SIR agenzia di informazione 24 Luglio 2025
di Giovanna Pasqualin Traversa
Silenzio e profonda compassione per la giornalista malata di sclerosi multipla e morta il 21 luglio ricorrendo al suicidio assistito, ma “sulla cultura mortifera non si deve tacere” perché “la morte si accoglie ma non si somministra”. Ne è convinta la presidente del Mpv, Marina Casini, che aggiunge: “Nessuna legge che approvi e favorisca in qualche modo il suicidio assistito può considerarsi giusta”. E se è doveroso tentare di “limitarne gli aspetti iniqui”, la vera risposta è “l’accoglienza e la protezione concreta, efficace ed effettiva, a 360 gradi, delle persone fragili che dovrebbero avere corsie preferenziali per la cura e l’assistenza da parte di tutto il Ssn”
Morire “con dignità” per porre fine a sofferenze divenute intollerabili. È l’espressione più utilizzata per giustificare scelte di suicidio medicalmente assistito. Come quella della giornalista perugina Laura Santi, 50 anni, affetta da una forma progressiva e avanzata di sclerosi multipla e morta il 21 luglio a casa sua dopo essersi auto-somministrata un farmaco letale. Laura, in possesso dei requisiti stabiliti dalla sentenza 242/2019 della Corte costituzionale, è l’ultima delle nove persone che ad oggi hanno ottenuto in Italia il via libera per l’accesso alla morte volontaria assistita. Una scelta, la sua, che spinge ad intuire con profonda compassione il livello di sofferenza e di fatica che la attraversavano per spingerla ad un gesto così estremo. Ma che al tempo stesso interroga sul senso più autentico della compassione, non pietismo a buon mercato ma presenza, condivisione e accompagnamento di chi soffre, e sul valore della vita nella consapevolezza che la difesa dell’esistenza di ogni persona è lo specchio di quanto si difende la propria, quella di ciascuno, in particolare delle persone più fragili, di chi potrebbe sentirsi abbandonato o ritenere di costituire un peso per gli altri. Mentre è in corso il dibattito parlamentare (e pubblico) sul testo unificato recante “Modifica all’articolo 580 del Codice penale e ulteriori disposizioni esecutive della sentenza n. 242 della Corte costituzionale del 22 novembre 2019”, dopo alcuni giorno di silenzio abbiamo raccolto la riflessione di Marina Casini (nella foto), presidente del Movimento per la vita italiano.
Marina, che cosa ha provato e che cosa si sente di dire sulla morte di Laura Santi?
Ho provato tristezza e ho pregato per lei, per i suoi cari e per chi l’ha aiutata a darsi la morte. Penso che dietro alla spavalderia ostentata dai fautori del suicidio assistito, ci sia uno smarrimento della nostra comune umanità. Penso che la morte “solidarizzata” con l’aiuto al suicidio è una sconfitta, non un trionfo dei diritti; una beffa, non una conquista.
Questo lo dico pensando alla cultura, alla mentalità che si vuole diffondere con tanti discorsi sulla dignità, i diritti, la civiltà, la libertà. Ma se penso a Laura e a quelli che come lei hanno chiesto e ottenuto il congedo dalla vita penso al silenzio e alla preghiera. Non sappiamo cosa accade nella mente e nel cuore di una persona che muore o che addirittura sceglie di morire.Le persone vanno sempre “salvate” e affidate alla Misericordia. Ma sulla cultura mortifera, ingannevole e ingannatoria, non si deve tacere, abbiamo il dovere di giudicare. Si tratta sempre di “salvare” l’uomo, l’umanità, le relazioni. C’è qualcosa di inquietante e soverchiante, come una seduzione velenosa, nello sganciare il valore della vita – la dignità – dall’esistenza stessa.
Talvolta però la fatica può sfociare nella disperazione e questa può portare a pensieri di morte…
Certo, ma qui si parla di altro, si vogliono sovvertire le categorie del bene e del male. Si vuole negare il valore dell’uomo. Quello che stiamo vivendo affonda, culturalmente parlando in una permissività sociale e giuridica che, a partire dell’aborto, si traduce in una perdita di chiarezza su tutto l’uomo. Se l’uomo nella sua massima fragilità e povertà non è considerato un soggetto, un fine, una persona, ma un oggetto, un mezzo, allora tutti i pilastri della nostra convivenza civile diventano incerti e libertà, diritto, giustizia, uguaglianza, democrazia rischiano di trasformarsi in recipienti vuoti che qualsiasi contenuto può riempire. Si produce in sostanza un ottenebramento delle coscienze. Il confronto ultimo non è sulla libertà, ma sul significato della vita, giudicata inutile se ormai apparentemente mutilata e sofferente.
