L’enigma di Shakespeare, cortigiano o dissidente?

libro_ShakespeareIl Corriere del Sud, 15 luglio 2014

Il genio universale di William Shakespeare (1564-1616), il brillante codificatore della lingua inglese moderna, nonché uno dei talenti drammaturgici più grandi di tutti i tempi, è noto ai quattro angoli del globo. Su di lui e intorno a lui, presumibilmente, è stato scritto già tutto.

Restano però ancora delle zone d’ombra che, come accade spesso nella costruzione artificiosa e strumentale dei miti nazionali (siano essi politici o letterari), con il passare del tempo e lo spegnersi delle passioni più accese, emergono con sempre maggiore chiarezza al punto da non poter essere più ignorate.

Questa biografia ragionata di Elisabetta Sala (L’enigma di Shakespeare. Cortigiano o dissidente?, Ares, Milano, pp. 472, Euro 24,00), docente di lingua e letteratura inglese e studiosa informata della storia inglese moderna (vedi i suoi fortunati L’ira del re è morte (2009) ed Elisabetta “la sanguinaria” (2010), ambedue per le edizioni Ares) mette invece coraggiosamente in discussione il canone accettato ormai da secoli secondo cui Shakespeare “é salutato come il poeta nazionale del momento aureo dell’età elisabettiana [1558-1625 ca.], che cavalca sull’onda della vittoria inglese sull’Armada spagnola [1588]. Egli trova dunque posto in quel mito elisabettiano che evidenzia la doratura superficiale del periodo, passando sopra la sua immondizia, crudeltà e miseria. Tale visione romantica di Shakespeare é una grossolana distorsione della verità e si basa su un mero desiderio” (pag. 15) che “non concorda né con le opere, né con quanto sappiamo della vita del Bardo dell’Avon. Tanto più che il regno di Elisabetta [1533;1558-1603] – così come, poi, quello del successore, James di Scozia [1566;1603-1625] – ha mostrato, attraverso gli studi storici più recenti, i tratti di un regime totalitario, crudele e oppressivo. Ora, è possibile che un poeta tanto grande fosse il paladino di una dittatura, di cui furono vittime, fino al martirio, i suoi stessi parenti, amici e conoscenti?” (ibidem).

Da questo lucido quanto significativo interrogativo muove la dettagliata biografia critica dell’Autrice che, come in un giallo, offre al lettore, in ognuno dei successivi ventiquattro capitoli, diversi indizi che aiutano a elaborare una prospettiva complessiva di analisi storica sulla vita e l’opera del drammaturgo inglese più argomentata e decisamente controcorrente rispetto a quelle ancora veicolate di recente dalla manualistica ufficiale, britannica come internazionale.

Anzitutto il fatto che molti membri della sua famiglia ebbero seri problemi con il regime violentemente anticattolico di Elisabetta I (la figlia Susanna, ad esempio, compare nelle cd. liste di ricusanza, che “schedavano” i cattolici che rifiutavano di presentarsi al servizio religioso di Stato obbligatorio per legge nel 1606, il padre vi era già comparso nel 1592, mentre poco prima almeno due parenti di parte materna erano stati squartati per alto tradimento, leggi “professione di cattolicesimo”), quindi il fatto stesso che molti dei temi delle sue opere abbiano contenuti distintamente e marcatamente cattolici (come l’evocazione delle anime del Purgatorio in Amleto, la tematica delle indulgenze e della potenza della preghiera d’intercessione in La tempesta, quello del pellegrinaggio in Riccardo II, Il mercante di Venezia, Come vi piace e Re Lear, e ancora il rispetto per gli ordini religiosi, ben diverso dal trattamento riservato invece ai personaggi identificabili come pastori anglicani, la presenza ricorrente dei conventi come luoghi di rifugio e salvezza, i riferimenti alle reliquie e alle difficilmente equivocabili corone del rosario, perfino qualche apprezzamento per la liturgia romana che da una parte all’altra costellano trasversalmente la sua opera) paiono offrire nuovi, convincenti elementi di riflessione a sostegno di un’ipotesi fino a poco tempo fa considerata inaudita ma che ha visto ultimamente conquistare insospettabili personalità, tra cui persino l’attuale primate della confessione nazionale anglicana, l’arcivescovo di Canterbury Rowan Williams: William Shakespeare, il genio fondatore della civiltà letteraria anglosassone, sarebbe a tutti gli effetti cattolico.

