Il 7 ottobre e l’identità dell’Occidente

Alleanza Cattolica 20 Ottobre 2025

A proposito delle parole di Galli della Loggia

di Marco Invernizzi

Sarebbe poco intelligente non prendere sul serio le parole scritte da Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera del 15 ottobre scorso a proposito del suicidio delle società occidentali sotto l’egemonia del progressismo: quest’ultimo «è la democrazia amputata dal suo retroterra, dalla sua storia, dai valori di questa (…) Il progressismo è la democrazia ridotta a misura unicamente dell’individuo, centro e padrone di ogni cosa, abitante solitario di una sfera sempre più ampia di diritti soggettivi universali, universalmente sanciti e garantiti non più dalla politica e dallo Stato, cioè dalla storia, ma da Corti di giustizia transnazionali incaricate di decidere loro ciò che è bene e ciò che è male».

In pratica il politologo ha scritto che l’egemonia progressista ha sradicato l’Occidente dalle sue radici e lo ha condotto alla situazione attuale di società senza anima perché senza radici: «Ma soprattutto il progressismo è la democrazia che ha instaurato la laicità obbligatoria e si avvia a sciogliere il proprio legame con il retaggio cristiano, quindi anche con l’ebraismo, (…) è l’Occidente che dichiara di non avere più nulla a che fare con i Dieci Comandamenti».

L’Occidente non è riducibile alle sue attuali classi dirigenti politiche e intellettuali, che esprimono questa ideologia progressista, egemone da alcuni decenni. Galli della Loggia non è un caso isolato. Altri intellettuali lanciano segni positivi nella direzione della scoperta o riscoperta dei principi fondativi dell’Occidente. Sarebbe presuntuoso trascurare questi segnali, come se non fossero importanti. Di solito un uomo esprime in pubblico quel che sente nel suo cuore. Galli della Loggia ha sentito il bisogno di dire a tutti i suoi lettori che aveva maturato la decisione di prendere pubblicamente le difese dell’Occidente aggredito, in specie dello Stato di Israele, dopo l’attacco terroristico del 7 ottobre 2023.

Ma quello su cui vorrei riflettere in questa sede riguarda soprattutto le premesse indicate da Galli della Loggia, cioè la crisi dell’Occidente, causata dall’egemonia del progressismo. E’ un’affermazione importante di un intellettuale che è cresciuto in questo clima culturale, ha insegnato nelle università più importanti, ha scritto e scrive sul quotidiano più diffuso, appunto il Corriere. Ha reso pubblico (in realtà già da molto tempo) quello che hanno detto o scritto, e continuano a scrivere, anche Federico Rampini, Luca Ricolfi e altri. Sarebbe supponente rispondere a questo dato di fatto con un atteggiamento del tipo “noi l’avevamo detto 50 anni fa”. E’ vero, ma se a noi interessa “cambiare il mondo”, cioè favorire la conversione non solo religiosa, ma anche culturale delle persone come precondizione per cambiare il mondo, allora dobbiamo prendere atto che è adesso, qui e ora, anche grazie alla loro influenza, che i primi dubbi sul “politicamente corretto” e sull’egemonia del progressismo cominciano finalmente a serpeggiare in una parte (peraltro ancora molto minoritaria) dell’opinione pubblica.

Piuttosto concentriamoci sui contenuti. Il fallimento del progressismo è evidente. Si sta verificando qualcosa che assomiglia agli anni precedenti il 1989, quando si stava «esaurendo la forza propulsiva della Rivoluzione d’ottobre», come disse Enrico Berlinguer per esprimere come il comunismo non «scaldava più i cuori» e, dunque, non era più uno strumento adatto a fare la Rivoluzione.

Accadde quello che sappiamo: nel 1991 finì l’Unione Sovietica, ma non nacque un mondo migliore. Così oggi viviamo nella post-modernità, l’epoca dominata da quel relativismo assoluto o progressismo denunciato da Galli della Loggia. Proviamo a sintetizzare.

  1. La democrazia amputata dal suo retroterra di cui scrive Galli della Loggia rimane un metodo da difendere certamente, ma che va continuamente rinnovato con quei valori che sono stati espulsi dal senso comune: una democrazia senza valori, scriveva san Giovanni Paolo II nell’Evangelium vitae, rischia di diventare pericolosa: «È vero che la storia registra casi in cui si sono commessi dei crimini in nome della “verità”. Ma crimini non meno gravi e radicali negazioni della libertà si sono commessi e si commettono anche in nome del “relativismo etico”. Quando una maggioranza parlamentare o sociale decreta la legittimità della soppressione, pur a certe condizioni, della vita umana non ancora nata, non assume forse una decisione “tirannica” nei confronti dell’essere umano più debole e indifeso? La coscienza universale giustamente reagisce nei confronti dei crimini contro l’umanità di cui il nostro secolo ha fatto così tristi esperienze. Forse che questi crimini cesserebbero di essere tali se, invece di essere commessi da tiranni senza scrupoli, fossero legittimati dal consenso popolare?

