Buoni viaggi e cattiva storia

Il seguente testo è stato scritto in occasione delle visite ai Santuari della Madonna di Loreto e di S.Gabriele dell’Addolorata a Isola del Gran Sasso avvenute durante la partecipazione al Convegno La Fede è l’unica porta che ci conduce all’Eucaristia” organizzato dalla ALER (Associazione Laicale Eucaristica Riparatrice) il 13 aprile 2013, in cui l’autore ha svolto una meditazione intitolata «Dalla fede all’eucaristia. E viceversa. Per una società a misura d’uomo e secondo il piano di Dio».Il pellegrinaggio al Santuario di San Pio a S.Giovanni Rotondo è stato fatto dall’autore con la famiglia, il 20/21 aprile 2013.
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Lo scritto è stato pubblicato il 5 agosto 2013 sul sito “Sicilia cristiana in Europa cristiana

di Guido Verna

1. Per uscire dalla “fanciullezza” coatta

 2. Isola del Gran Sasso – L’omissione – Il Risorgimento

 3. Loreto – La manomissione – Le invasioni napoleoniche

 4. S Giovanni Rotondo – Le ombre “colorate” – Il Comunismo

 5. Ritorno a Loreto – La storia inutilmente “ricordata

1. PER USCIRE DALLA “FANCIULLEZZA” COATTA

La storia, si sente dire consuetamente, è il racconto dei fatti; ma se il fatto comporta una presa d’atto univoca, il suo racconto — inserito, come si dice, nel contesto — é certamente molteplice: ogni storico ha il suo angolo visuale, cioè la sua antropologia, la sua teologia e la sua prospettiva “escatologica”, così come ogni lettore. Se però il quadro di riferimento “culturale” di quest’ultimo è in antitesi con la Vulgata dominante, allora egli deve fare grandi sforzi per recuperare una descrizione dei fatti in cui le cause e le conseguenze di essi possano risultare, non dico in armonia, ma almeno minimamente congrui rispetto a tale suo quadro.

È, in tutta evidenza, il caso italiano, dove il lettore cattolico simpliciter — e non, cioè, in crescere nello stridio della specificazione, “cattolico liberale” o “cattolico democratico” o “cattolico socialista” — si trova di fronte una Vulgata rigorosamente e rigidamente liberal-risorgimental-marxista, costruita con pazienza meticolosa alla scuola del filosofo marxista Gramsci (1891-1937), indiscutibile e intangibile per decenni e solo da qualche anno un po’ scalfibile, anche se faticosamente e con qualche rischio di incomprensione e di disprezzo [cfr. GVE-1].

In questa prospettiva, la scuola gramsciana, se da un lato ha prodotto, intellettuali raffinati e fedeli, cioè di “fede” indefettibile nel “mondo nuovo”,  — con le caratteristiche perfettamente descritte da Vladimir Bukovskij: «In un campo l’intellettuale è veramente maestro, nell’arte dell’interpretazione, cioè nella capacità di combinare e rimaneggiare certi fatti, di lasciarne correre altri “senza notarli”, oppure di respingerli come inattendibili se non addirittura di etichettarli con sdegno come menzogna intenzionale. È un maestro insuperabile del contesto, che cambia senza che gli astanti se ne accorgano per poi, come un prestigiatore fa uscire il coniglio dal cilindro, sciorinarvi le deduzioni più inattese da fatti che non c’entrano per niente» [VBU] —, dall’altro, come vedremo più avanti, ha indotto a comportamenti simili anche le “vittime culturali” che essa stessa voleva sacrificare affinché il “sol dell’avvenire” socialista potesse sorgere in un cielo senza più le oscure nubi del passato. Un passato che era, dunque, da ri-strutturare o addirittura, quando troppo ingombrante, da  rimuovere.

Da parte sua, un grande storico cattolico come Gonzague De Reynold (1880-1970), parlando della storia e della sua Svizzera, faceva invece queste riflessioni: «[…] che cosa è un popolo, che cosa è il nostro popolo? Un grande insieme storico, formato più da morti che da viventi. La storia ci restituisce […] il senso del sacro, questo senso che abbiamo perduto […]. Il sacro è la presenza di Dio. La presenza di Dio nella storia è la Provvidenza. La storia è un mistero: da dove viene, dove va? Da dove viene il nostro paese, dove va il nostro paese? […] La storia ci deve essere insegnata per aiutare il nostro paese ad attraversare i tempi. Un secolo prima di Gesù Cristo, il più illustre oratore della antichità latina, Cicerone, scriveva: “I popoli che si disinteressano della loro storia si condannano a essere sempre fanciulli» [GDR].

Gli epigoni della scuola di Gramsci (ma non solo essi) hanno espunto dalla nostra storia la presenza di Dio e, in più, vorrebbero condannarci all’eterna fanciullezza. Si deve, allora, cercare di ritrovare “quella” presenza, che per la nostra Italia è “tipica”, più di tanti vini e di tanti formaggi e, con ciò, tornare finalmente a “crescere”, per la soddisfazione di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.), che in fondo è di casa…

A chi come me, pur senza velleità particolari, ma in piacevole e spesso proficua souplesse, si muove in questa direzione, — cioè ci “prova”,  esercitando la pratica di cogliere nel presente piccoli elementi che aiutino a ricomporre il mosaico di quel “suo” passato che gli autori della Vulgata hanno prima de-strutturato e poi ri-strutturato secondo il “loro” progetto — accade a volte di essere aiutato da felici, se non provvidenziali, combinazioni. Questa volta si sono combinati due viaggi in rapida successione, uno, per un convegno, a Loreto, nelle Marche, l’altro, per ragioni familiari, a S.Giovanni Rotondo, in provincia di Foggia.

2. ISOLA DEL GRAN SASSO – L’OMISSIONE – IL RISORGIMENTO

S Gabriele AddolorataSulla strada per Loreto, abbiamo fatto tappa nel Santuario di San Gabriele dell’Addolorata (1838-1862), ubicato in una posizione splendida, sotto il Gran Sasso ancora coperto di neve.

Quando si arriva qui, guardando la “vecchia” Chiesa e quella “nuova”, l’una vicina all’altra, si percepisce istantaneamente, anche senza malizia polemica, come in cento anni siano stati stravolti i canoni costruttivi dell’architettura religiosa. La percezione sgradevole, poi, si incrementa e spinge ad un giudizio severo quando gli occhi abbracciano anche la tristezza di un telaio in cemento armato  — ma con una copertura che ha vezzose sinuosità da pagoda — in cui sono costrette ad alloggiare le povere campane.

