Jean Paul Sartre

Sartre

Jean Paul Sartre

Il Timone – n. 11 Gennaio/Febbraio 2001

Sartre: umanismo disumano

Negare l’esistenza di Dio può condurre solo alla disperazione. L’uomo è essere religioso per sua natura, ma l’ateismo di Sartre lo condanna al non senso dell’esistenza. E ad essere inferno per se stesso e per gli altri.

di Maurizio Schoepflin

Pascal era convinto che non soltanto lo zelo di coloro che cercano Dio costituisce una prova della sua esistenza, ma anche l’indifferenza di chi non lo cerca affatto rappresenta un buon motivo per credere che Egli esista. Tesi paradossale, ma davvero suggestiva, tale da permetterci di sostenere che si può fare buona apologetica parlando degli atei e illustrando criticamente le loro dottrine. È cosi che un “cattivo maestro” può diventare un interessante contraltare con il quale confrontarsi, senza aggressività e senza paura, allo scopo di far risaltare sempre con maggiore evidenza la verità.

Non v’è dubbio che tra i cosiddetti “cattivi maestri” del XX secolo, un posto di tutto riguardo spetti allo scrittore e filosofo francese Jean Paul Sartre, intellettuale ascoltatissimo per oltre un quarantennio e protagonista di spicco della scena culturale contemporanea fino alla morte, che lo colse nell’aprile del 1980.

Sarte nacque a Parigi nel 1905 e iniziò a scrivere da giovanissimo, avendo ben presto al suo fianco Simone de Beauvoir, la donna che gli sarà accanto per tutta la vita. Nel 1938 pubblica La nausea, un romanzo che farà registrare un grande successo, e nel 1943 dà alle stampe il suo capolavoro filosofico intitolato L’essere e il nulla. Già durante la guerra, e ancor più nel primo dopoguerra, Sartre affianco all’attività di scrittore una vivacissima presenza pubblica che lo portò a schierarsi su posizioni apertamente di sinistra, ma critiche nei confronti dell’Unione Sovietica e dei partiti comunisti.

Nel 1964, in segno di protesta, rifiuta il premio Nobel, e nel 1968 è tra coloro che si mettono alla testa della contestazione studentesca e operaia, spostando la sua collocazione politica sempre più verso la sinistra estrema. II lento declino psicofisico, che precederà la morte, non gli impedirà di continuare a intervenire ripetutamente in maniera clamorosa e provocatoria sulla scena politica e culturale.

Al centro dell’esistenzialismo di Sartre (pur con tutte le cautele del caso, la prima fase del pensiero sartriano può essere considerata appunto esistenzialista) sta la scelta dell’ateismo. Egli ritiene che la negazione di Dio debba essere il punto di partenza di ogni serio discorso sull’uomo: egli sa che tale situazione non è facile, ma decide di accettarla con coraggio, prendendo atto che l’uomo è solo, privo di Padri, privo di punti di riferimento, privo di qualsiasi valore trascendente a cui guardare con fiducia e speranza. In ciò Sartre ravvisa la peculiarità della libertà umana: si tratta di una libertà che, per essere tale, deve lasciare l’uomo completamente in balia di se stesso, totalmente autonomo, non vincolato da nessuna legge, anche se questa condizione di assoluta libertà non può che generare in lui angoscia e nausea. In effetti – ricorda Sartre – la soppressione di Dio, per quanto necessaria, risulta assai gravosa per l’uomo: scomparendo Dio, scompare Colui che, unico, potrebbe fungere da fondamento e giustificazione di ogni norma e di ogni criterio di condotta, e la libertà finisce così col diventare, agli occhi dell’uomo sartriano, una vera e propria condanna, tanto inevitabile quanto pesante.

A questo punto, secondo Sartre, rimane una sola via di uscita: l’impegno, l’azione responsabile nel mondo, senza, tuttavia, che esista alcuna certezza e neppure alcuna speranza circa la bontà e il successo del nostro agire. La morte di Dio genera ancora una volta un radicale pessimismo, che Sartre tenta di ribaltare asserendo che la sua filosofia è in realtà una filosofia del “rigore ottimista”, ovvero una dottrina che accetta virilmente il fatto che niente abbia più un senso e un fine, nella consapevolezza che l’uomo è solo nell’universo.

