Pianoterra

comaPubblicato su Il Giornale del 24 aprile 2005

Le persone in stato vegetativo non sono affatto “piante” ma persone che percepiscono dolore e sensazioni

di Stefano Lorenzetto

Di malate come Terri Schiavo il dottor Giovanni Battista Guizzetti ne assiste 14 e mai nessuno, men che meno i mariti o altri parenti, gli ha chiesto di ammazzarle. Le 14 Terri Schiavo del dottor Guizzetti giacciono inerti in camere da due letti al Centro Don Orione di Bergamo. Hanno gli occhi spalancati su punti indefiniti del vuoto. Quando entri, muovono la testa in varie direzioni, anche verso il visitatore inatteso: difficile capire perché. «Riflessi involontari», ha deciso la scienza. Due si chiamano Antonella e occupano la medesima stanza. Sono mamme. Alle pareti le infermiere hanno attaccato con lo scotch le foto dei loro bambini, una femminuccia e un maschietto che dai poster sorridono a un mistero doloroso troppo grande per loro. Non avevo mai visto figli di quell’età che vegliano i genitori.

Le due Antonelle hanno entrambe 44 anni, due più di Theresa Marie Schindler Schiavo detta Terri, nata il 3 dicembre 1963, morta di fame e di sete il 31 marzo 2005, per desiderio del marito e per ordine di un giudice, nell’Hospice Woodside di Pinellas Park, Florida, Stati Uniti d’America, dopo un’agonia durata 14 giorni.

L’Antonella madre della bambina è una pittrice di Milano. Proprio come Terri, ha avuto un arresto cardiaco con anossia. Significa che l’ossigeno non arriva al cervello. Le cellule muoiono. I danni irreversibili dipendono dalla durata dell’anossia: agli adulti sono fatali 3-5 minuti, i bambini resistono di più, anche fino a 8, forse perché hanno ancora la vita davanti a loro. La madre di Antonella chiama sua figlia Toni, un maschile che sembrava attagliarsi solo a Bisaglia. «La mia Toni», dice.

Per sei anni l’ha fatta visitare dai luminari della medicina, l’ha ricoverata nelle migliori cliniche in Italia e all’estero. Alla fine, con la forza della disperazione, ha persino chiamato a consulto una fattucchiera che le ha spillato un sacco di soldi. Adesso s’accontenta di parlarle, di accarezzarla, di pettinarla, di portarsela a spasso in carrozzella nel verde di quest’oasi. Di fronte al letto ha appeso i quadri che la figlia dipingeva, non si sa mai che l’arte possa trasformarsi in terapia. Una tela raffigura un gatto certosino. Il micio di Toni, a giudicare da come osserva enigmatico la sua padrona.

L’Antonella madre del bambino aveva da poco partorito quando si manifestò un’emorragia uterina. I ginecologi dell’ospedale di Bergamo dovettero intervenire chirurgicamente, ma durante l’anestesia generale ci fu un tragico sbaglio: alla puerpera venne somministrato azoto anziché ossigeno. È come se le avessero spento l’encefalo. Nemmeno il tempo di stringersi al cuore il figlio appena nato, ha avuto.

Insieme con le 14 Terri, il dottor Guizzetti si prende cura anche di 11 uomini. Tutti e 25 si chiamano pazienti in stato vegetativo, una dizione che sembra adattarsi più ai ravanelli che alle persone. Fino a qualche tempo fa veniva completata con un participio presente: permanente. Ora è stato tolto. Ma non si tratta di uno dei soliti pietismi semantici all’italiana dettati dalla political correctness, tipo i non udenti e i diversamente abili.