Non è questo, comunque, che mi riporto da San Gabriele, bensì qualcos’altro, meno evidente, più in ombra ma — almeno per me — di non poco significato.

Leggendo su un pannello la biografia del santo, rilevo — da parte degli autori — un “comportamento” deprecabile e non infrequente nei confronti della storia: l’omissione, una delle tipologie operative più utilizzate dai costruttori della Vulgata. In questo caso, tale comportamento mi è sembrato ancor di più incomprensibile — e perciò ancor di più deprecabile — perché praticato, si potrebbe dire, dalle “vittime” rispetto ai “carnefici”.

In dettaglio, si tratta di questo: su due pannelli verticali, viene descritta, via via, la vita del santo, fino ad arrivare ai momenti cruciali della sua esistenza: «1861 – 25 maggio: a Penne (Pescara) riceve gli Ordini Minori preparatori al sacerdozio […]; 1862 – 16 febbraio molto malato scende in chiesa per la comunione […] [; infine il] 27 febbraio […] muore». Poi, nella riga successiva, si riporta solo una notizia secca: «1866: Espulsione dei Passionisti  dal convento di Isola». Senza nient’altro: da chi o perché, non si sa, nemmeno un cenno. Si va avanti, fino alla riesumazione della salma e ai miracoli strepitosi (17-18 ottobre 1892). Subito dopo, però, torna la notizia secca: «1894: I Passionisti tornano [sic!] nel loro convento di Isola del Gran Sasso». Sono passati quasi trent’anni dalla misteriosa espulsione…

Dunque: cacciati da casa loro per più di un quarto di secolo e al pellegrino non si ritiene di dover fornire qualche chiarimento — foss’anche minimo — su chi avesse cacciato i poveri passionisti dal loro convento sotto il Gran Sasso e sul perché lo avesse fatto!

Scoprire chi e perché oggi è molto facile (ma forse non era difficile nemmeno allora…): non è necessario andare in biblioteca e leggere tanti libri, è sufficiente una banale ricerca su Internet.

Si può cominciare, per esempio, da Cathopedia, l’enciclopedia cattolica “informatica”, dove  — alla voce «Provincia Passionista Centro-Est Italia», al paragrafo 1.2 intitolato «La soppressione» — si può leggere questo: «La legge di soppressione delle congregazioni religiose, attuata sistematicamente dopo l’unità d’Italia sotto lo scettro dei Savoia, colpì duramente questa Provincia passionista. Vennero così soppressi i ritiri di Torre San Patrizio (1862), di Morrovalle nel 1864, di Recanati, Isola del Gran Sasso e Giulianova nel 1866 . […] I religiosi dispersi trovarono ospitalità presso famiglie di benefattori o si stabilirono in altri conventi abbandonati. Così accadde per i religiosi di Isola del Gran Sasso che, in numero di 24, giunsero a Manduria (Taranto) e dopo una sistemazione provvisoria, nel 1881 fondarono un loro ritiro in quella città» [Link-1].

Chi volesse maggiori garanzie rispetto ad una enciclopedia popolare, può attingere da un sito per i 150 anni dell’Unità d’Italia (1861-2011), da considerarsi “d.o.c” perché provvisto del “bollino” del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca e del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. In esso, il capitolo «La nuova Italia e la Chiesa cattolica – La legislazione antiecclesiastica» comincia così : «Con la legge 7 luglio 1866 il nuovo Stato italiano prendeva misure radicali nei confronti degli enti religiosi cattolici presenti nel Regno e del loro patrimonio. La legge in questione disponeva infatti la soppressione di ordini, corporazioni e congregazioni religiose “i quali importino vita comune ed abbiano carattere ecclesiastico”» [Link-2].

Si trattava delle cosiddette leggi eversive (l’altra sarà del 15 agosto 1867), che — per rimanere nei mezzi di informazione informatici di più facile accesso e utilizzazione — in Wikipedia, l’enciclopedia popolare più diffusa “in rete”, alla voce «Leggi Siccardi [(1802-1857)]», vengono introdotte in questo modo: «Con l’avvento del Regno d’Italia, avvenuto nel 1861, e le difficoltà di bilancio provocate dalla seconda e terza guerra di indipendenza, il Governo adottò nei confronti della Chiesa una politica limitativa, in particolare rispetto agli enti ecclesiastici tramite le cosiddette Leggi eversive» [Link-3].

Tutto molto chiaro e facilmente acquisibile, dunque, dando soltanto qualche minima indicazione di percorso. Che, però, nel nostro caso si ritiene di omettere. Eppure, se Dio vuole, oggi, non solo è facile farlo, ma non si dovrebbero nemmeno correre rischi a raccontare la storia nella sua interezza.

O, magari, si corrono, anche se meno evidenti: per esempio, quelli dell’incomprensione — con la possibile “fatica” conseguente del dover spiegare — o, forse soprattutto, quelli della taccia del “politicamente scorretto”, ciò che potrebbe generare frizioni e tensioni — e, quindi, successivi “fastidi” — con il potere non solo culturale vigente… Pertanto, a nessuno, men che meno al pellegrino, vanno messe pulci nelle orecchie e creati problemi di storia: il mito del Risorgimento va salvato così come è stato “costruito” e studiato a scuola, anche a costo di “omettere” un’informazione fondamentale per conoscere la verità dei fatti, ma anche pericolosa, perché da essa potrebbe dedursi l’odio per la religione e la Chiesa cattolica che lo ha animato.

A chi ritenesse questo giudizio eccessivo, offro le citazioni che seguono, brevi ma “corpose” ed esaurienti, relative ai tre “motori” risorgimentali: l’ideologo “seminatore”, Giuseppe Mazzini (1805-1872); la mente politica, Camillo Benso conte di Cavour (1810-1861); e, infine, il braccio armato, Giuseppe Garibaldi (1807-1882).

Comincio con Mazzini, l’ ideologo “seminatore”, limitandomi solo alla sua descrizione lapidaria del rapporto che intratteneva con la nostra religione: «Noi non siamo cristiani — afferma senza perifrasi —perché non crediamo più […] alla divinità eccezionale di Cristo, né alla caduta, né alla redenzione per i soli meriti di Cristo, né alla resurrezione  al cielo cristiano» [FPA-1]. E ancora: «Il vostro dogma umanizza Dio: il nostro tende a divinizzare lentamente, progressivamente, l’uomo» [FPA-2].