Sartre affida interamente il destino dell’uomo all’uomo stesso, spingendolo continuamente all’azione, un’azione che, priva com’è di qualsiasi punto di partenza e di approdo, assomiglia sempre più ai mitici supplii di Tantalo e di Sisifo. D’altra parte – sostiene il pensatore parigino – questa è la vera condizione umana, e chi non l’accetta lo fa soltanto per malafede o codardia.

A proposito della sua filosofia, Sartre ha parlato di umanismo, e un umanismo che si basa su due fondamentali elementi: la soggettività umana, oltre la quale non c’è niente, e il suo incessante sforzo di realizzarsi, cercando un fine che non troverà mai. Tutto questo – afferma il filosofo francese – è la conseguenza coerente dell’ateismo che sta alla base dell’esistenzialismo. Dio è scomparso dalla vita dell’uomo, ma anche se ricomparisse nulla cambierebbe: all’uomo resterebbe, immutato, il compito grande e difficile (o, meglio, impossibile) di creare ogni giorno se stesso e la propria esistenza, secondo un’ottica che Sartre giudica (ovviamente in modo del tutto personale) tutt’altro che disperata.

La filosofia sartriana rivela alcuni tratti comuni a tutti i sistemi di pensiero atei: innanzitutto, come è stato opportunamente notato, “un orrore della condizione umana e una ribellione contro di essa”; tutto l’universo diventa un peso insopportabile e ciascun uomo si trasforma nell’inferno per il proprio simile, in un terribile clima di reciproca incomunicabilità. Espulso Dio dall’orizzonte della vita, si dissolve la speranza e la possibilità di fondare valori e norme morali e s’avvera la celebre profezia di Dostoevskij secondo cui “se Dio non esiste tutto è permesso”.

Bibliografia

J.-P. Sartre,L’esistenzialismo è un umanismo, a cura di M Schoepflin, Edizioni Pagus-Colonna, Milano 1996, II ristampa.

L Stefanini, Esistenzialismo ateo ed esistenzialismo teistico, Cedam, Padova 1952.

P. Prini, Storia dell’esistenzialismo. Da Kierkegaard a oggi, Studium, Roma 1989

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L’Osservatore Romano giovedì 20 aprile 1995

Quindici anni dalla morte di Jean Paul Sartre

Una fenomenologia impazzita

di Giorgio Giannini

Rispondendo ad una domanda che gli venne rivolta in occasione del 70° compleanno, Jean Paul Sartre (1905-1980) disse del termine «Esistenzialismo»: «La parola è stupida. Del resto, come lei sa, non sono stato io a sceglierla: me l’hanno appiccicata addosso e io l’ho accettata. Oggi non l’accetterei più.

Ma nessuno mi chiama più “esistenzialista”, salvo nei manuali, dove non significa niente». Strano, perché lo stesso Sartre in un suo volume molto noto L’existentialisme est un humanisme (1946) dice a tutte lettere, come si esprime il titolo, che l’esistenzialismo è un umanesimo, e spiega che tale umanesimo si deve intendere come «ateismo».

Non sarà inutile iniziare così la sua commemorazione a quindici anni dalla morte, per fare anche un bilancio della sua opera letterario-drammatica, fenomenologia esistenziale, psicologico-estetica dalla quale si snoda un esistenzialismo «umanistico» nel quale consiste la sua filosofia.

Non direi proprio che per Sartre l’esistenzialismo fosse allora una parola stupida, se indicava il correlato di un umanesimo ateo, anzi un desiderio mancato di essere Dio, secondo le sue parole: «L’uomo è l’essere che progetta di essere Dio, ed è fondamentalmente desiderio di essere Dio. Ma poi tutto avviene come se il mondo, l’uomo, e l’uomo nel mondo non riuscissero che a realizzare un dio mancato».

