Il papa, gerarchia di verità, gradualità e creatività

papa_Francescoda Il Foglio novembre 2013

Francesco  Agnoli

Alcuni mesi orsono, all’indomani delle numerose interpretazioni degli esordi del pontificato di papa Francesco, cercai di spiegare perché, a mio avviso, non era possibile intravedere un grande cambiamento rispetto alla linea del predecessore nel campo della difesa dei principi non negoziabili.

 

Scrivevo, tra l’altro, così: “Quello che si dice, insistentemente, è che questo papa non abbia a cuore i “principi non negoziabili”, perché, al contrario di Benedetto XVI, non li cita mai… Ma da che cosa si parte, per ricostruire? Certamente una nuova evangelizzazione ha bisogno di tutto: dell’apporto del clero e di quello dei laici; dell’apporto dei filosofi e di quello dei giuristi; della ragione e della preghiera; dei convegni e dei pellegrinaggi…

Ma ciò che precede, ciò che fonda, è la Fede. Predicare Cristo morto e risorto, è ciò che, per me cattolico difensore dei principi non negoziabili, sta alla base di questi stessi principi. Pensiamo a Gesù: la sua predicazione tocca senza dubbio i problemi etici del tempo, ma in verità lo fa, per lo più indirettamente. Mira più in alto, o, più in basso, che dir si voglia, alle fondamenta. E il fondamento di tutto, è, appunto, la Fede.

Per secoli i cristiani non hanno mai sentito l’espressione “principi non negoziabili”; né all’epoca del paganesimo, né dopo la conversione dell’Europa. Perché la fede in Cristo, la preghiera, i sacramenti, sono il vero sostegno ad una vita morale cristiana, portano ipso facto ad un certo rispetto dei principi non negoziabili”.

E concludevo: “Se è chiaro ciò che ho detto, dei principi non negoziabili se ne può parlare in vari modi; non solo a seconda dell’indole, della propria storia ecc; ma anche a seconda del proprio ruolo: non avrebbe senso che oggi, in Parlamento, i cattolici argomentassero in nome di Dio, e non invece a partire dal dato di ragione. Così come non ha senso che i laici cattolici impegnati dimentichino di utilizzare nel dibattito pubblico le armi filosofiche del diritto naturale.

Ma un papa che parla di perdono, di peccato, di Demonio, di tentazioni… utilizzando cioè un linguaggio familiarissimo ai cattolici pre-conciliari – molto meno a quelli post- non solo attira, perché sono parole che hanno, di per sé, una presa enorme sull’uomo, quasi colpissero corde profonde, ma altro non fa che difendere, con altre parole, i principi non negoziabili cari a Benedetto XVI. Non fa altro che piantarli, piano piano, come frutti che nasceranno dai semi, nel cuore di chi ascolta…”.

Dopo questo articolo ci furono le celebri dichiarazioni del papa sull’aereo, di ritorno dal Brasile, e alcune frasi un po’ sibilline e “infelici” nella famosa intervista a Civiltà cattolica. In mezzo l’intervista ad Eugenio Scalfari con la famosa battuta sulla coscienza, senza dubbio più che ambigua (ma, ormai sembra evidente, non fedelmente riportata). Alcuni amici mi dissero che mi ero evidentemente sbagliato.

Ed effettivamente rimasi, come molti, assai scosso: “Cosa sta succedendo?”. Ma il tempo aiuta, credo, a capire e a fare chiarezza. Cosa non facile in un momento in cui su questo papa si dicono troppe cose, a mio avviso attribuendogli da tante parti non tanto ciò che dice e fa, quanto ciò che si vorrebbe dicesse (o che si teme che dirà). Ebbene, mi sembra di poter confermare, nella sostanza, quanto sostenevo nell’articolo citato: con Papa Francesco non muterà nulla dell’approccio dottrinale in materia etica.

Lo confermano non solo i discorsi del passato, di quando era cardinale, o le testimonianze come quella, riportata da Sandro Magister, del deputato argentino Liliana Negre, già presidente mondiale dei “Parlamentari per la vita e la famiglia”, ma anche i suoi numerosi discorsi, come pontefice, per promuovere la famiglia e la vita, che si affiancano ad una serie di altre posizioni che nulla hanno di rivoluzionario (non ultima, in ordine di importanza, la distribuzione di migliaia di rosari in piazza san Pietro: gesto quanto mai “tradizionale” e popolare).

Torna utile, allora, per comprendere la strada scelta dal papa, riprendere alcuni concetti a lui cari. Il primo è ribadito più volte, anche nella versione integrale, appena pubblicata, della intervista a Civiltà cattolica: il papa sostiene che il buon confessore non è né rigorista, né di manica larga. Perché nessuno dei due si fa davvero carico della persona che ha davanti. Se applichiamo questo insegnamento ai principi non negoziabili, ci rendiamo ben conto che la pastoralità del papa non dimentica per nulla l’importanza della trasmissione della verità. Semplicemente evita che l’affermazione della verità sia fine a se stessa.