Proseguo con Cavour, la “mente”. Egli, fin dalla sua prima partecipazione governativa, nel 1850, e poi come presidente del consiglio di un governo di coalizione — formato nel 1852 alleandosi al “centro- sinistro” di Urbano Rattazzi (1808-1873) — si è esercitato nella pratica prima legislativa e poi esecutiva di azioni malvagie tese a raggiungere agevolmente il suo obbiettivo: “rubare” alla Chiesa di Roma per risanare le finanze piemontesi.

Come racconta lo scrittore cattolico irlandese Patrick O’Clery (1849-1913) nel suo bel libro La rivoluzione italiana«Il 10 marzo 1854 [— quindi ben prima dell’unità d’Italia —] i beni del seminario vescovile venivano confiscati e, nell’agosto, i Canonici lateranensi e della Santa Croce furono espulsi dalle loro case nella capitale [Torino]. Nel novembre Rattazzi, come ministro dell’Interno, presentò alla Camera dei deputati una legge per la soppressione di tutti i conventi e monasteri negli Stati piemontesi, nonché per il sequestro delle loro proprietà, adducendo apertamente ragioni finanziarie per motivare questo furto colossale. Quando la legge fu portata al Senato, nell’aprile successivo, i vescovi offrirono al Tesoro una somma equivalente a 900.000 franchi, purché quella legge fosse ritirata. Il governo però, mettendo da parete qualsiasi considerazione finanziaria, era ormai determinato a sopprimere gli Ordini religiosi. L’offerta dei vescovi venne respinta, la legge fu imposta al Parlamento e divenne esecutiva il 25 maggio 1855» [PKC].

Concludo con Garibaldi, il “braccio”. Anche per lui è sufficiente una citazione epigrafica. Con il “garbo” che gli è proprio, l’ “eroe dei due mondi” individuava il nemico principale contro il progresso illimitato dell’umanità — che era la sua grande certezza — nella Chiesa cattolica, la quale, a sua volta, era rappresentata “mirabilmente” dalla figura del prete «[…] la più nociva di tutte le creature, perché egli più di nessun altro è un ostacolo al progresso umano alla fratellanza degli uomini e dei popoli» [FPA-3].

Forse qualcuno nel santuario di San Gabriele dovrebbe tener conto di tutto ciò. La memoria di questo straordinario giovanissimo santo, il santo dei miracoli, avrebbe meritato una maggiore attenzione. Ma, volendo, c’è sempre tempo…

3. LORETO – LA MANOMISSIONE – LE INVASIONI NAPOLEONICHE

LoretoA Loreto ero stato molte volte, senza però mai notare un particolare che descrive, in modo simbolico ma perfettamente, un altro non inconsueto “comportamento” verso la storia: la “manomissione” dei fatti, per cancellarne l’identità originaria (in fondo, la verità) e per farli apparire conformi alla Vulgata. Debbo la “scoperta” — che, vista dall’esterno, può essere anche la misura della mia “ignoranza” o della mia declinante memoria — a Paolo B., un amico innamorato della sua città, ma soprattutto della sua Patrona.

Si tratta di questo. L’intero Palazzo Apostolico — che con l’eleganza delle sue doppie arcate chiude a nord e a ovest la piazza della Madonna (cioè, guardando la piazza con le spalle al santuario, alla sua destra e di fronte) — è impreziosito per tutta la sua lunghezza da un fregio della trabeazione in stile dorico con «[…] una ricca serie di metope — lastre quadrate ornate con bassorilievi — tra triglifi, costituiti da tre scanalature verticali» [MOSA,  pp.36-37].

Ma, nel 1797, il messaggio originario scolpito in queste metope proditoriamente mutò. Il 13 febbraio, l’esercito francese di Napoleone Bonaparte (1769-1821), raggiunse Loreto, occupandola, e «[…], presente lo stesso Bonaparte, spogliò il celebre Tesoro del santuario, considerato il più ricco d’Europa, non risparmiando [come vedremo ] neppure la statua lignea della Madonna, venerata in Santa Casa» [ibid., p.37]. E se queste ruberie “ricche” sono un “francesismo” da tutti riconosciuto (anche se spesso sottovalutato) [cfr. MAL], meno evidente è un comportamento altrettanto classico dei napoleonici e comunque dei figli della Rivoluzione francese: le azioni vandaliche contro elementi e simboli religiosi, che denotano uno scientifico odio contro la Chiesa e contro Dio.

Il Palazzo Apostolico questo capolavoro dell’architettura cinquecentesca  voluto da papa Giulio II (1443-1513)  «[…] per ospitare comodamente il governatore e il clero a servizio del Santuario» [MOSA, p.9]  e affidato inizialmente all’architetto Donato Bramante (1444-1514) aveva, però, per Napoleone un difetto intollerabile: in quelle lastre ornate con bassorilievi c’erano, tra questi, gli stemmi papali e le chiavi pontificie decussate, a guisa, cioè, della Croce di S.Andrea.

E allora, nel 1798, ma è solo uno dei tanti «[…] penosi segni di barbarie» [ibid., p.37] lasciati ordina di scalpellarli per renderli incomprensibili. Anzi, si “diverte” a ribaltarne il significato: le chiavi mutilate vengono, infatti, «[…] trasformate in una specie di cannoni, in sfregio dell’autorità papale» [ibidem]; immaginando, presumo, con piacere perfido, che in futuro potessero fungere da pro-memoria e magari essere assunte come un simbolo che meglio potesse rappresentarlo. Con me, da oggi, c’è riuscito perfettamente, ma forse non nel senso da lui sperato…

Ma Loreto era soprattutto un forziere da rapinare. Quell’oro, impastato di preghiere e di grazie, che la fede del buon popolo di Dio aveva cumulato nei secoli ai piedi di Maria, costituiva l’oggetto dei desideri di quei “laici” che tanto odiavano la Chiesa e Dio. Come scrive lo storico Sandro Petrucci,  «il tesoro della S. Casa di Loreto […], per i pensatori illuministi, […] divenne un esempio di come tanto oro ed argento fosse tenuto improduttivo solo per quella che consideravano un’incomprensibile superstizione religiosa. Anche per questo sarebbe stato un bel bottino da strappare alla Chiesa» [SPE].