È ovvio che la sofferenza va combattuta e contrastata attraverso il potenziamento delle cure palliative, ma il punto focale è il significato della vita umana. E allora c’è tutta una meditazione da fare sulla natura, l’estensione, la forza, la ragione, il senso e la garanzia del diritto alla vita che è proprio ciò che una visione individualista e materialista dell’uomo contesta. La morte si accetta, si accoglie, ma non si somministra. Questo implica un enorme impegno per garantire a 360 gradi e a tutti i livelli la tutela delle persone fragili e il sostegno alle loro famiglie.
Pur nel rispetto e nel non giudizio su condizioni esistenziali segnate da gravi malattia o disabilità che potrebbero indurre a chiedere il suicidio assistito, non vi è il rischio che, grazie al valore simbolico di ogni legge, con il ddl in materia attualmente in discussione queste condizioni diventino nella mentalità corrente un disvalore e il suicidio finisca invece per essere considerato un “bene possibile” se non addirittura “auspicabile”?
Il rischio c’è, eccome. Purtroppo, la strada è stata aperta dalla legge 219/2017 e poi dalla nota sentenza costituzionale 242/2019 a cui sono seguite le altre con tutto il dibattito annesso. La legge è per la collettività “guida all’azione”, espressione di un “valore collettivo”. Per gran parte dei consociati, “legale” equivale a “morale”, tanto più se è lo Stato che con le sue strutture pubbliche si assume il compito di dare corso al suicidio assistito, cosa che il ddl citato esclude. In ogni caso nessuna legge che approvi e favorisca in qualche modo il suicidio assistito può considerarsi “giusta”.
Per un cattolico, poi, la bussola è il Magistero: “L’aborto e l’eutanasia sono dunque crimini che nessuna legge umana può pretendere di legittimare”, si legge al n. 73 dell’Evangelium Vitae. È vero che non bisogna fare di ogni erba un fascio e che non tutte le leggi sono inique nella stessa misura, ma la legittimazione conferita dalla legge a certi comportamenti ne potenzia la portata. Detto ciò, mi rendo anche conto che in concreto, nella discussione parlamentare dove si incontrano e si scontrano forze opposte, non è affatto facile raggiungere l’ideale del bene. Inoltre, non tutto il bene è immediatamente realizzabile e il “meglio” verso cui tendere non è quello assoluto (e perciò “decontestualizzato”), ma quello possibile – tutto quello possibile – qui ed ora, nella concretezza delle circostanze. Questo bene “contestualizzato”, se in astratto potrebbe non raggiungere neanche la sufficienza, in concreto resta l’unico massimo possibile bene a cui non si deve rinunciare per il fatto di non poter ottenere qualcosa di più. La “cultura della vita” non può accontentarsi della fermezza nel riconoscere ciò che è assolutamente giusto in rapporto alla dignità umana, ma deve anche tentare di impedire nel massimo grado possibile gli attentati contro la vita umana. Restare immobili quando si può impedire un po’ di male, è male.
Distruggere un po’ di male non è il “male minore”. Se è il massimo che si può fare, è il massimo bene possibile. Queste considerazioni nascono da un passaggio particolare del paragrafo 73 dell’Evangelium Vitae che non va però preso alla leggera, non va banalizzato. Esso è molto rigoroso e va interpretato con altrettanto rigore. Senza un’analisi rigorosa si corre il rischio di cedere a un “male minore” che attua comunque una collaborazione illecita a una legge ingiusta, mentre va compiuto un legittimo e doveroso tentativo di limitarne gli aspetti iniqui.
Quale, allora, potrebbe essere un possibile punto di equilibrio per tutelare la vita e al tempo stesso tentare di creare le condizioni affinché nessuna arrivi a dire “non ce la faccio più”?
La protezione vera e concreta, efficace ed effettiva, a 360 gradi, delle persone fragili che dovrebbero avere corsie preferenziali per la cura e l’assistenza da parte di tutto il Ssn. Le cure palliative – per le quali bisogna fare ancora molto – sono un aspetto fondamentale, ma vanno circondate da una serie di attenzioni e agevolazioni che vanno da un qualificato potenziamento dell’assistenza sanitaria sia domiciliare che ospedaliera a un facile accesso alle cure necessarie, da un sostegno ai caregivers all’abbattimento delle barriere della burocrazia sanitaria, da una più qualificata formazione professionale degli operatori sanitari a un investimento economico per il miglioramento in termini di servizi e ambiente delle strutture sanitarie, ma anche per un aumento degli hospice e dei posti letto negli ospedali. Questo per dire solo alcune cose. Senza aiuti per vivere e per curarsi; senza aiuti alle famiglie nel cui seno ci sono malati, disabili, anziani; senza relazioni di cura che illuminano di senso l’esistenza di chi è colpito dalla malattia e dalla non autosufficienza il baratro è a un passo. E vogliamo parlare ancora di “autodeterminazione”? Siamo di fronte all’ “autoesclusione per eterodeterminazione”. Speriamo almeno che il Parlamento faccia ogni sforzo per mantenere l’illiceità dell’aiuto al suicidio.