I «neocon» contro Roosevelt: prolungò la crisi del ’29

crisi_29pubblicato su Il Corriere della Sera
4 dicembre 2003

Gli intellettuali liberisti americani attaccano il mito del grande presidente: «Non capiva nulla di economia, favorì gli Stati dell’Est a svantaggio del Sud»

E’ arrivato il momento di Roosevelt, si direbbe: l’America dell’era Bush, infatti, sembra avere messo sotto tiro anche questo mito. Sì, Franklin Delano, il presidente che orchestrò la Vittoria, l’avversario mortale di Hitler, il guerriero sulla sedia a rotelle. Non per come portò l’elmetto, naturalmente: se gli inquilini della Casa Bianca si giudicano dalle performance di guerra, FDR è saldamente il numero uno del ventesimo secolo. Ma per come portò il cappello della pace.

In fondo, «fu originariamente eletto per curare la Grande Depressione», sostiene Robert Bartley, direttore emerito del quotidiano Wall Street Journal, e da questo punto di vista non portò buoni risultati. Anzi, fu un disastro dalle conseguenze enormi, secondo il libro appena pubblicato negli Stati Uniti che ha aperto la revisione del mito Roosevelt. Succede insomma che il movimento tellurico che sta interessando la politica americana sotto i colpi dei neoconservatori non si ferma alla politica estera. Ora scuote le radici di uno dei totem della sinistra democratica internazionale: quel New Deal che proprio nel 2003 compie 70 anni.

Il libro da cui è partito l’attacco è stato scritto da Jim Powell, uno storico-economista del Cato Institute, think-tank di Washington piuttosto influente che si definisce libertario. Il titolo, non ancora tradotto in italiano, è un manifesto di chiarezza: «La follia di FDR: come Roosevelt e il suo New Deal prolungarono la Grande Depressione» (Crown Forum, 352 pagine, $ 27.50). La «follia» a cui si riferisce Powell consiste in una serie di misure economiche, prese da Roosevelt spesso in contrasto con il suo segretario al Tesoro Henry Morgenthau, che allontanarono la ripresa dell’economia per una ragione fondamentale: Roosevelt non ne capiva nulla e, soprattutto, davanti a ogni scelta era la politica a prevalere, non importa se la cosa facesse bene o male alla ripresa.

L’obiettivo di Roosevelt era sostanzialmente quello di spodestare l’élite degli affari che aveva dominato la nazione fino al 1929 e a questo piegò ogni scelta. «Fu sicuramente un leader politico notevole ma fece del male all’America», dice Robert Mundell, premio Nobel per l’Economia.

Le argomentazioni piuttosto forti del libro di Powell stanno facendo onde alte, tanto che premi Nobel liberisti come Milton Friedman e James Buchanan e storici come David Landes hanno colto l’occasione per entrare nel dibattito, dalla parte di Powell. «Gli ammiratori di Franklin Delano Roosevelt – sostiene Friedman – danno al suo New Deal il credito di avere rilanciato l’economia americana dopo la contrazione disastrosa del 1929-1933.

A dire il vero, e Powell lo dimostra senza ombra di dubbio, il New Deal impedì la ripresa dopo la contrazione, prolungò e aumentò la disoccupazione e creò le condizioni per un intervento dello Stato ancora più intrusivo e costoso». L’economista vivente probabilmente più prestigioso al mondo non ha dubbi su dove collocare, quando si parla di economia, FDR: nella colonna dei pessimi. E, a suo parere, il libro di Powell lo documenta «solidamente».

Un altro economista americano, anch’egli un mezzo mito liberale e Premio Nobel, James Buchanan, dice che il libro dovrebbe essere fatto conoscere anche ai non addetti ai lavori «se in futuro vogliamo evitare una confusione politica simile al New Deal». Apprezzamenti di questo tenore sono arrivati anche da storici.