Qui, in fondo, si incontra una manomissione nell’interpretazione della storia non simbolica come le chiavi decussate diventate cannoni, ma sostanziale: esse consiste nel leggere tutto l’accaduto in chiave “economica”, da un lato come consueto bottino di guerra del soldato, dall’altro come “rimborso spese” dovuto, giacché il deficit della Repubblica si era prodotto soprattutto a causa delle guerre intraprese a nostro beneficio per esportarci i frutti della Rivoluzione, la libertà, la fraternità e l’uguaglianza.

Si nasconde così il suo vero orientamento, che «sin dagli inizi […] [fu] chiaramente […] anti-cristiano, […] perseguendo [via via, in un crescendo dilagante,] una terribile politica di decristianizzazione e di distruzione della presenza religiosa nella società» [MTA].

A Loreto — ma, ovunque arrivarono, il loro comportamento fu il medesimo — i “diffusori” di questa Rivoluzione non si limitarono a depredare i “beni” ma colpirono anche i simboli religiosi più cari alla popolazione “liberata”. Non si limitarono, cioè, a rubare il Tesoro della Santa Casa — o almeno tutto quello che di esso poterono trovare, perché una parte era stata prudentemente nascosta a Roma — ma portarono via, il 17 febbraio 1797, la statua stessa della Madonna.

Quel giorno, presente lo stesso Napoleone, «i [suoi] soldati afferrano la Madonna nera e la mettono con altri oggetti sopra un carro con destinazione Parigi» [PLG]. Forse per darle una lezione, visto che solo una settimana prima, ad Ancona era impallidito di fronte alla Madonna della cattedrale di S. Ciriaco che aveva avuto l’ardire di muovere le palpebre anche davanti a lui… [cfr. VME-RCA].

Poi, però, scoppia l’insorgenza del popolo marchigiano contro l’invasore rivoluzionario e si alza potente il grido di “Viva Maria!”… In quell’anno, insorgono quasi tutti i popoli italiani, dal Tirolo alla Calabria. Ma questa è un’altra storia, che, purtroppo, non si studia a scuola e perciò pochi conoscono, sebbene abbia prodotto oltre 60.000 morti contro i circa 5.000 del Risorgimento…

È davvero un’altra storia quella dell’Insorgenza, la cui “riscoperta” però — per dirla con Oscar Sanguinetti, uno degli studiosi più attenti del fenomeno — da un lato rappresenta «[…] un dovere morale, soprattutto per lo storico cristiano, che […] nei confronti degli antenati […] è tenuto a praticare in primis l’esercizio della pietas verso di loro, dei valori da loro ”indossati” e delle loro scelte, […]  [dall’altro si configura come] un passaggio obbligato se si vuole finalmente affrontare correttamente il problema dell’identità nazionale e approdare a una visione non più conflittuale, ma condivisa della memoria nazionale» [OSA].

La Madonna nera trafugata fu messa in deposito, in un locale del Museo del Louvre e conservata «[…] quale emblema di ignoranza e superstizione [classificata asetticamente e “laicamente” come] […] “statua di legno orientale di scuola egiziogiudaica”» [PLG].

Restò a Parigi fino al 9 dicembre 1802, quando — magari per la sonorità degli echi dei “Viva Maria!” — fu “rilasciata” e restituita a papa Pio VII (1800-1823), perché potesse finalmente riportarla nella sua Santa Casa.

Qualche anno dopo — forse facendo scorrere il film della sua vita e riflettendo sulle sue sofferenze e su quelle di Maria per mano di Napoleone e dei rivoluzionari francesi — lo stesso pontefice “promosse” l’Addolorata a figura della Chiesa in epoca di Rivoluzione, come sottolineò il beato Giovanni Paolo II (1978-2005) in occasione del messaggio per il bicentenario della sua elezione al soglio pontificio, quando disse: «[…] Il 15 settembre [ricorre la], memoria liturgica della Madonna Addolorata che, il 18 settembre 1814, […] [Papa Pio VII] volle estendere a tutta la Chiesa, in ricordo dei dolori da cui la Chiesa fu afflitta nell’età della Rivoluzione francese e della dominazione napoleonica.  […]  Nei momenti burrascosi del pontificato, era proprio Lei, la Vergine Santa, il suo sostegno nell’incrollabile certezza che i diritti di Dio e della Chiesa avrebbero finito per trionfare» [GPII].

A Loreto, dopo l’Annunciazione, potrebbe tornare alla memoria anche la Via Matris, il suo Fiat ripetuto e perpetuato nella storia per noi.

4. S.GIOVANNI ROTONDO – LE OMBRE “COLORATE” – IL COMUNISMO

S Giovanni RotondoAndare a trovare san Pio (1887-1968) la settimana successiva alla visita a san Gabriele potrebbe essere letto — se non ci fossero motivi più profondi — come un “ragionato” percorso sul filo dell’architettura e dell’arte moderna cattoliche.In questa prospettiva, senza impelagarmi in giudizi  artistici che non mi competono, non posso però non trasmettere qualche impressione.

La prima è mia: quando, superata la basculante, mi sono ritrovato nell’area (o aula) liturgica — oggi si dice così — ho provato la stessa “tensione spirituale” che si prova entrando nel terminal dell’aeroporto di Osaka, in Giappone. La seconda è del mio nipote più piccolo, di quattro anni, a cui, mentre attraversavamo la spianata in cemento armato, avevo spiegato che quello sconfinato spiazzo grigio serviva per le grandi messe all’esterno; ebbene, entrando nell’area liturgica suddetta, con molta serietà lui mi ha chiesto: “nonno, ma la chiesa è qui o fuori?”.

Comunque sia, siccome Dio è dappertutto, anche a Osaka e sui desolati spiazzi grigi, me ne sono fatto rapidamente una ragione, avendo peraltro deciso di non meravigliarmi più. Chiedendomi, se mai, quanto ci fosse anche di mio, come peccatore del XX secolo, in questo degrado formale…  E riflettendo, infine, come a noi spetti solo coltivare la speranza e pregare che il vero, il buono e il bello tornino a riabbracciarsi. Al resto, ci penserà Lui, quando e come riterrà opportuno.