È proprio che qui, fra gli operatori sanitari del Centro Don Orione, non si trova nessuno disposto a scommettere sul concetto di permanenza. Per il semplice motivo che dal 1996 a oggi, su 69 pazienti passati da questo reparto, ben 12 si sono svegliati da uno stato d’incoscienza giudicato ineluttabile. Hanno riconosciuto i parenti, ripreso a parlare e persino ricordato – ecco l’evento più stupefacente – discorsi e sensazioni relativi al periodo in cui vegetavano. In una parola, si sono protestati diversi dai ravanelli. Ragion per cui anche il più radicale degli scientisti, anche il più tenace degli scettici è costretto a mettere in conto un 17,4 per cento di probabilità che il vegetale Terri Schiavo sia stato estirpato dal suolo terrestre senza motivo.

Il dottor Guizzetti, figlio di un economista, è nato a Bergamo nel 1955. S’è laureato alla Statale di Milano e poi ha conseguito le specializzazioni in medicina e geriatria. Ha conosciuto la moglie Daniela all’università. Frequentavano la stessa facoltà. Lei non è riuscita a fare il medico perché nel frattempo sono nati Matteo, Luca, Marco e Maria, che oggi hanno 23, 22, 15 e 11 anni. Agli esordi Guizzetti ha lavorato all’ospedale di Careggi e al Policlinico San Marco di Zingonia.

È arrivato in via Don Orione quando la casa di riposo era ancora un cantiere. Dentro la baracca degli operai ha trovato il direttore, don Cirillo Longo, con le maniche della tonaca fatte su. È stato assunto all’istante. Sei anni dopo avrebbe inaugurato il reparto per i pazienti in stato vegetativo. Da allora ne è il responsabile. Ci lavorano 14 infermieri, 14 ausiliari e una caposala. Lo ha chiamato semplicemente Pianoterra, con riferimento all’ubicazione. Le qualifiche non sono importanti: conta quello che si fa.

Perché ha scelto di dedicarsi a questo tipo di malati?

«Rimasi molto impressionato dal modo in cui morì mio nonno Giuseppe, 80 anni, vedovo, affetto da mieloma multiplo, un tumore del midollo osseo. Cadde in casa procurandosi un ematoma cerebrale. Lo vidi spegnersi a poco a poco. Non riuscivo ad aiutarlo in nessun modo. Un’impotenza totale. Subito dopo telefonai al professor Francesco Antonini, il più celebre gerontologo italiano, dicendogli che volevo diventare geriatra».

E lui?

«M’invitò ad andarlo a trovare nella sua villa sui colli fiorentini. Era incuriosito. Alla fine mi disse: “Le offro la possibilità di mettersi alla prova per una settimana nell’ospedale di Careggi”. E così, sulla via del ritorno dal viaggio di nozze, mi fermai con mia moglie a Firenze. La mattina lei andava a spasso e io in reparto. All’esame d’ammissione il professor Antonini non fa domande scientifiche: ti chiede di preparare a casa una tesina sulla tua passione per gli anziani. La mia dev’essergli piaciuta, perché mi tenne con sé quattro anni».

Chi è un paziente in stato vegetativo, o Sv come dite in gergo?

«È un malato che si trova in una situazione di vigilanza, ma che non denota coscienza di sé e neppure dell’ambiente che lo circonda. Dev’essere accudito in tutte le sue funzioni. Perciò ha bisogno di un’assistenza a basso contenuto tecnologico ma ad alto contenuto umano».

E voi gliela offrite.

«Sì, lo alimentiamo, lo laviamo, lo vestiamo, lo mobilizziamo per impedire le piaghe da decubito. Un reparto da 60 posti letto di solito s’avvale di una caposala e un’infermiera. Qui abbiamo un’infermiera ogni sei pazienti. Solo per mettere in carrozzella un Sv al mattino occorrono due persone esperte e 50 minuti di lavoro. La perdita di funzioni del sistema nervoso centrale porta a retrazioni muscolari e calcificazioni periarticolari, per cui anche infilargli un maglione diventa un problema».

Come si finisce in Sv?

«Per trauma cranico, arresto cardiaco, ictus, emorragia cerebrale. Ma ho visto casi provocati da tumori e meningite e anche una vecchietta avvelenata dal monossido di carbonio della stufa. Fino a 40 anni fa questi malati non esistevano: se una persona cessava di respirare per alcuni minuti, moriva a causa della mancata ossigenazione dell’encefalo. L’avvento dei respiratori meccanici, dei defibrillatori e delle tecniche di rianimazione ha fatto sì che molti pazienti recuperassero la funzione cardiaca e respiratoria ma perdessero quella cerebrale».

