La New Economy: gioie e dolori

new_economyArticolo pubblicato da Percorsi n.29 maggio 2000

E’ motivata l’euforia verso il fenomeno che sta cambiando la nostra vita?

di Angelo Gallippi

Quando fu fondata da Jeffrey Bezos, sei anni fa, Amazon.com era una piccola vetrina aperta su Internet, che in soli 30 giorni ha trovato clienti in 45 Paesi (compreso il nostro), e oggi vende libri e altri prodotti in 150 Paesi. Ebbene, lo strepitoso successo dell’iniziativa costituisce un (apparente) paradosso, perché il libro è esattamente uno dei beni che sembrano maggiormente minacciati dal successo del commercio elettronico e dalle possibilità stesse della trasmissione telematica dei dati.

“Il lento spostamento manuale di gran parte dell’informazione sotto forma di libri, riviste, quotidiani e videocassette sta per trasformarsi nello spostamento istantaneo e poco costoso di dati elettronici che si muovono alla velocità della luce”, scriveva Nicholas Negroponte, fondatore e direttore del laboratorio di tecnologie multimediali del Massachusetts Institute of Technology, lo stesso anno in cui Jeffrey Bezos faceva nascere la sua inedita attività commerciale.

In realtà la sopravvivenza del libro nell’era digitale trova almeno due spiegazioni. I mezzi digitali non sono ancora abbastanza diffusi tra dirigenti, politici e genitori, soprattutto nella stragrande maggioranza dei Paesi del mondo. E anche laddove i computer sono più diffusi, l’interfaccia è primitiva e poco invitante, essendo costituita sostanzialmente dallo stesso tubo a raggi catodici inventato oltre un secolo fa.

Inoltre, come riconosce lo stesso Negroponte, i sistemi multimediali “lasciano poco spazio all’immaginazione”, mentre “la parola scritta suscita immagini ed evoca metafore che traggono molto del loro significato dall’immaginazione e dalle esperienze del lettore. Quando leggete un romanzo, siete voi che date al testo buona parte del colore, del suono e del movimento”. E in effetti anche Negroponte, come Bill Gates e tanti altri profeti dell’era digitale, continuano ad affidare al vecchio medium cartaceo le proprie riflessioni sul futuro.

Abbiamo voluto iniziare queste brevi riflessioni sulla New (o Net) economy con l’apparente paradosso della diffusione telematica del libro proprio perché essa costituisce un caso emblematico di passaggio da ciò che è possibile ottenere già oggi (un successo commerciale tramite Internet) e ciò che verosimilmente ci aspetta domani (la sostituzione di molti oggetti o attività con i loro equivalenti elettronici).

Innanzi tutto è bene chiarire i termini in uso: la New economy non è un fenomeno esclusivo dei giorni nostri, ma si è già realizzata tutte le volte che una tecnologia di punta ha svolto un ruolo di traino nei confronti della società del tempo: si sia trattato del telaio meccanico di Jacquard nell’Inghilterra del Settecento o della Ford T nell’America del primo Novecento, del telefono di Bell o dell’aeroplano dei fratelli Wright.

Oggi il cambiamento dello stile di vita di milioni di abitanti del pianeta è indotto dalle tecnologie dell’informazione e delle comunicazioni, ma certo non si fermerà con l’Internet ad altissima velocità (a meno di non credere alla fine della tecnologia). La prossima rivoluzione tecnologica, secondo i suoi profeti, abolirà la differenza tra prodotti e servizi, farà viaggiare la forma di un oggetto in maniera indipendente dalla sua sostanza (per usare una terminologia aristotelica) e porterà alla globalizzazione delle informazioni, accessibili da chiunque e in qualsiasi momento.

Ma se ci limitiamo a guardare all’oggi, la prima considerazione da fare è l’euforia spesso immotivata nei confronti della New economy, che moltiplica le ricorrenze di questa locuzione sui mass media e gonfia le quotazioni in Borsa di società tromp l’oeil, mietendo vittime tra gli investitori meno accorti (come è successo a partire dal marzo scorso con la “grande correzione” del Nasdaq).