Però, all’interno — anche nella cripta —, ho scoperto una caratteristica non formale ma sostanziale che mi ha infastidito moltissimo e che dovrebbe — questa sì — farci arrossire (il farci è evidentemente molto esteso…): ero entrato nell’unica chiesa al mondo “progettata”  — almeno presumo — per impedire ai fedeli di inginocchiarsi! E qui, non è più un problema estetico, ma viene leso un diritto fondamentale, dei fedeli e di Dio, soprattutto di Dio.  «[…] Il gesto più espressivo dell’adorazione — come scrive don Nicola Bux — è l’inginocchiarsi, il prostrarsi e l’inchinarsi profondamente quasi a dire “Tu sei il Dio grande, mentre io non sono un nulla!»[NBU].

Forse per l’orgoglio di molti architetti moderni questo “dire” è troppo, soprattutto se credono poco in Lui e di Lui sanno ancora meno: «Il Signore ha pregato in ginocchio (Luca 22,41), così gli apostoli Pietro (Atti degli Apostoli 9,40) e Paolo (Atti degli Apostoli 20,36) e il martire Stefano (Atti degli Apostoli 7,60). Tutta la creazione piega le ginocchia nel nome di Gesù (cfr. Filippesi 2,10) segno della signoria di Dio sul mondo» (ibidem).

Ciò posto, anche da san Pio, però, porto via con me qualcos’altro, che ha relazione con il racconto della storia falsato per armonizzarlo con l’intangibile Vulgata.

Per raggiungere la cripta con l’urna del corpo di san Pio, ci incamminiamo nel lungo corridoio di accesso, tra l’oro luccicante e i colori dei mosaici, ma con poca “gioia” e con una certa inquietudine, guardati come eravamo da quegli occhi enormi e sbarrati — che sembrano però non vedere  —  dei personaggi che l’artista, il gesuita sloveno padre Marko Ivan Rupnik, ha rappresentato sulle pareti.

Ricordavo un articolo di Antonio Socci di due anni fa, intitolato «Uno sfregio a Padre Pio», in cui si stigmatizzava l’immagine con cui l’autore dei mosaici aveva ritenuto di descrivere padre Pio in atto benedicente verso gli “uomini di cultura”, una immagine che, in più, confliggeva in modo stridente con quella in cui lo stesso aveva immaginato di “raccontare” la visita in bilocazione di san Pio al servo di Dio cardinale József Mindszenty (1892-1975), mentre questo era tenuto in prigione nelle carceri comuniste ungheresi  [cfr. ASO-1].

Nella nostra prospettiva, lo sfregio alla memoria di padre Pio è uno sfregio anche alla storia. Potremmo individuare questa tecnica di contraffazione come quella delle  “ombre colorate”. Si raccontano i fatti, ma in modo che l’oro e i colori della descrizione nascondano la loro sostanza oscura e appaghino i sensi senza interessare la curiosità intellettuale. La ricchezza cromatica del “racconto” non fa fare domande, è di suo appagante. Però… però, come diceva lo scrittore Honoré de Balzac (1799-1850), «Non toccar con mano gli idoli perché la doratura scompare» [WLE].

Il mondo della cultura benedetto da padre Pio è descritto da Rupnik attraverso tre personaggi, un signore che porta la “pizza” di un film, un altro che stringe due libri (su quello più esterno si intuisce il titolo  Scientia) e infine una signora che in mano ha una copia dell’Unità — l’allora organo del Partito comunista italiano, il giornale fondato da Gramsci e diretto per tanti anni da Palmiro Togliatti (1893-1964).

È una descrizione a suo modo veritiera delle condizioni della nostra cultura, condizioni costruite pazientemente giorno dopo giorno — a partire almeno dalla svolta di Salerno del 1944 — proprio sulla base delle indicazioni procedurali di Gramsci: in grande sintesi, nelle nazioni cattoliche: comunismo al potere non secondo procedura “classica” — prima lo Stato, poi la Società —, bensì con procedura “personalizzata”: al contrario, prima la Società e solo infine lo Stato.

Le mani stigmatizzate di padre Pio che si stendono a benedire il gruppo inducono nel pellegrino in buona fede e mediamente informato una sensazione, a dir poco, sgradevole. Tale sgradevolezza fu denunciata da Socci nell’articolo citato, in cui riportò anche la didascalia esplicativa del mosaico: «Padre Pio benedice le donne e gli uomini di cultura. Il padre spirituale sa accogliere senza pregiudizi tutti quelli che a lui si rivolgono» [ASO-1]. Senza pregiudizi ma, a guardarlo, parrebbe anche senza necessità di conversione.

Il portavoce dei frati cappuccini, Stefano Campanella, in una lettera di chiarimento, affermò come l’intenzione dell’autore fosse invece quella di descrivere le tante conversioni generate da Padre Pio nel mondo della cultura (e l’“icona” di tale conversioni sarebbe stata proprio la signora con L’Unità, l’attivista comunista convertita Italia Nahir Betti [1900-1950]), concludendo che non si tratta «[…] di una celebrazione o una benedizione del comunismo, bensì l’esatto contrario: il mosaico celebra la vittoria della fede su un’ideologia materialista e anticlericale, mentre la benedizione di padre Pio è riservata a quegli uomini e donne che hanno abiurato la via del rifiuto di Dio e che hanno trovato la fede, senza pregiudizi sul loro passato» [ACE].

Lo stesso portavoce — concessa a Socci la giustezza del rilievo sulla equivocità e sulla torbidezza  della didascalia descrittiva — si impegnò a modificarla. Nella mia visita ho preso atto della nuova lapide: padre Pio è diventato santo e nella didascalia esplicativa sono state aggiunte queste parole: «per orientarli alla conversione». Sarò incontentabile, ma la sensazione sgradevole di partecipare ancora ad un infelice matrimonio tra l’inferiority complex e la captatio benevolentiae — questo sfavillio linguistico é cercato per adeguarsi alla brillantezza aurea del luogo — permane.

E si incrementa non poco davanti al mosaico che rappresenta padre Pio che, in bilocazione, serve messa al cardinale Mindszenty, in carcere nell’Ungheria comunista. Dell’episodio ha più compiutamente parlato lo stesso Socci nel suo libro dedicato al santo di Pietrelcina [cfr. ASO-2]. Anche in questo caso, per chi conosce la storia dell’ «indomito primate» [MCA] e ha sofferto per i carri armati di Budapest che hanno segnato la nostra gioventù, il mosaico appare completamente inespressivo rispetto al dramma che vorrebbe rappresentare.

