II caos della parola

babeleStudi Cattolici n.617/618
Luglio-Agosto 2012

Pier Giorgio Liverani

Poco meno di vent’anni fa, nell’ottobre del 1993, in una società come la nostra già largamente avviata alla multicaoticità, cominciavano a manifestarsi i primi sintomi di un problema di etica della parola o del linguaggio o, più tecnicamente, di logoetica.

Era il tempo in cui dagli Stati Uniti (i Paesi di impronta anglosassone hanno sempre costituito l’avanguardia del progressismo etico e, in particolare, dell’etica utilitaristica) giungevano a noi le prime informazioni sulla possibilità e sull’«utilità» della clonazione degli embrioni umani a fini di ricerca, di studio sulle cellule staminali, infine di riprodurre individui (animali e uomini) del tutto identici a quelli che li avevano generati.

Si trattava di andare ben oltre la fecondazione artificiale (la cosiddetta Pma), mediante un’operazione tecnologica che non teneva nel minimo conto il senso umano e naturale della procreazione né gli effetti anche psicologici, educativi e culturali di una frantumazione del processo riproduttivo totalmente affidata a mani e apparecchiature estranee non solo ai corpi, ma soprattutto alle persone.

Fu allora che proprio Il manifesto – allora e tuttora «quotidiano comunista» – denunciò, primo nello schieramento laicista, l’esistenza di un’antilingua (1), tacendo però di esserne uno dei maggiori utilizzatori e senza nominarla. Vale la pena di rileggere quella denuncia del tutto imprevedibile su quelle pagine: «Come è possibile una consapevolezza sociale […] se non si dice che quegli embrioni segmentati sono un altro passo nel controllo tecnologico della riproduzione, sempre più svincolato dal corpo e mente di donna, in primis, e di uomo? […] E si tace che questa facoltà di segmentare i processi procreativi, di frantumare le strutture parentali, provoca via via la perdita del “senso del nascere” […]. La verità è che la maternità va nella soffitta, del pensiero in primo luogo, non a caso in questa occasione nessuno l’ha nominata e pochi la nominano, preferendo parlare di tecnologia “riproduttiva”. Si assiste a un progressivo slittamento da un lessico e da uno scenario “soggettivo” (la maternità, la paternità, la filiazione) a uno obiettivamente centrato sul “come riprodurre”, mettendo al centro la meccanica, la tecnologia appunto, e i segmenti di quel processo (l’embrione, gli embrioni)».

Il manifesto restava del parere che l’umanità del nascituro non fosse innata, bensì dipendesse dalla sua accettazione da parte della madre, ma concludeva: «E insieme al nome della madre, se ne va con lei quel complesso, di desideri, di proiezioni fantastiche, di aspettative sociali, di costruzioni simboliche che rendono “umano” quell’embrione, che lo fanno figlio appunto, distinguendolo dalla riproduzione del vitello…».

Quell’intervento che, nonostante la riserva circa le «costruzioni simboliche», aveva una sua verità forse troppo profonda per chi lo aveva compiuto, ma anche un suo fascino, è restato fino a oggi del tutto estraneo ai molti temi etici che riguardano i diversi trattamenti della vita. In qualche modo, però, ha cominciato a produrre alcuni frutti davanti ai concreti pericoli che il linguaggio sta correndo ormai da molto tempo e in connessione con tutti gli altri problemi che l’uso ipocrita delle parole comporta, anche oltre l’ambito della vita che interessa tutti noi: il linguaggio perde ogni giorno la sua veracità e minaccia addirittura di trasformare la realtà almeno nella soggettività della sua percezione.

Alcune «perle»

Questa riflessione sul caos delle parole (e anche in relazione al tema della prossima Giornata mondiale delle comunicazioni sociali: «Silenzio e Parola: cammino di evangelizzazione») può iniziarsi dalla seguente piccola perla: «Gli antropologi sanno bene che tribù e lingua sono quasi la stessa cosa e questa tribù da cui tutti discendiamo doveva parlare una lingua sola, da cui devono essere derivate tutte quelle esistenti oggi».

È stato scritto su La Repubblica ed è forse la prima volta che Luca e Francesco Cavalli-Sferza, la più nota coppia «laica» e verticale (nel senso di padre e figlio) di antropologi evoluzionisti, si mostrano almeno in un punto d’accordo con la Bibbia.

Nella Genesi sta scritto infatti, come tutti sanno, che, prima di Babele, «tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole» (11, 1). Oggi, invece, non solo le lingue si sono moltiplicate raggiungendo il numero di 6.700 (e questo non è un dramma, purché restino veritiere), ma sembra che l’umanità sia arrivata alla «guerra delle parole» (2).

Altro che il silenzio che valorizza la parola… Un’antica femminista ha scritto che «la lunga marcia delle donne […] per ottenere eguaglianza, libertà e un posto nel mondo è finita in un paradosso»: il passaggio «dal femminismo alle veline». E mestamente precisava che «lo slogan femminista “il corpo è mio e lo gestisco io” si è ribaltato in una forma di schiavitù volontaria […]. Abbiamo rivoltato il significato delle parole».