Numerosissime e qui purtroppo non sintetizzabili le letture bibliche ed evangeliche che l’autrice offre di alcuni celebri passi shakesperiani, come pure della caratterizzazione psicologica in senso religioso dei vari personaggi, con ampie divagazioni e digressioni nel ricco sottotesto simbolico e semiotico – ermeneuticamente quasi inesauribile – dell’arte drammaturgica del bardo dell’Avon.

E il saggio di Sala, ricchissimo di spunti, offre anche una eloquente rievocazione di episodi ormai pressochè rimossi dalla memoria non solo inglese, ma anche cattolica, come la persecuzione brutale che durante la mitizzata Golden age elisabettiana colpì soprattutto i missionari gesuiti in ragione del loro quarto voto di obbedienza al Pontefice, considerato come il rappresentante despota di una potenza straniera: da san Edmund Campion (1540-1581), arrestato mentre celebrava clandestinamente Messa, impiccato e squartato il 1 dicembre 1581, fino al beato padre Robert Dibdale (1556-1586), per la stessa ragione impiccato e squartato cinque anni più tardi insieme ai confratelli John Adams (1543-1586) e John Lowe (1553-1586), pure beatificati come martiri della fede da Papa Giovanni Paolo II nel 1987.

E ancora padre William Weston (1550-1615), per lungo tempo il superiore della missione ignaziana oltre Manica, che “se la cavò” con una reclusione di vent’anni seguita dall’esilio mentre il suo successore, padre Henry Garnet (1555-1606), sarà impiccato e squartato qualche anno dopo in seguito alla tristemente nota “congiura delle polveri”. E andrebbero ricordate ancora figure straordinarie come san Robert Southwell (1561-1595) e il beato William Hartley (1557-1588), ugualmente martiri della fede a pochi anni di distanza l’uno dall’altro, oltre a padre Robert Persons (1546-1610), pure scoperto ad evangelizzare clandestinamente e costretto repentinamente a rifugiarsi all’estero, che riuscì miracolosamente a salvare la vita, in modo davvero rocambolesco.

Ma numerosi e dettagliati sono anche gli episodi che l’Autrice riporta per far comprendere al lettore di oggi la drammatica vita quotidiana dei cattolici inglesi nella seconda metà del XVI secolo, un periodo che toccò livelli di persecuzione inimmaginabili per la civiltà di un Paese occidentale che dei propri elevati standard democratici ha sempre fatto vanto a livello internazionale: [alla fine del 1500] “era ormai reato per un sacerdote cattolico, di qualsiasi ordine, essere semplicemente presente sul suolo inglese; la pena, in caso di trasgressione, era il solito squartamento, previsto anche per chi avesse offerto ospitalità a un sacerdote o lo avesse aiutato a sfuggire ai suoi persecutori” (pag. 75).

Così, ad esempio, all’inizio del 1586 “una giovane donna di York, Margaret Clitherowe, fu colta nel flagrante delitto di ospitare e nascondere un padre gesuita e fu condannata alla pazzesca peine forte et dure, che prevedeva la compressione lenta della gabbia toracica fino a che morte non sopraggiungesse” (pag. 76). Tutto era cominciato non appena Elisabetta, unica figlia sopravvissuta del re scismatico Enrico VIII Tudor [1491;1509-1547], si era insediata: [dal 1559] “il cattolicesimo era diventato illegale, ogni suddito fedele avrebbe dunque dovuto rinunciarvi e adottare pacificamente la religione di Stato, senza Papa, sacerdoti, Eucarestia, Purgatorio, santi, immagini, devozioni popolari” (pag. 19), in rigido ossequio a quel furore iconoclasta che ha regolarmente caratterizzato le rivoluzioni protestanti dall’età moderna fino ad oggi.

La sovrana britannica sarà quindi scomunicata da Papa san Pio V (1504; 1566-1572), con la bolla Regnans in excelsis nel 1570, che con lo stesso atto scioglierà anche i suoi sudditi dal dovere dell’obbedienza. La persecuzione, però, sarà lungi dallo spegnersi e nel Paese tornerà a scorrere sangue cattolico come non mai con pubbliche impiccagioni e vere e proprie esecuzioni di massa: è questo, e non un altro, il Paese in cui vive e scrive Shakespeare, che nei suoi drammi prenderà non a caso più volte posizione contro la dittatura e la persecuzione delle minoranze, simpatizzando sempre con i più deboli e dando voce a chi allora non aveva più diritto di parlare.

Un messaggio dunque chiaramente politico, e anche religioso, non solo meramente artistico, che parla e sfida ancora i posteri, se solo i posteri volessero ascoltarlo.