Sta dicendo che il progresso è stato una sventura?

«Sto dicendo che ogni salvataggio comporta l’interruzione di un processo naturale di morte. Questo risparmia molte vite ma ha degli esiti. Se una persona è colpita da infarto per strada, ormai trova sempre un passante capace di fargli il massaggio al cuore e la respirazione bocca a bocca, poi arrivano quelli del 118 col defibrillatore, in ospedale lo intubano e lo mandano all’unità coronarica o alla terapia intensiva. In questo modo un amico della mia età, infartuato mentre giocava una partita a calcetto, è tornato a lavorare. Ma gli altri casi li vede qui».

Per cui che cosa suggerisce?

«Bisogna stabilire in una conferenza nazionale di consenso le linee guida da seguire in casi del genere, come s’è già fatto per i traumi cranici. Un medico fisiatra lombardo ha in cura un ragazzo che è andato in arresto cardiaco 23 volte e per 23 volte è stato defibrillato. Una follia. Adesso ha la corteccia cerebrale distrutta. Secondo me è questo l’accanimento terapeutico».

Lei come si comporterebbe al primo arresto cardiaco? Defibrillerebbe, giusto?

«Sì, soprattutto se si tratta di una persona giovane».

E al secondo?

«Probabilmente proverei ancora».

E al terzo?

«Comincerei ad avere dei dubbi. Soprattutto considererei il tempo già trascorso. Di sicuro non arriverei a 23 defibrillazioni».

Da dove giungono i suoi Sv?

«Dagli ospedali, dove si accoglie solo il malato acuto che può essere guarito, e dai centri riabilitativi che hanno fallito».

Costerà una fortuna tenerli qui.

«Sono interamente a carico della Regione Lombardia».

Chi decide le precedenze nei ricoveri?

«Si va in base all’ordine d’arrivo delle domande. Ma è difficile trovare un letto libero».

Il paziente che cura da più tempo?

«Sta qui da 12 anni, da prima che fosse aperto il reparto. Lo assistevano come meglio potevano nella casa di riposo. Gli Sv hanno un’aspettativa di vita anche di 20 o 30 anni».

Un calvario per le famiglie.

«I congiunti confidano nel recupero. Quando non arriva, scaricano la loro frustrazione su medici e infermieri. C’è la moglie arrabbiata col mondo intero perché l’accidente cerebrale ha colpito il marito proprio il giorno in cui doveva cominciare a godersi la pensione. C’è l’anziana madre che si sente in colpa perché, abitando a Milano, non può venire a trovare il figlio più di due volte la settimana. Ho dovuto riunire i parenti in gruppi di autoaiuto che la domenica sono seguiti gratuitamente da un mio amico psicologo».

Che differenza c’è fra coma e Sv?

«L’apertura degli occhi. Lo stato vegetativo è successivo al coma».

E tra Sv e morte cerebrale?

«Nel primo caso l’elettroencefalogramma mostra una disorganizzazione dell’attività elettrica della corteccia, ma non risulta piatto. Nel secondo l’Eeg certifica la morte di tutto l’encefalo».

Che cos’è in grado di percepire un Sv?

«Non c’è niente di misurabile, non è come rilevare l’attività elettrica del cuore. Ho avuto in reparto un paziente di 30 anni, Roberto, che abita a 20 chilometri da qui. Faceva l’operaio in una ditta per la produzione di gas. Durante una manutenzione ha avuto un’asfissia. È rimasto in stato vegetativo per 17 mesi. Una mattina, all’improvviso, la moglie ha chiamato la caposala Elena Viviani: “Venga, presto, Roberto ride!”. La caposala è accorsa al capezzale e gli ha detto: “Ciao, mi conosci? Sai dove ti trovi?”. Lui le ha fatto cenno di sì con la testa. Allora gli ha chiesto: “Tua moglie si chiama Giovanna?”. Lui le ha fatto cenno di no. Infatti si chiama Ilenia. Dopo qualche giorno ha cominciato a parlare. E ha ricordato una cosa che in teoria non avrebbe dovuto sapere».

