griffiths, l’ex redattrice di Commonweal Margaret O’Brien Steinfels osservava che le idee cattoliche fondamentali sul matrimonio erano ancora ampiamente condivise — nel 2004, il 60 % del Paese era ancora a favore della definizione tradizionale di matrimonio —, si chiedeva perché Griffìths voleva «[…} gettare la spugna in un sistema politico in cui vi è un consenso generale circa i fondamenti del matrimonio» [5] e lo accusava di cedere alle lusinghe del purismo e del separatismo[6]. «Ritirarsi dal dibattito pubblico sulla definizione di matrimonio — scriveva — o da ogni altra questione pubblicamente controversa è un gesto segno di settarismo» [7], e qualcosa che dei cattolici intenzionati a non scomparire dovrebbero rifiutare.

Molto è cambiato da allora e il pronostico di Griffiths riguardo a quale direzione avrebbe preso il dibattito è stato un buon pronostico. Ma la Steinfels aveva ragione riguardo alle implicazioni del genere di cambiamento che Griffìths suggeriva. Poiché, se la Chiesa cattolica avesse sostenuto esplicitamente il distacco del matrimonio civile da quello religioso e cessato di porre qualsiasi tipo di obiezione pubblica contro il trattare le unioni dello stesso sesso alla medesima stregua di quelle di sesso opposto, ciò avrebbe rappresentato una gravissima manifestazione di ritiro dall’impegno politico e culturale.

Una cosa è sollecitare la Chiesa a prepararsi alla sconfitta politica su questo problema — tale preparazione sarebbe ovviamente più necessaria oggi che non quando è apparso per la prima volta il saggio di Bottum: ma è tutt’altra cosa — qualcosa di più separatistico, più settario e, quindi, più problematico — dire a priori che la Chiesa dovrebbe smettere persine di partecipare al dibattito. Dopo tutto, il matrimonio gay non è il primo caso in cui il percorso della modernità si allontana dalle idee cattoliche riguardo al bene comune — parlandone, viene subito in mente l’età del darwinismo sociale —, né sarà l’ultimo.

Ma rispondere a questa emarginazione solo ritirandosi dal dibattito non è una dichiarazione di prudenza, ma invece un segnale di disperazione culturale, adatto a un clima sociale talmente corrotto, così pagano o post-cristiano, che la partecipazione politica non è più tout court possibile. La logica del saggio di Bottum, come di quello, precedente, di Griffìths, punta in questa direzione: la ritirata strategica da una cultura giudicata corrotta, e ha implicazioni che vanno ben oltre la questione del matrimonio.

E un po’ della retorica di Bottum ha proprio quel sapore, per esempio, quando suggerisce che non solo il dibattito sul matrimonio fra persone dello stesso sesso, ma l’impegno sull’intero terreno dell’etica sessuale debba attendere i risultati di un processo di “re-incanto” di lungo termine. Ma Bottum non vuole seguire fino in fondo, cioè fino alla sua conclusione separatistica, questa logica. Egli insiste invece nel dire che non sta in realtà consigliando alcun tipo di ritirata politica o culturale: «Non dovremmo accettare senza combattere — scrive — una ritirata essenzialmente acattolica dalla piazza pubblica, verso una teologia di soccorso, verso quelle piccole comunità di salvati che Alasdair Maclntyre predisse in Dopo la virtù (1981) [8].

Ma allora che ci sta a fare la Chiesa nell’agone pubblico se smette di fornire argomenti su questioni riguardo alle quali la sua posizione è divenuta impopolare? Beh, dice Bottum, abbiamo bisogno di «[…] diventare […] testimoni migliori della cristianità [meglio: del cristianesimo] nella cultura che esiste realmente», e abbiamo bisogno di trovare «[…] modi decisamente migliori che apparsi al matrimonio omosessuale per insegnare l’incanto del mondo, intrinsecamente permeato da Dio» [9].

Giusto, e siamo d’accordo: ma poi che dire quando come esempi di quella testimonianza e di quei modi egli propone «[…] massicci investimenti in beneficenza, l’ulteriore evangelizzazione dell’Asia, la volontà di affrontare il martirio andando missionari in nazioni dove i cristiani sono uccisi semplicemente per il fatto di essere cristiani; lo sforzo di tutta la chiesa per dare nuovo vigore alla bellezza e alla solennità della liturgia» [10]?

Temo che tutto ciò rischi di cadere nel ridicolo. La carità, le missioni, il martirio, la liturgia: ovviamente queste sono tutte aree cruciali in cui la Chiesa è coinvolta. Ma dire che i cattolici americani debbano sostenere le missioni in Asia come surrogato della discussione in America sulla sessualità e sul matrimonio è una specie di cattolicesimo alla “mrs. Jellyby” [11], in cui le questioni che la Provvidenza effettivamente ci pone davanti sono ritenute troppo ardui per combattere e al loro posto è meglio volgere lo sguardo ai problemi di cristiani lontani diecimila miglia da noi.

Suggerire che dovremmo tutti andare incontro al martirio è forse meno “da Jellyby”, ma ancor meno plausibile. Una Chiesa che seguisse questi consigli di volgersi all’esterno, si rivolgerebbe in realtà verso il proprio interno: sarebbe non meno settaria della Chiesa di Maclntyre che Bottum non apprezza, ma forse anche più illusa.