Lo scopo ultimo del pastore, infatti, non è rimproverare la pecorella smarrita, bensì recuperarla. Chi non riconosce lo smarrimento, non può essere un vero pastore, perché non saprà interpretare il bisogno vero di chi gli sta dinnanzi. Analogamente, il confessore che non indicasse al peccatore la misericordia di Dio, la possibilità di rialzarsi, lo abbandonerebbe alla disperazione, mostrandogli un Dio ben diverso da quello che, proprio per i peccatori, ha preso carne ed è morto in croce.

Il secondo concetto importante è contenuto nell’affermazione di papa Francesco secondo cui “non bisogna parlare sempre di aborto, divorzio ecc.”; affermazione meglio comprensibile alla luce di varie specificazioni già presenti nell’intervista a Civiltà Cattolica, ma meglio esplicitate in altre occasioni. Da dove questa posizione? Il papa ha a cuore due principi cardine del missionario: la necessità di dare un ordine gerarchico alle verità, perché non tutte sono equivalenti; la necessità, specie nel rapporto personale, della gradualità.

Perché un ordine gerarchico? Perché, come si diceva già nell’articolo citato, nella vita cristiana è l’amore di Cristo che fonda la vita morale (benché essa abbia anche un fondamento razionale). Nell’educazione di un bambino, per esempio, la Chiesa ha sempre privilegiato la proposta della vita di Gesù, della narrazione degli episodi evangelici e delle vite dei santi: è la pedagogia di Cristo quella di combattere il peccato anzitutto mostrando le vette della santità (si pensi alle beatitudini e all’unico comandamento dell’amore, che tutti li riassume).

Un amico di papa Francesco, Victor Emanuel Fernandez, intervistato da Paolo Rodari, ha ben sintetizzato questo idea, per nulla nuova, della gerarchia delle verità: “Certo, tutte le verità rivelate sono credute con la medesima fede, ma alcune di loro sono più importanti perché esprimono più direttamente il nucleo fondamentale che è la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo.

Ci deve essere una proporzione adeguata soprattutto nella frequenza con la quale alcuni argomenti o accenti vengono inseriti nella predicazione. Per esempio, se un parroco lungo l’anno liturgico parla dieci volte di morale sessuale e soltanto due o tre volte dell’amore fraterno o della giustizia, vi è una sproporzione. Ugualmente se parla spesso contro il matrimonio fra omosessuali e poco della bellezza del matrimonio. Oppure se parla più della legge che della grazia, più della Chiesa che di Gesù Cristo, più del Papa che della parola di Dio…”.

Come non riconoscere che il sacerdote che riduce le sue omelie a lamentazioni, obblighi morali e rimproveri, facendone il tutto della sua predicazione, omette di essere ciò che dovrebbe, cioè l’annunciatore della “buona novella”?

Quanto alla seconda necessità, quella della gradualità, anch’essa fa parte della
tradizione della chiesa. Il papa ama dire di rifarsi al beato Favre, ma si potrebbe dire che i migliori missionari la hanno sempre insegnata e vissuta. La gradualità nel proporre una verità appartiene infatti a tutti gli stadi della vita: il genitore, o il maestro, per esempio, introducono figlio e allievo gradatamente, passo passo. Altrimenti, il fallimento è inevitabile.

Ecco perché il papa ricorda che  evangelizzare, come educare un figlio, magari adolescente e ribelle, non è solo questione di trasmissione di una verità, in modo automatico e sempre uguale, con tono catedrattico e ultimativo, ma è anche questione di amorevolezza e di capacità di sintonizzarsi, spendersi, mettersi in gioco: l’evangelizzazione «esige molta pazienza, molta pazienza», e l’evangelizzatore “sa anche presentare il messaggio cristiano in maniera serena e graduale, con il profumo del Vangelo, come faceva il Signore”; sa cioè renderlo “digeribile”, assimilabile, con pazienza, prudenza, gradualità.

Atteggiamento questo che fa sì che egli curi il grano, senza perdere “la pace per la presenza della zizzania”; senza lasciarsi paralizzare, frenare, nell’impeto missionario, dalla constatazione dell’esistenza del male(videomessaggio di Francesco all’incontro di Guadalupe in Messico, riportato su Vatican Insider), che, come l’antica Medusa, non di rado pietrifica i suoi nemici Quanto infine al metodo, nello stesso videomessaggio citato, il papa invita ad essere “creativi”.

La mia deformazione di insegnante, mi porta a paragonare questo invito, a ciò che fa, appunto, un docente nel tentativo di trasmettere la sua disciplina: cerca sempre modi nuovi per attirare l’attenzione, per rendere più chiaro, più interessante, più comprensibile, ciò che dice. Similmente ad un padre che, di fronte ad un figlio che sta prendendo una brutta strada, non lo abbandona in nome di un freddo relativismo, ma le “prova tutte” e dimostra il suo amore con la fermezza, la dolcezza ed anche la molteplicità e la varietà delle “strategie” che adotta.