I giudici milanesi, gli esuli e il diritto d’asilo (negato)

cubani_mediciCorriere della Sera 21 maggio 2005

Mentre a Cuba si scende in piazza per manifestare contro la dittatura castrista in Italia si rifiuta l’asilo politico ai dissidenti e si giustifica la persecuzione politica

di Piero Ostellino

«La normativa cubana non consente l’uscita di medici dal territorio nazionale, se non su parere favorevole del ministero della Sanità. Tuttavia questa limitazione, certamente gravosa, che colpisce la categoria dei medici, non si può ritenere priva di giustificazioni e, probabilmente, risponde a esigenze di tutela della collettività. Infatti è una misura evidentemente tesa a evitare che i cittadini cubani rimangano privi di adeguata assistenza sanitaria, scoraggiando i sanitari (che hanno raggiunto la loro maturità professionale anche con gli aiuti economici della collettività) dall’intenzione di espatriare, almeno senza adeguata garanzia di rientro. Peraltro deve considerarsi che, stante la critica situazione economica del Paese, l’allontanamento dal Paese di queste figure professionali, qualora l’espatrio fosse senza limiti e garanzie consentito, diventerebbe probabilmente costante, con ovvie e negative conseguenze per la salute pubblica. Conseguentemente non può dirsi limitata ingiustamente la libertà dei cittadini cubani che svolgano professione medica, atteso che il sacrificio della possibilità di espatrio risponde al principio superiore della tutela della collettività».

Questo esemplare brano di Teoria generale dello Stato marxista-leninista-sovietico non è stato scritto da Erich Honecker – il defunto ex presidente della Repubblica democratica tedesca – a legittimazione del Muro di Berlino, col quale si è impedito per 28 anni ai tedeschi della Germania Orientale di passare in Occidente.

No – mentre da Cuba giunge la notizia dell’arresto del nostro inviato -, ciò è quanto si legge in una sentenza del Tribunale di Milano, depositata il 13 gennaio scorso – presidente Giuseppe Tarantola, giudice relatore Marisa G. Nardo, giudice Paola Gandolfi – con la quale è stata respinta la richiesta di «diritto d’asilo politico» dell’esule cubano Gerardo Garcia e di sua moglie Dora Castro.

Come non bastasse, la sentenza incorre anche in alcune curiose contraddizioni (che riguardano la mia vecchia polemica sulle ambiguità della nostra Costituzione e sulle conseguenze che ne sarebbero potute derivare e ancora, a quanto pare, ne derivano).

Il nostro ordinamento – recita la sentenza – «attribuisce il diritto d’asilo allo straniero a cui nel proprio Paese sia impedito l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana». Ma, poi, dimentica che fra tali libertà c’è – art. 16 – quella «di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge». Dimenticanza o interpretazione? Se nel 1948 il Pci avesse vinto le elezioni, i giudici di Milano avrebbero citato, fra «gli obblighi di legge», anche «la tutela della collettività (…) atteso che il sacrificio della possibilità di espatrio risponde al principio superiore della tutela collettiva»?

E ancora. Garcia e sua moglie hanno lamentato «le restrizioni esistenti nel loro Paese d’origine al diritto di proprietà». Ma anche quest’ultimo – art. 42 – è previsto dalla nostra Costituzione «che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale». Dimenticanza o interpretazione? Sempre se nel 1948 avesse vinto il Pci, i giudici di Milano avrebbero citato, fra «i limiti» al diritto di proprietà «allo scopo di assicurarne la funzione sociale», le «scelte di politica economica che per quanto opinabile – scrivono su Cuba – è comunque indirizzata (…) alla gestione delle risorse nazionali con risultati di uguaglianza di massa»?

Sulla sentenza di Milano, mi piacerebbe conoscere l’opinione, se non di Ciampi, che è presidente del Consiglio superiore della magistratura, almeno del mio amico (Gingio) Rognoni, che ne è il vicepresidente, nonché di qualche costituzionalista. Qui, non si vuole negare la libertà di opinione ai giudici milanesi, né tantomeno mettere in discussione l’indipendenza della magistratura. Si vorrebbe soltanto sapere in che razza di Paese viviamo.