Il pericoloso errore del relativismo etico

 relativismoArticolo pubblicato su L’Osservatore Romano
lunedì-martedì 3-4 febbraio 2003

di Robert Spaemann

La «Nota» della Congregazione per la Dottrina della Fede qui presentata critica un pre-giudizio, che nel mondo occidentale è ormai divenuto elemento costitutivo della “political correctness”. Il pre-giudizio si può riassumere nelle seguenti tesi: 1. I valori più alti di un ordine democratico liberale sono la tolleranza ed il pluralismo. 2. La tolleranza è inconciliabile con la convinzione di essere in possesso di una verità assoluta e definitiva. 3. L’ordine giuridico di uno stato liberale si fonda esclusivamente sulla volontà dei suoi cittadini. Esso non può pertanto presupporre alcun principio etico, la cui universalità sia riconosciuta solo da una parte dei cittadini. 4. Non esiste una realtà, come il «Diritto naturale». Il diritto può proibire solo azioni, che vanno contro la volontà di coloro che sono toccati dalle conseguenze di una tale azione.

Il pre-giudizio, che soggiace a queste tesi del liberalismo ideologico, non solo è erroneo, ma pericoloso, e più precisamente pericoloso per lo stato di diritto liberale. Solo a motivo di una certa mancanza di consequenzialità nell’applicazione di questi principi le gravi conseguenze restano inizialmente celate. Sottoporrò ora a critica le summenzionate quattro tesi.

1. Pluralismo è una parola che ha molti significati. La creazione è «pluralistica». Esiste una pluralità enorme di specie, pluralità di esseri umani, di razze, nazioni e culture, ed all’interno di queste a sua volta una pluralità di raggruppamenti e di individui. Questa pluralità costituisce la ricchezza del mondo. Una riduzione della pluralità significherebbe un impoverimento. Impoverimento di che cosa? Un impoverimento dell’unico mondo.

Se il mondo non fosse uno e se l’essere non fosse uno, allora non avrebbe nessun senso parlare della pluralità come di una ricchezza. Il nostro concetto di «essere» abbraccia tutto ciò che esiste. Affermare che esiste qualcosa al di fuori dell’essere è autocontraddittorio.

La stessa cosa vale per il concetto di verità. Chi dice che qualcosa è così e così esclude in tal modo che non sia così. E se egli afferma che nessuno potrebbe veramente sapere che qualcosa si comporta così e non diversamente, allora afferma appunto in tal modo di nuovo qualcosa, e questa affermazione è o vera o falsa. Se esistesse qualcosa come una pluralità delle verità, allora sarebbe vero anche il contrario e quindi in realtà non si sarebbe detto proprio niente. La legge di Newton sulla gravitazione universale è valida o non è valida. Senza un concetto universalistico di verità ogni ricerca scientifica si fermerebbe subito.

Altra questione è quella dell’adeguatezza dei nostri concetti, se parliamo di realtà non empiriche. Questa questione non è il nostro tema. Poiché noi possiamo parlare e pensare su Dio solo con immagini, Dio stesso ci ha dato un’immagine adeguata di se stesso in Gesù Cristo. “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14, 9).

Ma non solo i concetti dell’essere e del vero sono universalistici per loro definizione, bensì anche il concetto del bene. «Il bene, se si manifesta, è comune a tutti», si dice in Platone. Se noi diciamo che il pluralismo è qualcosa di buono, allora questa frase ha un significato solo se la stessa parola «buono» ha un senso univoco. Se bene e male sono relativi, allora queste parole di fatto non hanno alcun significato.

Prima di tutto non avremmo la possibilità di condannare alcun crimine contro l’umanità. Heinrich Himmler, il comandante delle SS nel «Terzo Reich», celebrò in un discorso la morale altruista dei carnefici di Auschwitz, che senza prospettive di riconoscimenti e senza vantaggi personali liberavano l’umanità dal cancro del giudaismo. Esiste notoriamente anche un altruismo del male. Ma parlare qui di «male», può essere interpretato dal relativista solo nel senso che noi abbiamo una sensibilità diversa da Himmler.

Il relativista deve impedire a se stesso un giudizio su quale sensibilità sia migliore dell’altra, perché nella sua logica non esiste un criterio del bene che non sia relativo. Se i greci del 5° secolo avanti Cristo credettero di aver trovato un tale criterio nel concetto di «physis», di «natura», ciò avvenne, secondo l’opinione del relativista, per il fatto che essi non erano ancora consapevoli del condizionamento culturale dei costumi umani.