Anche qui, come altrove, non si dice chi e perché. Le sbarre indicano una condizione di prigionia, ma non c’è traccia del carceriere (il comunismo) e dei motivi della detenzione (l’essere cattolico). Come scrive Socci: «La didascalia recita: “San Pio porta il pane e il vino al cardinal Mindszenty prigioniero”. Prigioniero di chi? Dell’anonima sequestri? No. Il primate fu incarcerato dal regime comunista ungherese, ma ovviamente lì non c’è scritto. E ben pochi pellegrini lo ricordano»[ASO-2].

Anche in questo caso ho preso atto della nuova lapide: padre Pio è diventato santo e la didascalia esplicativa recita così: «Bilocazione di S.Pio al cardinale Mindszenty nel 1956. Anticipazione dell’ottavo giorno, giorno in cui il corpo si è sciolto dal legame di tempo e spazio».

Qui, se mai fosse stato possibile, la descrizione è addirittura peggiorata, diventando criptica e ancor più reticente, essendo scomparso qualsiasi cenno alla condizione di prigionia del cardinale.

Anche in questo caso, lo sfregio non solo è al cardinale ma è anche allo storia. Quando il 4 novembre di quell’orribile 1956 i carri armati sovietici entrarono a Budapest — al termine della normalizzazione comunista i morti furono più di duemila —, il giornale su cui, nell’altro mosaico, parrebbe scendere la benedizione di padre Pio, il giorno dopo uscì con questo titolo a nove colonne, in prima pagina, che dà la “sua” misura: «Le truppe sovietiche intervengono in Ungheria per porre fine all’anarchia e al terrore bianco» [UNI].

Eppure come fossero state le prigioni del cardinale Mindszenty, lo aveva raccontato lui stesso nel suo bellissimo libro intitolato semplicemente Memorie, in particolare nei due paragrafi specifici Vita religiosa in carcere e L’abisso della prigione, che riporterò ampiamente per un atto di giustizia nei confronti di questo esemplare servo di Dio: «[…] quando i comunisti ungheresi ebbero ben saldo nelle mani il potere, nelle prigioni anche la religione venne condannata a morte. Chiusero le cappelle o le trasformarono in celle. I cappellani delle carceri vennero licenziati. I prigionieri non poterono più assistere alla santa Messa. Nessun prete poté più portare loro il viatico rinunciare a ogni conforto spirituale. […] Recitare il rosario contando con le dita è un’abitudine in vigore dappertutto; i prigionieri pregano così dalla cortina di ferro fino a Norilsk. […] Non c’è da meravigliarsi che mi procurassero difficoltà anche a proposito del precetto dell’astinenza del venerdì. In quel giorno portavano immancabilmente carne, mentre la facevano mancare alla domenica e addirittura a Natale. Com’è ovvio, stando al precetto della Chiesa, un carcerato può mangiare carne anche il venerdì, perché non ha scelta. Ciò nonostante io non la toccavo e la guardia riferiva la cosa in alto.[…] Nessuno saprà mai quanti individui abbiano perso la ragione in via Andrassy, in via Markó o in altre prigioni. […] Per sei mesi nel mio diario ho segnato in latino, in una apposita rubrica, le bastonature e gli attacchi maniaci furiosi che si verificavano nel mio ambiente. Segnavo con precisione il giorno, l’ora e la durata e rimasi esterrefatto nel constatare la frequenza di quegli attacchi. […] quando trovavano conveniente ai propri interessi mettere uno nella tentazione di suicidarsi, non avevano scrupoli a fornirgli gli oggetti di cui egli aveva bisogno a quello scopo» […];  [con una notazione mirabile:] «Chi langue e soffre nelle carceri comuniste perché avversario del regime ha perlomeno la soddisfazione che la sua lotta è giustificata. Quanto terribile deve invece essere lo stato d’animo di coloro che si sono sforzati per decenni di portare alla vittoria questo “nuovo mondo” e poi sono caduti in disgrazia e sono stati accusati, come è successo tanto spesso sotto Stalin!» [JMI].

Ecco, di tutto questo, nella rappresentazione musiva, non c’è, non dico una evidenza, ma nemmeno una minima indicazione di percorso per i più volenterosi che volessero percepire qualcosa in più sul chi, sul perché e sul come.

Oggi, l’Ungheria è minacciata dall’ “Europa” — quella che piace tanto ai nostri governanti — perché ha osato reintrodurre re santo Stefano e la Sacra Corona nella sua Costituzione e ha fatto scelte “organizzative” confliggenti con «[…] il progetto eurocratico [che] è un progetto tecnocratico ma, come forse non è del tutto noto, non esistono tecnocrati neutri. L’ideologia della tecnocrazia è il democratismo universale […] quella democrazia che livella e appiattisce invece che rispettare le gerarchie sociali e di valore ed elevare il popolo, rispettandone la volontà, la cultura e l’identità storica» [OSA].

Ma forse ancora più grave è stato considerato l’ardire di aprire qualche finestra e gettare un po’ di luce sul suo recente passato, attraverso «[…] la costituzione del “Comitato della Memoria Nazionale” [con la possibilità] […] che i detentori del potere durante gli anni della dittatura siano giudicati […] come personaggi pubblici, nell’interesse della realistica indagine sul passato […] [e con]  la possibilità [ulteriore] di poter ridurre gli elevati benefici e vitalizi di alcuni leader della dittatura e rendere non applicabile la prescrizione per quanto riguarda l’imputabilità di gravi crimini commessi durante il periodo della dittatura comunista nel nome, nell’interesse, o con il consenso dello Stato dittatoriale» [ACA].

Un ardire, a questo punto, insopportabile e meritevole di una severa lezione, tenuto anche conto di quanto la nazione magiara aveva già “osato” in passato, allorché decise di realizzare il Museo della Casa del terrore (Terror Háza Múzeum) nel famigerato palazzo di via Andrássy n.60, questo straordinario simbolo del 1900 quale «secolo del male» [ABE], perché sede — in continuità, quasi si fossero passate le chiavi — delle polizie politiche — e dei loro feroci interrogatori e delle loro torture nelle angosciose celle sotterranee — prima del nazionalsocialismo, poi del socialcomunismo.

Se a San Giovanni Rotondo si volesse riparare, si potrebbe cominciare ad aggiungere il link ufficiale del Museo, per invogliare i pellegrini a  visitarlo almeno su internet: <http://www.terrorhaza.hu/>. Per poi, se mai, far nascere in qualcuno di loro il desiderio di organizzarsi un viaggio a Budapest e magari da lì, uscito dal Museo, raggiungere Esztergom, dove l’«indomito primate» fu riportato nel 1991, due anni dopo la rimozione  del Muro di Berlino [cfr. GVE-2].