Questo desiderio di essere Dio è un «lussuoso capriccio», come direbbe Hegel, un «narcisismo cosmico», dato che l’essere umano, per Sartre, è esistenza assolutamente indeterminata, cioè «esistenza pura», perché esclude una essenza specifica che la limiti, la determini in un particolare modo di essere e di agire.

Le contraddizioni dell’esperienza

Qui, la fenomenologia di Husserl, come è intesa da Sartre, esercita un ruolo preminente mediante la dottrina che le idee sono oggetti della coscienza (intesa nullisticamente) da costatare, descrivere, inventare mediante la descrizione fenomenologia, senza la possibilità di risolvere le contraddizioni dell’esperienza.

Ciò è svolto accuratamente da Sartre nel volume L’essere e il nulla (1943), che reca come sottotitolo Saggio di ontologia fenomenologia, alla maniera di Heidegger, e di cui Sartre dice di aver scritto alcune righesu una piccola vetta dei Pirenei, quando andava in bicicletta con Simone de Beauvoir e l’amico Bost. Il corrispettivo parabolico di questa ontologia fenomenologia si ha nel romanzo sartiano La nausea (1938)

Il protagonista, A. Roquentin, contempla lo spettacolo della natura e delle cose alla luce della sola esistenza, ed è preso da quel principio di vomito che è la nausea. Ciò è provocato dall’universale insignificanza delle cose sottratte ad una valutazione fondata sull’essenza; insignificanza che non può essere digerita e perciò provoca la nausea.

L’uomo non può digerire neppure se stesso, perché è nausea lui stesso. La persona ha perso ogni spessore e, per non recare danno ad una libertà astratta, arbitraria, si è lasciata in balia da un succedersi di pulsazioni senza nesso.

Sartre fu un uomo dotato di grande ingegno, di un notevole estro romantico e speculativo, ma fu affetto dal pesante nominalismo che era il contrassegno dei circoli esistenzialisti. Interprete personalissimo e alquanto tendenzioso di grandi filosofi, si sentì convogliato verso correnti che esercitarono influssi deleteri sulla gioventù del suo tempo.

Una breve militanza politica

Aderì al partito comunista, ma la sua indipendenza intellettuale lo portò ad esservi un isolato che fu oggetto di infiniti dissensi e discussioni, finché abbandonò il movimento quando i carri armati sovietici occuparono l’Ungheria. Al comunismo e ad altri temi politici dedicò la sua voluminosa opera Critica della ragione dialettica (1964), dovuta agli sforzi immani degli ultimi anni in cui la vista stava per abbandonarlo definitivamente. Ma egli sopportava tutto stoicamente, almeno da quanto risulta dalla lunga intervista rilasciata nel 1975 a Michel Contant, al compiersi del suo 70° anno, come si accennava all’inizio.

Ma riprendiamo il filo delle sue idee filosofiche. Per Sartre, l’esistenza (che in fin dei conti ha dato il nome all’esistenzialismo) indica soltanto «coscienza» e «libertà» assoluta. Mediante questa libertà sconfinata l’uomo «si fa ciò che è», tale e quale è, dal momento che l’esistenza precede e produce l’essenza; e ciò avviene mediante una «scelta» profonda, assolutamente gratuita.

In tal modo l’uomo diviene il principio assoluto di tutta la sua esistenza concreta.

Una «libertà» priva di contenuti

La libertà esistenzialista non aderisce a nessun contenuto concreto, a nessuna norma intrinseca di razionalità; che la muterebbe in necessità, ma obbedisce esclusivamente a se stessa; ogni valore presupposto alla libertà le metterebbe il morso e, in pratica, la soffocherebbe.

Nell’altro lavoro teatrale Le mosche (1943), Sartre, presentato in forma moderna l’Oreste di Eschilo, afferma che nel clima di questa libertà che esige di essere riempita, «zavorrata», matura il matricidio di Clitennestra, l’«atto irrimediabile». Altri scritti di indole teatrale, sono: A porte chiuse (1945); La sgualdrina timorata (1946); Le mani sporche (1948); Il diavolo e il buon Dio (1951), I sequestrati di Altona (1960).

