Alunno si getta dalla finestra: «I miei si separano»

separazioneArticolo pubblicato su Il Giornale 
di martedì 20 febbraio 2001

Mamma e papà si stanno separando. Io a chi servo». Un bambino di dodici anni ieri mattina ha borbottato questa frase ai compagni di classe. Poi, s’è lanciato dalla finestra della scuola, a Foggia.

di Nicola Forcignanò

Mamma e papà si stanno separando. Io a chi servo». Un bambino di dodici anni ieri mattina ha borbottato questa frase ai compagni di classe. Poi, s’è lanciato dalla finestra della scuola, a Foggia. Un volo dal secondo piano, che avrebbe potuto trasformarsi in una tragedia. S’è salvato, per fortuna. Qualche ferita al corpo, guaribile. Una ferita profonda all’animo, quella legata alla separazione tra i suoi genitori, due insegnanti. Una ferita che si rimarginerà, ma che come una cicatrice gli rimarrà per sempre. E’ questa la prima cosa alla quale ho pensato, ieri, quando sul video del computer è apparsa questa notizia d’agenzia.

Una notizia come tante, forse, per tutta la redazione. Non per me che per due volte ho vissuto e ho fatto vivere a due bambini il dramma di una separazione. E che, davanti a un fatto come quello del dodicenne di Poggia, ancora una volta mi ha costretto a fare i conti con me stesso. Un padre a metà, sempre. Che in una carezza, una frase, un semplice gesto, cerca dai suoi figli la certificazione del proprio molo. Che – quando le cose vanno bene – soffre di non avere con loro un rapporto quotidiano. Che – quando le cose vanno male – si dispera davanti al fallimento di una paternità che mi pare unicamente anagrafica. E che, comunque, in ambedue i casi, non si sente per nulla all’altezza di gestire il «divorzio» da loro.

Un padre a metà che adora disperatamente due ragazzi che lo adorano disperatamente. E la mia vita, quella di uno dei tanti che sono usciti oche sono stati fatti accomodare fuori da una casa. La loro famiglia.

Un padre che guarda come marziani gli altri padri separati che – come protagonisti di film americani – sostengono che ora, dopo la separazione, il rapporto con i loro figli è ancora più bello, più forte, più sincero. E che negli sguardi di quei figli rivede quel velo di tristezza che più volte ha visto negli occhi dei propri figli. I quali, mai, hanno confessato a .me e alle loro madri quanto hanno in realtà sofferto quel divorzio che sono stati costretti ad accettare. Che hanno finto d’accettare, il più delle volte, nel timore di pregiudicare ancora di più un rapporto difficile. Essi, bambini, nel rispetto di un incomprensibile, per loro, comportamento di noi grandi. Mamma da una parte, papà dall’altra, il mondo che gli crolla addosso.

Anche se la nostra generazione di cinquantenni, quella che ha fatto diventare il divorzio un fenomeno di massa, sostiene di no. Ottimi psicologi – ovviamente nostri coetanei – ci hanno spiegato che si può essere comunque bravi genitori, che è meglio una famiglia separata ma felice piuttosto di una lotta continua nello stesso nido. Che, insomma, non crolla il mondo se mamma e papà si dividono e che i bambini capiscono e, dopo un po’, s’abituano. Non so se i miei figli abbiano capito. Abituarsi è più facile che capire.

Ma abituarsi a un padre lontano, che vedono un paio di volte al mese e le feste comandate, che senso ha? Per loro e per me? È inutile illudersi che sia normale dire a loro: quest’anno Natale lo passi con la mamma, lo scorso anno è toccato a me. Come fosse una lotteria.E sarebbe assurdo non pensare che nella routine di tutti i giorni, anche anni dopo, per loro c’è sempre un posto vuoto a tavola. Il mio. Che manca il bacio della buona notte e quella fiaba raccontata mille volte, che è solo una scusa per tenere stretta ancora un po’ la mano di papà prima di dormire.

O che, per il più grande, non sia importante discutere con me se quel motorino è meglio dell’altro. Che sarà mai un motorino. Sono ancora un punto di riferimento per due ragazzi che, forse, come tutti gli altri, vorrebbero ogni giorno raccontare e raccontarsi? Il padre non è uno solo da amare e basta. Un figlio pretende di più da lui. E quando non ci sei, che cosa gli dai? Come fa un ragazzo a confrontarsi se dall’altra parte non c’è nessuno? O, al massimo, una voce lontana che esce dalla cornetta del telefono per chiedere: hai fatto i compiti? E quando ti dice che da grande vorrà fare il tuo stesso lavoro, il giornalista, che intende: è solo la stessa passione o è un messaggio che ti manda?

Con una grande presunzione noi cinquantenni, che quasi tutti abbiamo portato in tribunale il fallimento della famiglia come fossero i libri di una società, a loro talvolta abbiamo pensato davvero poco. Convinti che quel «trauma» alla fine si supera, abbiamo sopravvalutato i nostri figli, certi che guardandosi attorno e vedendo mille altre famiglie rotte in due, sarebbero stati solidali con noi in quella scelta sofferta. E che si sarebbero «abituati». Senza capire che ora siamo dei bravi padri a metà.