Il cardinale Mindszenty, ora servo di Dio,  sarebbe molto felice — ne sono certo  — di esaudire le nostre preghiere, soprattutto quelle per l’Europa.

5. RITORNO A LORETO – LA STORIA INUTILMENTE “RICORDATA”

Madonna_LoretoNei tre giorni di permanenza a Loreto, approfittando del fatto di essere ospitati a due passi dal santuario, siamo entrati più volte per far visita alla Madonna nera e appoggiarci ai muri della Santa Casa.

L’occasione è stata molto utile, però, anche per verificare di persona una sensazione che si era a mano a mano irrobustita chiedendo a tanti e diversi pellegrini l’itinerario dettagliato della loro visita a Loreto e che era relativa all’ignoranza — e quindi al disinteresse — per alcune pagine di buona storia cattolica dipinte e “solidificate” dentro il Santuario, in particolare agli ingressi della Santa Casa e nella Cappella Polacca. Dunque: “qualcuno” aveva fatto “qualcosa” per ricordare alcune pagine di nostra buona storia e “nessuno” faceva “niente” per renderne edotti i fedeli.

L’impegno dei “qualcuno” risultava tristemente dimenticato e quindi inutile.

Comincio con la pagina di storia “solidificata”. Di ritorno dalla battaglia di Lepanto (1571), il comandante della flotta papale, il principe Marcantonio Colonna (1535-1584), appena sbarcato a Porto Recanati — prima di tornare a Roma, dove lo aspettavano per festeggiarlo da eroe — sentì il dovere di andare a ringraziare la Madonna di Loreto.

Con lui andarono a inginocchiarsi ai piedi della Madre molti dei 12.000 galeotti cristiani liberati, che consegnarono al santuario, le catene della loro schiavitù. Le catene furono fuse per “risolidificarle” nelle cancellate dei dodici altari della navata centrale e nei quattro cancelli della Santa Casa. Se le prime furono poi rimosse per sopraggiunte esigenze estetiche, i cancelli invece sono ancora lì, trascurati dalla incessante fila di fedeli che entrano e escono in questa straordinaria reliquia architettonica. Eppure, forse, basterebbe toccarli con fede per avvertire quell’antico calore che esce dal ferro…

Più avanti, inginocchiarsi nella Cappella Polacca è come farsi chiudere nell’abbraccio di due parentesi memorabili della storia dell’Europa: due pagine di “grande” storia cattolica, affrescate  — quasi a simbolica protezione dell’altare centrale  — sulle pareti laterali (dall’artista loretano Arturo Gatti [1878-1958] negli anni 1912-1939).

Se oggi puoi inginocchiarti è anche, se non soprattutto, proprio per quello e per quelli che sono dipinti su queste due pareti: a destra, ti fanno compagnia il beato fra’ Marco d’Aviano (1631-1699) con la Madonna di Loreto in mano e il leggendario re di Polonia, Giovanni Sobieski (1629-1696), nella battaglia di Vienna (1683); a sinistra, padre Ignacy Skorupka (1893-1920) e il maresciallo Iozef Pilsudski (1867-1935), nella battaglia di Varsavia (1920) più nota come il Miracolo della Vistola [cfr. GVE-3].

Due vittorie imprevedibili — a fronte della notevole disparità delle forze in campo — conseguite dal mondo cristiano per il valore degli uomini ma soprattutto per l’aiuto della Madonna, in due battaglie decisive per i suoi destini, giacché la prima ha impedito la conquista turca dell’Europa, la seconda quella comunista.

Ebbene, tutte le volte che, in ore e giorni diversi, siamo entrati nel santuario, così come non abbiamo mai visto un fedele “toccare” consapevolmente, cioè per “scaldarsi”, i cancelli della Santa Casa, allo stesso modo non abbiamo mai visto pellegrini inginocchiati nella Cappella Polacca, a ringraziare e farsi scaldare il cuore, nel fuoco delle due parentesi.

Perché accade questo? Forse perché sappiamo poco della nostra storia; o forse, peggio, perché non ne sappiamo addirittura nulla, perché nessuno ce la racconta, soprattutto quando non si accorda con la Vulgata e, ancor di più, quando è vincente.

Chiudo con una curiosità beneaugurante. L’ultimo giorno di visita, con un po’ di sorpresa, abbiamo notato nella Cappella Polacca due persone di non poco significato quali l’arcivescovo-prelato di Loreto Mons. Giovanni Tonucci e — come ci è stato segnalato — il famoso regista polacco Krzysztof Zanussi, con il primo che, in elegante mantella lunga di color rosso bordò, sembrava illustrare il “luogo” al secondo, il quale, da parte sua, pareva ascoltarlo con attenzione deferente. Tanto ci è bastato per andar via con rinvigorita speranza che, almeno a Loreto, qualcosa potrà cambiare nella verità e nella completezza del racconto almeno della “nostra” bella storia.

* * * 

[GVE-1]  Cfr. il mio  A proposito di Insorgenze antigiacobine. Una risposta al prof. Massimo Cattaneo, in <http://www.recensioni-storia.it/a-proposito-di-insorgenze-una-risposta-al-prof-massimo-cattaneo>