“L’entusiasmo è una cosa sana – osserva al riguardo il presidente di Ibm Italia, Elio Catania – ma negli ultimi mesi più che di entusiasmo abbiamo vissuto di esagerazione”. Esagerazione di cui stanno facendo le spese, per esempio, le centinaia di venditori al dettaglio in linea, che negli Usa non sono ancora riusciti a raggiungere il pareggio, e devono fare i conti con lo scetticismo montante dei capitalisti di ventura, sui quali hanno finora basato la propria sopravvivenza.

Su tutti aleggia lo spettro di Value America, il supermercato elettronico che nell’ultimo anno ha visto ridursi di venticinque volte la sua quotazione al Nasdaq, crescere i problemi di liquidità e le cause intentate dagli azionisti, e crollare la sua immagine. Quali le ragioni di questi flop?

Secondo un recente rapporto della Forrester research, principale imputato è la faraonica spesa pubblicitaria, che nel caso di Value America ha raggiunto 70 milioni di dollari su un fatturato di 182; critica la situazione anche dei portali italiani, la cui spesa in pubblicità è stata lo scorso anno di 170 miliardi di lire, a fronte di incassi per soli 40 miliardi.

Seguono la inadeguatezza del servizio di distribuzione ai clienti, l’aspetto dei siti Web, spesso mal fatti e di difficile utilizzo, e la ritrosia dei potenziali clienti a comunicare i propri dati personali e finanziari attraverso la Rete. Elementi che hanno indotto circa la metà dei nuovi ciber-utenti a ritornare a forme di acquisto più tradizionali, malgrado i forti sconti con cui gli e-negozi cercano di trattenerli.

Ma proprio queste disfunzioni indicano (ai giovani) una delle strade da seguire per trarre vantaggi dalle grandi possibilità della New economy: acquisire le specializzazioni tecniche necessarie per il funzionamento della nuova macchina, abbandonando il sogno sempre meno realistico del posto di lavoro fisso e garantito. Secondo una stima della società di ricerche Idc sono 1 milione e 320mila i posti di lavoro attualmente scoperti in Europa, dei quali 40-70mila in Italia, in professioni quali operatore di supporto e specialista di sistema per reti locali, specialista di sistemi di telecomunicazioni, progettista di software applicativo, consulente commerciale.

Si tratta di profili professionali probabilmente sconosciuti alla maggior parte dei nostri giovani, e sicuramente agli strateghi del Ministero della Pubblica istruzione, che con il pasticcio dei “cicli” riusciranno solo ad affossare la gloriosa tradizione di studi classici, senza sostituirle almeno qualcosa di utile ai giovani per l’inserimento nel nuovo mercato prodotto dalla Rete. A questo punto le istituzioni naturalmente candidate a colmare questo vuoto sono le Regioni, che da sempre gestiscono il settore della formazione professionale e che adesso, con il prevalere dei governi di centro-destra sul territorio nazionale, sono effettivamente in grado di arrecare un contributo significativo alla modernizzazione del Paese.

Ma, se escludiamo le società che vendono al dettaglio, vantaggi anche sostanziosi dalla New economy sono in vista anche per le imprese, purché usino il Web non solo per migliorare l’immagine esterna o per sopperire alla mancanza di creatività, ma soprattutto per ripensare alle propria strategia e progettualità. In effetti l’unico settore che abbia registrato finora profitti immediati e sostanziosi è quello degli scambi tra imprese, il cosiddetto business-to-business; il suo giro di affari, che la banca di investimenti americana Morgan Stanley stima per quest’anno in 400 miliardi di dollari (840mila miliardi di lire), dovrebbe balzare a 2.700 miliardi di dollari nel 2004.

Tra coloro che hanno già scritto nel bilancio i primi e-profitti – più ancora di Amazon.com, che malgrado il successo di immagine deve ancora raggiungere quello commerciale, si può citare l’Ibm. La società di Armonk, eseguendo la metà dei propri acquisti con il sistema delle aste in linea, ha risparmiato lo scorso anno la bella cifra di 260 milioni di dollari (circa 520 miliardi di lire), mentre altri 70 milioni di dollari (140 miliardi di lire) li ha risparmiati svolgendo in linea anche la formazione del proprio personale.

In generale il sistema consente risparmi che vanno dal 10 al 30% rispetto al costo di vendita al pubblico, a seconda dei beni o servizi acquistati. Non sarebbe difficile estrapolare da queste cifre i risparmi che potrebbe ottenere la nostra pubblica amministrazione se adottasse le medesime strategie; senz’altro più difficile sarebbe applicarle concretamente.