In realtà è vero il contrario: nel momento in cui i greci, fra l’altro anche a motivo di resoconti di viaggi, divennero consapevoli di questo condizionamento, essi cominciarono a cercare un criterio non relativo, sul fondamento del quale si potesse distinguere fra costumi migliori e peggiori. Che debba esistere un tale criterio lo dimostra già il fatto che gli uomini discutano di esso. Su questioni di gusto non si può disputare.

Sul bene e sul male si discute, perché giudizi sul bene e sul male implicano sempre un’istanza universalistica. Del resto esiste nella gran maggioranza dei casi una concordanza nell’insieme della famiglia umana su ciò che è da lodare e ciò che è da condannare. Ovunque, dove non abbia avuto luogo una rieducazione ideologica, la gratitudine, l’amore per i genitori, la fedeltà, l’onestà, il coraggio e la misericordia sono riconosciuti come qualcosa di bello, mentre l’ingratitudine, il tradimento, la menzogna, la viltà e la crudeltà come qualcosa di brutto.

Il cristianesimo non ha inventato queste virtù, ma ha soltanto contribuito al loro illimitato libero sviluppo. Le ha liberate dalla costrizione di abdicare continuamente di fronte alle esigenze dell’autoaffermazione. Il cristianesimo insegna: chi fa la volontà di Dio, può abbandonare a Dio la propria autoconservazione. Questo solo rende possibile l’assolutezza della morale.

2. Il relativismo conosce in definitiva solo una virtù: la tolleranza. Ma anche qui è contraddittorio. Proprio esso non è in grado di dare un fondamento ad una realtà come la tolleranza. Perché la tolleranza dovrebbe essere un valore? Perché favorisce la pace interna di una realtà comunitaria? Ma ciò può essere favorito anche con la repressione e l’eliminazione di tutti i dissidenti. E non si dovrebbe essere tolleranti anche nei confronti di religioni e visioni del mondo che favoriscono l’intolleranza? non è forse ogni convinzione altrettanto buona di un’altra?

Molti relativisti sono a favore della tolleranza anche nei confronti dell’intolleranza e per essi ogni autentica convinzione veritativa significa intolleranza, cioè ogni convinzione che ritiene falsa la convinzione contraria. Laddove la tolleranza non è un valore derivato, secondario, ma il più alto, essa si trasforma in intolleranza nei confronti di ciò che solo, in realtà, conferisce alla tolleranza il suo valore: la sacralità della coscienza.

L’occhio umano, preso in se stesso, non avrebbe alcun valore, se non esistesse la luce e la realtà visibile. Le convinzioni di una persona non avrebbero alcun valore, se non esistessero la verità ed il bene, ai quali la coscienza e le convinzioni sono orientate, anche quando esse nel singolo caso si sbagliano.

La dignità della persona umana si fonda su questo riferimento alla verità. La tolleranza invece è il ritirarsi davanti a questa dignità. Il relativismo nega proprio il valore di ciò che solo in realtà fonda la tolleranza: le convinzioni. Anche il dialogo fra religioni, visioni del mondo e convinzioni veritative diventa impossibile, laddove il dialogo stesso si sostituisce alle convinzioni e viene dichiarato inabile al dialogo colui che ha delle convinzioni che non è pronto a rimettere in discussione ed a trasformarle in semplici ipotesi.

Questa dialettica è tutt’altro che puramente teoretica. L’intolleranza liberale oggi sta chiaramente avanzando nel mondo occidentale. Chi le oppone resistenza viene marginalizzato come «fondamentalista».

3. Una tolleranza illimitata è impossibile. Da parte di stranieri ci si può attendere che essi si adeguino alle usanze di un Paese. Da ciascuno ci si deve attendere che il suo agire non vada contro le regole elementari della convivenza umana. Se a qualcuno la sua coscienza erronea ordina di divenire terrorista, allora gli deve essere impedito di fare ciò che la sua coscienza gli ordina.

Proprio in quanto gli viene impedito di far questo mediante una costrizione, la sua coscienza viene rispettata. Infatti nessuno è tenuto in coscienza a fare ciò che gli viene reso impossibile. Per il relativista in realtà non esiste nessuna differenza fra una coscienza integra ed una deviata. Egli non conosce nessun criterio sovrasoggettivo, che renda possibile operare una tale distinzione.