In realtà, la democrazia non può essere mitizzata fino a farne un surrogato della moralità o un toccasana dell’immoralità. Fondamentalmente, essa è un “ordinamento” e, come tale, uno strumento e non un fine. Il suo carattere “morale” non è automatico, ma dipende dalla conformità alla legge morale a cui, come ogni altro comportamento umano, deve sottostare: dipende cioè dalla moralità dei fini che persegue e dei mezzi di cui si serve. Se oggi si registra un consenso pressoché universale sul valore della democrazia, ciò va considerato un positivo “segno dei tempi”, come anche il Magistero della Chiesa ha più volte rilevato. Ma il valore della democrazia sta o cade con i valori che essa incarna e promuove: fondamentali e imprescindibili sono certamente la dignità di ogni persona umana, il rispetto dei suoi diritti intangibili e inalienabili, nonché l’assunzione del “bene comune” come fine e criterio regolativo della vita politica» (Evangelium vitae, 1995).

per Galli della Loggia i progressisti pongono le basi per un soggettivismo radicale
Ernesto Galli della Loggia
  • Quello sollevato dalle parole di san Giovanni Paolo II è il grande tema della verità: se non crediamo che Cristo sia il Salvatore e la Chiesa il Suo popolo, se non siamo convinti che esista una legge naturale uguale per tutti, allora non convinceremo nessuno perché non siamo convinti noi stessi.
  • Galli della Loggia parte dal mancato sostegno a Israele dopo il 7 ottobre per denunciare, appunto, la sconfitta dell’Occidente, come recita il titolo del suo intervento, ripreso dalle pagine culturali del quotidiano milanese: Perché il 7 ottobre l’Occidente ha perso. Ha perso perché non ha più la sua identità originaria, che ha le sue radici nella tradizione giudaico-cristiana, senza le quali non riesce a comprendere neppure il valore della presenza di Israele nel Medio Oriente e a difenderlo da una aggressione enorme, come quella appunto voluta da Hamas il 7 ottobre 2023. Tuttavia, quei valori possono essere ripresi, non sono scomparsi per sempre, soprattutto non è scomparso il riferimento di quei valori, il Signore Gesù Cristo.
  • Allora cerchiamo di tirare le fila. Il progressismo ha fallito, ma ha lasciato macerie dietro l’egemonia esercitata soprattutto sulla cultura del nostro popolo, attraverso scuola, università, editoria ecc. Qualcuno ha cominciato ad accorgersi di questa situazione. Prendiamolo sul serio, incoraggiamolo, non lasciamolo solo.

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Corriere della sera 15 ottobre 2025

Perché il 7 ottobre l’Occidente ha perso

Le democrazie storiche sono finite. Lo hanno dimostrato

di Ernesto Galli della Loggia

Ora che la vicenda apertasi il 7 ottobre 2023 con il pogrom di Hamaus cono­sce una -si spera non provvisoria- tregua d’anni, possiamo guardare a quella data con un po’ più calma. E ci si fa più chiaro che quanto è avvenuto quel giorno e in seguito segna il momento in cui ha comincia­to a rivelarsi sotto i nostri occhi un decisivo cambiamento/salto di paradigma tra un pri­ma e un dopo nel rapporto dell’Occidente di cultura cristiana e l’ebraismo.

La democrazia in Europa e negli Stati Uniti, la democrazia liberale che abbiamo conosciu­to nella sua espansione vittoriosa del Nove­cento, si è costruita anche grazie a tre nessi decisivi con l’ebraismo: il socialismo, l’affare Dreyfus e la Shoah. Senza l’uno o l’altro di que­sti tre fattori la vicenda della democrazia in Europa non è pensabile. E non a caso, in un modo o nell’altro, prima o poi, tutti i suoi ne­mici sono stati anche nemici dell’ebraismo. E’ per questo che la democrazia europea del ‘900 ha storicamente imparato a considerare ogni attacco agli ebrei e all’ebraismo come un at­tacco ai suoi fondamenti, ai suoi valori o se medesima. Ma ormai non è più così e proprio in ciò sta l’aspetto più inquietante di quanto il 7 ottobre ci ha rivelato: l’improvvisa constata­zione dei sentimenti che abbiamo scoperto animare una parte così grande dell’opinione pubblica occidentale.