Il punto è questo: se i cattolici devono continuare a competere nello spazio pubblico americano, se devono scegliere la partecipazione attiva piuttosto che pensare a catacombe e a scialuppe di salvataggio, allora devono avere qualcosa da dire agli americani sulle questioni dibattute oggi in America. E i dibattiti possono avere a che fare con l’economia, l’immigrazione, la sanità… E, in una cultura sempre più libertina, atomizzata e post-familistica, una parte di ciò che la Chiesa ha da dire non può non toccare la sessualità. E nel discutere di sessualità, non vi è alcun modo trasparente perché la Chiesa possa evitare di prendere posizione su quale debba essere la definizione legale di matrimonio, anche in un mondo in cui questa definizione è cambiata e probabilmente non sembra destinata a tornare com’era prima.

Questo non significa che si debba iniziare ogni conversazione parlando del matrimonio fra persone dello stesso sesso: una volta che il cambiamento giuridico è compiuto, si può parlare meno spesso del problema o parlarne in modi assai diversi. Ma questo non può voler dire che il rifiuto della Chiesa di chiamare “matrimonio” le unioni omosessuali non esista più.

A meno che, naturalmente, non sia davvero così. Il saggio di Bottum, come l’ho letto, non pretende un cambiamento formale dell’insegnamento della Chiesa, ma vuole solo che essa smetta di difendere l’applicazione di tale insegnamento alla legge civile. Tuttavia in alcuni passaggi egli si avvicina in punta di piedi a un argomento che molti cattolici liberali sosterebbero più esplicitamente, cioè all’idea che ci potrebbe essere non solo un argomento conservatore, con la “e” minuscola [12], a favore del matrimonio gay, ma anche un argomento specificamente cattolico, e che una eventuale benedizione ecclesiastica delle unioni dello stesso sesso potrebbe effettivamente adattarsi perfettamente al più generale messaggio della Chiesa sul matrimonio, aiutando la nostra cultura a rafforzare il periclitante legame fra sesso, monogamia, generazione e matrimonio.

Esito a confutare un argomento che è solo un gesto simbolico, anche se si tratta di un argomento che molti lettori favorevoli al saggio di Bottum approverebbero, e un argomento, altresì, che, se proposto, avrebbe fornito al suo saggio un po’ più di coerenza. Quindi mi limiterò a dire questo: penso che un serio sguardo alle tendenze che hanno accompagnato l’avanzata del matrimonio gay, alle argomentazioni giuridiche dispiegate in suo favore, alla nozione evolutiva di matrimonio che lo ha fatto sembrare cosa sensata, e alla direzione presa dal dibattito sulle questioni a esso connesse — dalla poligamia alla maternità surrogata —, tutti questi fatti dovrebbero gettare seri dubbi sull’idea che la Chiesa possa in qualche modo includere le nozze fra persone dello stesso sesso nella sua visione del matrimonio senza trasformare radicalmente tale visione.

E dal momento che una trasformazione più ampia è qualcosa che Bottum decisamente non vuole, io concludo dove ho iniziato: il suo saggio è per lo più corretto nella diagnosi di come e perché la visione cattolica del matrimonio ha perso terreno nella cultura, ma è per lo più poco convincente sul genere di impegno che la Chiesa dovrebbe sostenere. Io non lo biasimo: è un problema difficile da risolvere. Ma la resa preventiva che Bottum propone non pare proprio la risposta giusta.

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(*) Articolo tradotto redazionalmente dal sito (https://www.commonwealmagazine.org/engagement-or-retre-at) della rivista cattolica Commonweal Magazine. A review of religionpolitics & culture, New York 13 giugno 2014; il testo introduttivo in corsivo è della redazione della rivista; note redazionali.

[1] Cfr. una traduzione italiana parziale in JOSEPH BOTTUM, “Le nozze gay un dono di Dio” dice Bottum, cattolico conservatore, a cura di Mattia Ferraresi, ne il Foglio quotidiano, 21-6-2014.
[2] Diffuso periodico americano di tematiche religiose.
[3] Per Max Weber (1864-1920) l’essenza della modernità consisterebbe appunto nel “disincanto” (Entzauberung), o secolarizzazione, del mondo.
[4] PAUL GRIFFITHS, Legalize Same-Sex Marriage, in Commonweal, 28-6-2004; alla pagina https://www.commonwe-almagazine.org/legalize-same-sex-marriage-0, consultata il 22-6-2014.
[5] MARGARET O’BRIEN STEINFELS, From Sex to Sect. A response to Paul Griffìths, in Commonweal, 28-6-2004; alla pagina https://www.commonwealmagazine.org/sex-sect-0, consultata il 22-6-2014.
[6] Fenomeno storicamente tipico dei gruppi protestanti minoritari, come i Padri Pellegrini o gli anabattisti.
[7] M. O’BRIEN STEINFELS, art. cit.
[8] J. BOTTUM, art. cit.; cfr. ALASDAIR C.[HALMERS] MAC-INTYRE, Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, 1981, trad. it, 2a ed., Armando, Roma 2007.
[9] J. BOTTUM, art. cit.
[10] Ibidem.
[11] Personaggio di una filantropa che trascura la famiglia per una oscura tribù africana, tratteggiato in Casa desolata (Bleak House), romanzo di Charles Dickens (1812-1870) (1853; trad. it, con un saggio di Vladimir Nabokov (1899-1977), 2a ed., Einaudi, Torino 2007).
[12] Cioè in senso tecnico, non di appartenenza politica.