Cioè?

«Mentre si trovava in stato vegetativo, la moglie gli aveva raccontato che tagliando l’erba in giardino s’era accorta di un’invasione di formiche. Inoltre Roberto aveva memoria dei bagni nella vasca, quando le infermiere lo mettevano nell’acqua con l’aiuto di un sollevatore. Un’operazione per lui dolorosa, anche se noi non potevamo supporlo. Ora, pur rimanendo paralizzato, è tornato a casa, parla, riconosce la figlia. Dei 12 risvegli che abbiamo avuto, questo è senz’altro il più clamoroso. Mi riferisco a diagnosi osservazionali ripetute in continuazione».

Lei personalmente che cos’ha osservato?

«Che quando un Sv riceve la visita di un parente, il suo atteggiamento cambia. Che quando gli si fa un bagno tiepido o lo si massaggia, l’espressione del viso diventa rilassata. A volte è scosso da pianti o risate di natura spastica, ma le modificazioni dello stato d’umore balzano subito all’occhio. Purtroppo ho udito con le mie orecchie il professor Maurizio Mori, fondatore e direttore della rivista Bioetica, affermare a un convegno a Cremona: “Anch’io conosco tante vecchiette che parlano con i gerani”».

Come vengono alimentati i suoi pazienti?

«Non essendo in grado di deglutire, usiamo la Peg, gastrostomia endoscopica percutanea. È una sonda che consente di far arrivare nello stomaco proteine, carboidrati, lipidi e acqua».

Se sentono urlare o avvertono un forte rumore, prendono paura?

«Sì, sussultano».

Se ricevono un pizzicotto, reagiscono?

«Alcuni sì, altri no. Certo non ho mai provato a bruciargli il palmo della mano con una candela né intendo farlo prossimamente, se è questo che vuol sapere».

No, volevo solo portarla a parlare del caso di Terri Schiavo.

«Non mi vengano a dire che i suoi occhi erano inespressivi o i sorrisi casuali, mentre la madre l’accarezzava. Avrebbero dovuto mostrarceli mentre moriva, quegli occhi. Il comportamento della classe medica italiana su questa vicenda è stato vergognoso».

Nessuna condanna.

«Non c’è da meravigliarsi, visto che quand’era ministro Umberto Veronesi la commissione Oleari, presieduta da un dirigente della Sanità, s’era pronunciata a favore della sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione agli Sv. Lo stesso Veronesi su Repubblica definì questi pazienti “morti viventi”. Io non sono un bioetico, ma anche un bambino capisce che qui è in discussione l’idea stessa di uomo».

Vale a dire?

«Se stabiliamo che un essere vivente è persona solo quando esercita determinate funzioni, nel momento in cui le perde diventa lecito fargli qualsiasi cosa. Si vorrebbe far derivare il valore dell’uomo dalle sue prestazioni fisiologiche e io questo concetto non posso assolutamente accettarlo, perché aprirebbe la strada alla soppressione dei malati di mente, dei down, degli handicappati, degli anziani inabili. Lo stato di persona umana non è determinato da una funzione bensì da un’origine. E questa origine è Dio».

Difficile farlo capire a un ateo, non pensa?

«Ma anche un ateo deve convenire sul fatto che, nonostante ci si ostini a chiamarli pazienti in stato vegetativo, termine ripugnante, i miei malati appartengono alla specie uomo. Non serve dir altro. Da credente posso aggiungere che la cosa più importante, per me, è che siano stati creati a immagine e somiglianza di Dio».

Non è che il mondo cattolico la segua molto. Anzi, «qui è incerto se si tratti ancora di vita oppure no», ha scritto don Gianni Baget Bozzo sul Giornale a proposito della signora Schiavo.