[VBU] VLADIMIR BUKOVSKIJ, Gli archivi segreti di Mosca, trad.it., Spirali, Milano 1999, p. 579.
[GDR] GONZAGUE DE REYNOLD, Gonzague De Reynold raconte la Suisse et son histoire, Payot, Losanna 1965, p.165, (brano trad. in it ., con il titolo redazionale A cosa serve la storia, in Cristianità, anno XI, n.95, Piacenza marzo 1983, p.3).
[Link-1] <http://it.cathopedia.org/wiki/Provincia_Passionista_Centro-Est_Italia?pk_campaign=AddToAny>
[Link-2] <http://www.150anni.it/webi/index.php?s=29&wid=58>
[Link-3] <http://it.wikipedia.org/wiki/Leggi_Siccardi>
[FPA-1] FRANCESCO PAPPALARDO, Il mito di Garibaldi. Una religione civile per una nuova Italia, con una presentazione di Alfredo Mantovano, Sugarco, Milano 2010,  p. 41. La citazione di Mazzini è tratta da G. MAZZINI, A Félicité de Lamennais, 29-11-1840, in S.E.I., vol. 19, pp. 355-359 (p. 357
[FPA-2] Ibidem. La citazione di Mazzini è tratta da Idem, in Dal Concilio a Dio, ibid., vol. 86, pp. 241-283 (p. 263)
[PKC] PATRICK KEYES O’ CLERY, La Rivoluzione Italiana. Come fu fatta l’unità della nazione, traduzione e presentazione di Alberto Leoni, con bibliografia e indice dei nomi a cura di Guglielmo Gualandris, trad.it., Ares, Milano 2000, p. 248.
[FPA-3] F.PAPPALARDO, Il mito di Garibaldi. Vita, morte e miracoli dell’uomo che conquistò l’Italia, con una presentazione di mons. Andrea Gemma F.D.P., vescovo di Isernia-Venafro, e un’introduzione di Giovanni Cantoni, Piemme, Casale Monferrato (Alessandria) 2002, p. 32. La citazione di Garibaldi è tratta da G. Garibaldi, Scritti e discorsi politici e militari, Cappelli, Bologna 1937, vol. III (1868-1882), p. 334.
[MOSA] NANNI MONELLI-GIUSEPPE SANTARELLI, Loreto Palazzo Apostolico mito di Garibaldi. Vita, morte e miracoli dell’uomo che conquistò l’Italia, con una prefazione di mons. Giovanni Tonucci, Arcivescovo Delegato Pontificio, Presidente del Centro Studi Lauretani, Edizioni Santa Casa, Loreto (Ancona) 2012.
[MAL] Cfr. MARCO ALBERA, «I furti d’arte. Napoleone e la nascita del Louvre», in OSCAR SANGUINETTI (a cura di) Insorgenze antigiacobine in Italia (1796-1799) – Saggi per un bicentenario, Istituto per la Storia della Insorgenze, Milano 2001, pp. 87-91 (già pubblicato in  Cristianità, anno XXV, n.261-262, Piacenza gennaio-febbraio 1997, pp.11-14).
[SPE] SANDRO PETRUCCI, Insorgenti Marchigiani – Il trattato di Tolentino e i Moti antifrancesi del 1797, Sico Editore, Macerata 1996, p.122.
[MTA] MARCO TANGHERONI (1946-2004), Cristianità, modernità, Rivoluzione, a cura di O. Sanguinetti, con un saggio introduttivo La storia come “riassunto” di G. Cantoni,  Sugarco, Milano 2009, pp.84-85.
[PLG] PIER LUIGI GUIDUCCI, Napoleone e la Madonna di Loreto, in Rivista Maria Ausiliatrice, anno XXVIII, n. 9, Torino 2007-9, in http://www.donbosco-torino.it/ita/Maria/studi/06-07/009-Madonna_e_Napoleone.html
[OSA] O.SANGUINETTI, Le Insorgenza contro-rivoluzionarie in Italia: un profilo storico (1796-1814), in Idem (a cura di) Insorgenze antigiacobine in Italia (1796-1799) – Saggi per un bicentenario, cit., pp. 127-142 (p.142).
[GPII] GIOVANNI PAOLO II, Guardando all’indomito e perseverante servizio reso alla Chiesa da Pio VII gli uomini affrontino con uguale ardore missionario le sfide dell’epoca moderna, messaggio alle Congregazioni Benedettine Cassinese e Sublacense per il bicentenario dell’elezione alla Cattedra di Pietro del venerato Predecessore (Pio VII, 1800-1823, dom Luigi Barnaba Gregorio Chiaramonti O.S.B., n. 1740), del 14-8-2000, in L’Osservatore Romano. Quotidiano politico e religioso,  8-8-2000.
[VME-RCA] cfr. VITTORIO MESSORI – RINO CAMMILLERI, Gli occhi di Maria, Rizzoli, Milano 2001, pp.13-35
[NBU] NICOLA BUX, Come andare a messa e non perdere la fede, Piemme, Milano 2010, pp. 173-174.
[ASO-1] ANTONIO SOCCI, Uno sfregio a Padre Pio, in Libero, 11-09-2011, in <http://www.antoniosocci.com/2011/09/uno-sfregio-a-padre-pio/ >
[WLE] Cit. in DOMINIC BEVAN WYNDHAM LEWIS (1886-1957), Carlo V, trad. it., Dall’Oglio, Milano 1959, p. 18.
[ACE] ANGELO ALFONSO CENTRONE, San Pio con l’Unità, polemizza Libero. I frati: è la parabola di una conversione ne Il Corriere del Mezzogiorno.it, 19-9-2011 in <http://corrieredelmezzogiorno.corriere.it/napoli/notizie/cronaca/2011/19-settembre-2011/san-pio-l-unita-polemizza-liberoi-frati-parabola-una-conversione-1901579934098.shtml>
[ASO-2] A.SOCCI, Il segreto di Padre Pio, Rizzoli, Milano 2007, pp. 184-188
[MCA] MAURIZIO CAPRARA, L’indomito primate, ne Il Timone. Rivista di apologetica cattolica, anno IV, n. 22, Milano novembre/dicembre 2002, p. 18 e ss.
[UNI] l’Unità, Organo del Partito Comunista Italiano, 5-11-1956.
[JMI] JÓZSEF MINDSZENTY, Memorie, trad.it., Rusconi, Milano 1975, pp. 269-276.
[OSA] O.SANGUINETTI, Un’altra nazione europea “normalizzata”?, ne Il Sestante, blog, 4-1-2012 in <http://il-sestante.blogspot.it/2012_01_01_archive.html>
[ACA] ANDREA CAMAIORA, Non credete alle fanfaluche sul “golpe” di Orban. Ecco cosa accade (veramente) in Ungheria, in Tempi on line, 2013-03-20, in<http://www.tempi.it/non-credete-alle-fanfaluche-sul-golpe-di-orban-ecco-cosa-accade-veramente-in-ungheria#.UZyV8aI734s>
[ABE] Cfr. ALAIN BESANÇON, Novecento, il secolo del male. Nazismo, comunismo, Shoah, trad.it., Ideazione Editrice, Roma 2000.
[GVE-2] Cfr.il mio Da Mariazell a Esztergom, da Otto a Mindszenty. Fino Al Beato Carlo, in <http://www.siciliacristiana.eu/index.php?option=com_content&task=view&id=909&Itemid=328>
[GVE-3] Cfr. il mio Le “frantumazioni” della Madre: dalla statuetta alla storia, in <http://www.siciliacristiana.eu/index.php?option=com_content&task=view&id=900&Itemid=328>