Tuttavia questa coscienza e libertà non costituisce per l’uomo una uova perfezione o esaltazione, ma è piuttosto un modo di essere imperfetto, cioè un grave peso al quale il soggetto si sente inesorabilmente legato, con la sua responsabilità, senza alcun aiuto superiore; donde il sentimento della sua esistenza come «abbandono» (délaissment), disperazione, e «nausea», come assurdità del tutto, che coglie l’uomo al suo primo inserirsi nella realtà, specie di ubriacatura di un astemio.

Il mondo, poi, in cui l’uomo è inserito, è l’«in sé» (en soi), cioè pura oggettività o datiti ermeticamente chiusa. L’in sé non è relazione a sé, perché implicherebbe una dualità e quindi la coscienza; esso non è creato, altrimenti non sarebbe in sé, ma da altro; non è causa sui, perché sarebbe intelligenza; non è l’«in», perché sarebbe interiorità, non il «sé», perché avrebbe un’essenza e un «fuori di sé»; non è attivo né passivo. Dunque è ancora sola esistenza, nella priorità dell’in e del per sé. Insomma: l’uomo spersonalizzato, ridotto a brandelli.

La negazione integrale dell’antropologia cristiana

Sartre è pervenuto all’affermazione dell’in sé sulle orme della teoria husserliana dell’intenzionalità della coscienza, ma attraverso una fenomenologia totalmente impazzita, stornata cioè dal suo significato autentico. In questa paccottiglia entrano: Hegel, con la dialettica di essere e non essere, ma senza sin6esi pacificante; Heidegger, con il concetto di essere come «mondanità» (essere-nel-mondo); Kierkegaard, con quello di caduta, ma secolarizzato; Feuerbach e Marx con la dottrina che l’uomo è materia inorganica di cui la coscienza è manifestazione, epifenomeno; Calvino, con il concetto dell’esistenza decaduta, ma in senso ateo.

E infine, ancora un tocco hegeliano: la coscienza in sé è nulla, scissura dell’essere, fondamento di ogni negatività, che però rende possibile l’uomo, la cui venuta al mondo è una diminuzione di realtà («una caduta, una lacuna di essere, un vuoto, una messa in questione, una vittoria del nulla, una carenza»). Negazione integrale dell’antropologia cristiana.

Sartre ci ha dato anche opere filosofiche di un certo calibro, quali. L’immaginazione (1936); Saggio di una teoria delle emozioni (1939); L’immaginario. Psicologia fenomenologia dell’immaginazione (1940); La trascendenza dell’Ego (1936); e altre già nominate. Ma, in fondo, la sistematica è quella diluita nei romanzi e nei drammi.

La stagione esistenzialista di Sartre è stata, in Francia, assai baldanzosa, ma il suo discorso è uno dei più pernicioso, specie per la gioventù, e la sua movenza fenomenologia una rovente offesa alla dignità dell’uomo. L’alienazione non potrà mai essere fonte di libertà autentica. (…) E ciò non solo nel senso che egli assume la responsabilità di ciò che è o sarà, ma in quanto crea effettivamente una «situazione» storica, culturale spirituale. L’ateismo, in una forma drastica e violenta, scende direttamente da questa premessa, né risulta che Sartre se ne preoccupasse troppo.

Mediante la libertà assoluta l’uomo elimina tutti gli ordini oggettivi (essenza, valori, leggi), che si riconnettono all’idea di un creatore, di un governatore, che non solo limita, ma toglie libertà. Tutto questo è «magia», «follia», come ogni verità trascendente, metafisica. Gli ordini oggettivi non sono che il prodotto di un antropomorfismo, per cui ciò che per l’uomo è legge dell’azione, viene trasferito in un putativo creatore del mondo. In realtà, «non vi sono né regole, né norme, né quadri fissi e invariabili; il tempo e lo spazio sono elastici»; e l’acume umano fa svanire nel nulla questo mondo confezionato geometricamente.

Nel romanzo sartiano L’età della ragione (1945), Mathieu Delarue è il fanciullo che, all’età di sette anni, senza nessuna ragione, spezza un vaso prezioso, e si sente perciò fiero, «liberato dal mondo, senza legami, senza famiglia, senza origine».