«Non so a don Baget Bozzo, però a me la condanna a morte di Terri ha fatto pensare a tutto il male del mondo. Se i cattolici non s’impegnano sui temi della vita e della morte, su che cos’altro dovrebbero impegnarsi? Stupisce che gli unici commenti forti sull’assassinio della donna americana siano venuti da personalità laiche. Il più battagliero è stato addirittura un non credente, un “ateo devoto”, come si definisce lui: Giuliano Ferrara. Adriano Sofri dal carcere di Pisa ha scritto che tra una scelta irreversibile e una reversibile, in mancanza di idee chiare sul da farsi la precedenza andrebbe sempre accordata alla seconda. Qualcuno può dubitarne? E c’è voluto un comico dissacrante, Beppe Grillo, per scrivere su Avvenire, il quotidiano dei vescovi, che l’unica spina da staccare era quella delle Tv che hanno montato il caso».

Ritiene che in Italia si arriverà all’eutanasia per legge?

«Ahimè sì, ci arriveremo. Anzi, temo che in molte case di riposo si pratichi già. I malati, soprattutto anziani, costano sempre di più e aumentano di numero. Questa società non troverà, non vuol trovare, le risorse per tutti. Quindi li ammazzerà».

Che cosa pensa del testamento biologico, con cui ognuno di noi dovrebbe dichiarare se intende essere sottoposto oppure no a trattamento terapeutico in caso di malattia allo stadio terminale o di lesioni traumatiche cerebrali invalidanti e irreversibili?

«Penso che manchi del requisito fondamentale: l’attualità. Le faccio un esempio. Nella sclerosi laterale miotrofica arriva un momento in cui subentra la paralisi della muscolatura respiratoria. A quel punto il paziente cessa di vivere per asfissia, a meno che non sia sottoposto a tracheotomia. Io l’ho assistito un malato così, un ragazzo di Milano. S’era raccomandato di non fargli nulla, di lasciarlo andare. Però me l’aveva detto mentre ancora respirava bene. Quando è subentrata la crisi finale, sentendosi morire soffocato ha chiesto con l’ultimo filo di voce: “Fatemi la tracheotomia!”. E se fra uno, cinque o dieci anni si trovasse la cura per la sclerosi? In passato chi avrebbe dato qualche chance a un malato di Aids? Poi è venuta la triterapia che consente ai portatori del virus Hiv di vivere con dignità. Idem i parkinsoniani grazie alla levodopa».

Per Indro Montanelli l’impossibilità di recarsi in bagno da solo a far pipì era una condizione avvilente già meritevole di eutanasia.

«Non posso ragionare allo stesso modo. Altrimenti il 50 per cento dell’umanità non sarebbe degno di vivere. Ho comprensione umana per chi vuol suicidarsi. Ma non può pretendere che io lo aiuti a farlo. Il mio compito è garantire il diritto alla cura, non alla salute».

Quarant’anni fa pazienti come i suoi morivano, l’ha detto lei. Sono gli strumenti meccanici a tenerli in vita.

«La natura non è sempre una madre amorevole. Qualche volta va contrastata con energia. Come insegnano il cancro e lo tsunami».

Ma non è frustrante per un medico assistere malati che non sono nemmeno in grado di riconoscerlo?

«Ho capito che cosa vuol dire essere medico soltanto da quando mi dedico a loro. Non c’è stato un solo giorno in cui abbia pensato: uffa, che palle ’ste piante! Provo dolore quando muoiono».

Dovesse capitare a lei un accidente cerebrovascolare, che cosa vorrebbe che facessero colleghi e famigliari?

«L’unica cosa che spero di trovare nella mia vita è qualcuno che mi voglia bene. Oggi l’atto medico è troppo sbilanciato sulle cure anziché sul prendersi cura. Siamo prodighi di medicine e avari di carezze. Se perderò la facoltà dell’intelletto, qualcuno deciderà per me. L’importante è che lo faccia con amore».