La superficiale e breve solidarietà con le vittime del massacro del 7 ottobre è stata sovra­stata ben presto dal clamore volto a condan­nare la «sproporzione» della reazione di Isra­ele e con essa il nuovo mostro, il sionismo. Quasi immediatamente quella breve solidarietà è stata sovrastata dall’entusiasmo di decine di migliaia di neofiti pronti ad abbraccia­re la causa palestinese, a sventolare la sua bandiera, assurta a simbolo degli ideali politi­ci più nobili e puri. Pronti a sottoscrivere qualsiasi slogan, fino a quello più delirante di tutti dell’accusa di genocidio. Sotto il nostro sguardo stupefatto, l’Europa della gioventù più spregiudicatamente moderna: super secolarizzata, digitalizzata e presunta scolarizzata, proprio questa Europa è tornata a una delle tradizioni più antiche del continente: all’accusa del sangue nei confronti degli ebrei.

Che cosa è successo dunque nelle nostre società che ha prodotto una mutazione così sorprendente?

E’ accaduto che la democrazia che aveva ca­ratterizzato il secolo scorso, quella lunga vi­cenda con i suoi valori, i suoi eroi e i suoi ne­mici e i suoi tabù—, si è consumata irrepa­rabilmente. Ne sono rimaste le forme ma la sostanza e l’anima no: quelle sono profonda­mente mutate. L’identità della democrazia europea è mutata, e con essa è mutato anche il rapporto che al suo interno il mondo dei non ebrei aveva instaurato con gli ebrei e l’ebraismo. In Europa, ma non solo, il posto della democrazia è stato preso da qualcosa di assai diverso nella sostanza: dal progressi­smo.

Il progressismo è la democrazia amputata dal suo retroterra, dalla sua storia, dai valori di questa. È quindi la democrazia tendenzial­mente amputata di ogni momento collettivo collettivo radicato nel passato e reclamante anche dei doveri: il partito, il sindacato, la famiglia, le tradizioni, lo Stato nazionale. Al posto di tutto ciò il miraggio di una democrazia come habi­tat di una convivenza avveniristica all’insegna di una fraternità interculturale capace di cancellare le identità particolari, i loro confini, le loro infinite diversità pacificate da una gene­rale tolleranza. Il progressismo è la democra­zia ridotta a misura unicamente dell’individuo, centro e padrone di ogni cosa, abitante solitario di una sfera sempre più ampia di di­ritti soggettivi universali, universalmente san­citi e garantiti non più dalla politica e dallo Stato, cioè dalla storia, ma da Corti di giustizia transnazionali incaricate di decidere loro ciò che è bene e ciò che e male. E’ la democrazia convinta che qualunque scoperta scientifica sia autorizzata a cambiare la nostra vita.

Ma soprattutto il progressismo è la demo­crazia che ha instaurato la laicità obbligatoria e si avvia a sciogliere il proprio legame con il retaggio cristiano, dunque anche con l’ebrai­smo: perché nel momento in cui la figura di Gesù di Nazareth diventa la figura di uno sco­nosciuto è anche l’intero mondo ebraico che viene virtualmente inghiottito nell’insignificanza del nulla. Una frase come quella famosa pronunciata da Pio XI— «Noi siano spiritualmente dei semiti», una frase del genere og­gi per i più risulta prima che incomprensibile, letteralmente indicibile. Il progressismo è la democrazia ormai svincolata dall’etica giudaico-cristiana che la vide nascere e crescere, è l’Occidente che dichiara di non avere più nulla la a che fare con i Dieci comandamenti. Al po­sto dei quali s’insedia un nuovo credo: l’uma­nitarismo, un’etica che ignora radicalmente il criterio del giusto e dell’ingiusto, di chi ha ra­gione e chi ha torto -cioè di nuovo il criterio della storia- per dedicarsi unicamente al culto della vittima a prescindere, al rifiuto stentoreo della violenza, alla damnatio di chi per qualsiasi ragione vi faccia ricorso. Anche se poi capita sempre che nell’infinita schiera delle vittime se ne scelgano alcune e non al­tre. Non a caso per gli ostaggi ebrei seppelliti nei tunnel della morte a Gaza nessuna Emergency, nessuna Amnesty, si è mossa davvero; come del resto è accaduto per le centinaia di cristiani massacrati dappertutto in Africa.