David Landes, professore emerito di Storia a Harvard, uno dei giganti della materia, sostiene che «Jim Powell è uno storico molto determinato, di quelli che lasciano che le prove cadano laddove esse stesse decidono: una qualità piuttosto rara, di questi giorni, mentre dovrebbe essere più che mai apprezzata. Powell lascia che sia la storia a parlare». Obiettivo della discesa in campo di questo vasto fronte è, per molti versi, quello di dare una svolta alla lettura prevalente della storia economica americana del ventesimo secolo. In particolare, di smontare la teoria che accredita Roosevelt di avere fatto uscire gli Stati Uniti dalla Depressione seguita al crollo di Wall Street del ’29 grazie alla sua politica keynesiana di grandi interventi pubblici. I liberisti americani provano, in altri termini, ad attaccare il mito Roosevelt-New Deal attorno al quale hanno cementato il loro blocco di potere i Democratici.

Tra il 1933 e il 1940 – accusa Powell – le tasse federali triplicarono da 1,6 a 5,3 miliardi di dollari, con il risultato che i consumatori restarono senza denaro da spendere e le imprese senza capitali da investire. I capitalisti furono scoraggiati a mettere soldi nell’economia, dice sempre lo storico, dall’incertezza creata dagli improvvisi interventi sul fisco (ogni anno, dal ’33 al ’36) e dal fatto che Roosevelt si riferisse a loro come «dittatori economici» o «principi privilegiati». In agricoltura, continua l’atto d’accusa, il presidente incentivò la distruzione di enormi raccolti e di sei milioni di animali per sostenere prezzi che andarono solo a beneficio degli agricoltori più ricchi mentre milioni di persone pativano la fame.

Powell critica profondamente la mitica Tennessee Valley Authority (Tva), il cuore del programma di New Deal e di lavori pubblici: a suo avviso, la Tva succhiò tasse in quantità e non creò uno sviluppo significativo, tanto che Stati come la Georgia e la Carolina del Nord ebbero una crescita maggiore nonostante non fossero stati toccati dall’intervento.

Lo storico accusa Roosevelt di non avere speso denaro per il Sud, allora povero, perché il Sud era già dalla sua parte: il più degli interventi andò all’Est e all’Ovest, dove i redditi erano del 50-60% più alti ma i consensi di FDR meno solidi. Inoltre, Powell dice che durante il New Deal i prezzi furono fatti salire, che Roosevelt lanciò nel 1938 un’iniziativa antitrust senza precedenti contro 150 imprese con il risultato di scoraggiare fortemente gli investimenti, che il presidente causò il fallimento delle banche e ne trasferì il costo sui cittadini. Risultato, fino al 1941, economia di guerra, il Paese non si riprese.

Un attacco all’arma bianca, insomma. Che sta dividendo l’accademia (si veda l’articolo a fianco) ma anche la politica. Dietro la revisione storica, infatti, sta il profumo di cambiamenti strutturali, a favore dei Repubblicani, che qualcuno dice di sentire nel corpo elettorale dell’America. Il fatto è che la presidenza Roosevelt e il New Deal furono davvero una svolta che allontanò le vecchie élite, i baroni di Wall Street, dal potere, creò la società del Welfare State e attorno a essa cementò il blocco di comando Democratico.

Smontarne il mito, oggi, per i Repubblicani è dunque come portare a compimento la «rivincita» liberista iniziata negli anni Ottanta. A molti economisti i tempi sembrano più maturi che in passato, quando la reputazione di FDR e del New Deal resistettero a ogni assalto. Secondo altri, invece, anche il ciclo del liberismo reaganiano avrebbe esaurito la sua spinta propulsiva. Come che sia, spesso economia, politica e cultura hanno tempi sfasati.

Mundell – che si può definire un economista sostanzialmente indipendente – riassume così: Roosevelt «creò la New Deal Society: 70 anni dopo possiamo dire che non fu un bene».