L’ordine statuale pertanto secondo la visione relativista non corrisponde ad una «natura delle cose» voluta da Dio, ma sempre solo all’arbitrio. Nella democrazia esiste la regola che la volontà della maggioranza ha la prevalenza nelle decisioni. Ma questo significa che esiste un diritto naturale della maggioranza di pretendere da una minoranza qualsiasi cosa? Dov’è il limite di ciò che è ragionevole?

Il relativista conosce solo due alternative: o l’accettazione fattuale da parte degli interessati o il pratico predominio da parte della maggioranza. Entrambe le alternative non sono accettabili. L’accettazione fattuale da parte degli interessati rende impossibile pretendere qualcosa da qualcuno, se egli nega la sua adesione. Ciò significa: anarchia.

Il predominio pratico, quindi il diritto del più forte, non è diritto, ma il contrario. Ogni ordinamento della vita umana, che meriti questo nome, nasce dalla volontà di porre limiti al predominio puramente fisico. Il relativista non conosce il fondamento di questi limiti e pertanto conosce solo l’alternativa: anarchia o tirannia. Questa alternativa è inevitabile, se non esiste un ordine che si fondi sulla natura ragionevole dell’uomo, che allo stesso tempo legittima e delimita il potere politico.

Il grande Cardinale Clemens August von Galen, Vescovo «confessore», così parlava dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale ai cattolici radunati davanti alle rovine del Duomo di Munster: «Ciò che ora noi abbiamo sperimentato, tirannia, persecuzione, terrore e devastazione, è la punizione di Dio per ciò che i tedeschi nel 1919 hanno scritto all’inizio della loro Costituzione: “Ogni potere dello Stato deriva dal popolo”.

Ora abbiamo sperimentato il potere dello Stato, che derivava dal popolo ed è ora il momento di riflettere sull’unica origine legittima di ogni potere statuale, anche di quello democratico, su Dio». Già Platone scrive che nessun uomo, ma solo Dio è Signore dell’uomo. Come il Papa non deve la sua autorità ai Cardinali, che lo hanno eletto, così l’uomo politico scelto democraticamente non la deve al popolo, che lo ha eletto. Anche per lui Vale la parola di Gesù a Pilato: «Tu non avresti alcun potere, se non ti fosse stato dato dall’alto» (cfr Gv 19, 11). I limiti del suo potere hanno la stessa origine della legittimità di questo potere: la legge morale naturale, nella quale si manifesta la volontà divina per noi.

Quando un parlamento approva leggi che contraddicono questo ordine, finisce il dovere della lealtà. Quando la maggioranza di un popolo decide o approva l’eliminazione o la riduzione in schiavitù di una minoranza, è diritto e dovere di ogni cittadino, che comprende l’ingiustizia di questa legge, di porsi contro la legge al fianco di questa minoranza, per aiutare le persone minacciate e lavorare per un ordinamento, che costringa la maggioranza a rinunciare all’ingiustizia.

Se gli viene obiettato che una minoranza religiosamente motivata non avrebbe il diritto a questo, la risposta può essere solo così: non vi imponiamo la religione. Ma vi impediamo nella fattispecie, se ne siamo in grado, di fare violenza o di uccidere persone innocenti, anche: se voi credete di averne un diritto per questo. E facendo questo noi difendiamo la legittimità dell’ordinamento, sul quale si fonda il vostro stesso potere.

4. Il liberalismo ideologico riconosce questo argomento in modo condizionato. Ma accetta solo un unico limite dell’agire umano: la volontà dell’interessato. Esso respinge tutte le leggi, attraverso le quali le persone vengano limitate, a partire dal presupposto che a nessuno debba essere inflitto alcunché contro la sua volontà. Ma la volontà è una realtà troppo ambivalente, perché possa sostituire il concetto di «natura dell’uomo».

La volontà è manipolabile. Si può pensare di allevare schiavi, mediante manipolazioni genetiche, che siano totalmente d’accordo con la loro condizione di schiavi. Perché non dovremmo farlo, se non esiste qualcosa come una dignità della natura umana, ma solo una dignità della volontà? Perversioni come sadismo e masochismo vengono già oggi apertamente propagandate, a condizione che un sadico si associ con un masochista.

Un caso difficile attende in questo momento il giudizio dei relativisti liberali. Poco prima di Natale è stato reso noto che un cannibale via Internet ha trovato un complice, che era pronto a farsi uccidere e mangiare da lui. Il tutto è avvenuto d’intesa reciproca senza interventi esterni. Dal punto di vista relativistico quindi non si è trattato di un crimine. Non dovrebbe forse questo caso essere l’occasione per tornare a riflettere sul concetto di legge morale naturale?