Avendo scacciato dalla nostra mente l’idea del peccato originale, il progressismo ha scac­ciato da essa anche l’idea del male, della potenza del male, e quindi anche l’idea dei mezzi, quasi sempre sgradevoli, ma spesso neces­sari, a combatterlo. Ed è così che l’illusione si è impadronita di noi. L’alto pessimismo circa la natura umana e il sentimento del tragico che nella tradizione occidentale hanno sem­pre accompagnato il giudizio e l’azione politi­ca, la consapevolezza del rapporto sempre problematico dell’agire politico con la mora­le, hanno ceduta il passo all’illusione rassicu­rante della pace universale. E’ penetrata in noi la convinzione della presunta ragionevolezza degli attori della scena politica, la convinzio­ne ingannevole riguardo l’assoluta improba­bilità che essi siano davvero quelle canaglie che talora appaiono essere e che in realtà qua­si sempre sono. La minaccia e l’uso della for­za, la guerra con tutto ciò che essa comporta, una volta usciti dal nostro universo mentale, hanno finito per sembrarci qualcosa di fattualmente e moralmente inconcepibile, qual­cosa con cui non possiamo avere nulla a che fare. Da anni e anni il no alla guerra sempre e comunque -anche se spesso al riparo del­l’ombrello atomico americano- è diventata l’architrave del politicamente corretto occidentale, l’insegna suprema del nostro progressismo. Ed è così che si è consumato il di­stacco dell’Occidente dalla democrazia israeliane. E così che il «mai più» solenne­mente promesso all’ebraismo nel 1945 dalla rinata democrazia europea, è naufragato nel­l’oceano delle incomprensioni e del tradi­menti.

Casella di testo: )2Anche Israele, infatti, nasceva nel lontano 1947 promettendo a se stesso «mai più». Ma tra quel «mai più» e il «mai più» di noi euro­pei esistevano radicali differenze che sarebbe­ro diventate sempre più evidenti. Dopo la Se­conda guerra mondiale, infatti, noi europei ci apprestavamo a chiudere per sempre la pagi­na dei «destini nazionali», gli ebrei invece aprivano per la prima volta la loro, fondata per giunta su una visione etnico-religiosa che ai nostri occhi non poteva che apparire sgra­devole. Dopo il 1945 noi eravamo indotti a ri­fiutare le frontiere; gli ebrei d’Israele, invece, erano costretti a vivere ogni giorno con la loro assoluta necessità. Dopo Il 1945 noi saremmo stati spinti ad affermare il primato assoluto, indipendentemente da qualsiasi condizione, dei diritti individuali; il «patto nazionale» d’Israele, dello Stato ebraico non poteva certo riguardare arabi e cristiani. In conclusione, mentre il «mai più» dell’Europa postbellica era destinato ad aprirsi sempre di più all’uni­versalismo, viceversa il «mai più» che aveva presieduto alla nascita dello Stato ebraico ob­bligava sempre più gli israeliani a rinchiuder­si nella loro fortezza.

E infine, complice la perentoria astrattezza del progressismo, noi siamo diventati assolu­tamente restii a pensare che anche i principi ora indiscutibili devono tuttavia fare i conti con la restia. Da tempo il pragmatismo non fa più parte della nostra educazione politica. E così, come ha scritto una storica israeliana, Diana Pinto, ci siamo abituati a pensare che gli israeliani sono dei bianchi europei che si comportano male in un quartiere esotico e certamente violento, ma restando comunque pur sempre degli europei che, almeno in linea di principio, dovrebbero conformarsi alle re­gole che vivono da noi.

A un tratto accade però che un branco di lu­pi feroci entri in quel quartiere seminando la strage. E che ne segua tutto ciò che sappiamo: una violenza terribile per cercare di avere ra­gione di quelle belve, per cercare di eliminare per sempre la loro minaccia.

Come tanti anch’io, in tutti questi mesi, non ho cessato un istante dal chiedermi se quella violenza sterminatrice, se quella sua intermi­nabile durata fossero realmente giustificate. Se non ci fossero altri mezzi. Ma a darmi una risposta è stata proprio l’aggressività delle no­stre piazze contro Israele, è stato l’odio contro l’Occidente che da esse saliva, la ricomparsa dell’antisemitismo, dell’atmosfera di caccia all’ebreo a un tratto aleggiante un po’ dovun­que. Allora mi si è chiarito come stavano le cose. Sono un vecchio democratico europeo, non progressista e che ancora custodisce la memoria: in certe circostanze non posso ave­re dubbi da che parte stare