Qua e là sui media progressisti e laicisti è abbastanza facile registrare gli inizi di una specie di esame di coscienza sull’uso delle parole non confessato e di una conseguente revisione. Per esempio, Gustavo Zagrebelsky, presidente emerito della Corte costituzionale, in un libro Sulla lingua del tempo presente (Einaudi — lui la chiama Lingua Nostrae Aetatis), scrive che i processi, ritenuti evolutivi, del linguaggio comune, mostrano ormai «i fenomeni allarmanti dell’omologazione linguistica» che, mediante «meccanismi mistificatori nascosti nel lessico della propaganda politica, contamina la vita civile attraverso parole che si insinuano subdolamente nella coscienza dei cittadini spingendoli sulla strada del pensiero unico».

Anche Ritanna Armeni si è accorta che «le parole sono cambiate, hanno cambiato senso e significato». In Parola di donna (Ponte alle Grazie) ha raccolto «cento definizioni date da cento donne diverse per cento parole diverse» scelte fra quelle che in misura maggiore dovrebbero «far capire come il cambiamento della nostra società sia stato trainato dalle donne».

Tanto cambiata la società che novantanove delle cento intervistate non hanno citato «matrimonio» tra le parole per loro significative. Se la centesima non gliel’avesse fatto notare, donna Ritanna (lo ha confessato) non se ne sarebbe accorta.

Osservazione scontata della Armeni: «Da sempre chi controlla il linguaggio controlla anche la cultura e, in ultima analisi, il pensiero dominante». Le parole, insomma, «hanno perso significato perché le abbiamo consumate con usi impropri, eccessivi o anche solo inconsapevoli […]. È necessario smontarle e controllare cosa non funziona» (Gianrico Carofiglio, magistrato, scrittore e parlamentare, nel suo La manomissione delle parole, Rizzoli).

Infine si sono «ammalate»: lo riconosce, ancora una volta // manifesto (3), recensendo un saggio della linguista tedesca Uwe Pòrksen: Parole di plastica (Textus). Ancora più categorico José Saramago, Nobel 1998 per la letteratura, nel suo ultimo lavoro prima della morte: «Le parole hanno smesso di comunicare» (4).

La paura di dire

Insomma, il mondo «laico» (ormai anche questo lemma, rubato ai cristiani, appartiene all’antilingua) sembra cominciare ad allarmarsi. Tuttavia l’antilingua è data soltanto come un sottile disegno per modificare radicalmente (e certo anche intenzionalmente) la cultura dell’Occidente giudaico-cristiano.

Quel mondo, cioè, fa vedere di essere giunto finalmente a scoprire l’esistenza di una tecnica di comunicazione che può servire al «progresso», ma può anche generare confusione e incomunicabilità. Mostra, però, di non avere (o piuttosto non ammette di avere) la piena contezza della sua realtà, della sua ingannevole comunicazione.

Così prosegue nel suo disegno eversivo dei significati che l’Antilingua nasconde («Parole dette per non dire quello che si ha paura di dire») e delle sue conseguenze provocate sul diritto e sull’etica pubblica e privata (5), che finisce per cadere nell’indifferenza generale. È quello che accade con l’uso delle parole dell’Antilingua, create per ingannare.

Ecco, allora, un sintetico e parziale aggiornamento del Dizionario dell’Antilingua (6). Alcuni lemmi (per esempio aborto) ne fanno parte, ovviamente, sin dalla sua prima edizione, ma qui sono arricchiti con ulteriori nuove definizioni. Lo spazio, purtroppo, ci concede soltanto un assaggio, in attesa di un’altra occasione.

1) 31 ottobre 1993.

2) La Repubblica, 8 gennaio 2007.

3) 19  febbraio  2012, nel  supplemento Alias.

4) È uno dei testi del libro Parole di libertà, consegnato all’editore (SE) pochi giorni prima di morire (18 giugno 2011).

5) II quotidiano Libero ne ha fatto un grosso titolo polemico — «L’Antilingua», tutto maiuscolo – per denunciare l’uso partigiano che Gustavo Zagrebelsky ne avrebbe fatto il 6 novembre, a Firenze, sulla «neolingua dell’età berlusconiana» (scendere in campo, governo del fare, partito dell’amore, presidente operaio ecc.), ma ignorando totalmente la vera antilingua.

6) La seconda versione del Dizionario è pubblicata, come appendice, nel volume di P. G. Liverani La società multicaotica, Ares. Milano 2005

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Dizionario dell’Antilingua (Supplemento)

aborto: «L’aborto volontario può essere una risposta morale positiva (cioè “buona”) alla sconfitta della donna nella sua relazione con l’uomo o/e nel conflitto tra il biologico e l’umano, che attraversa il suo corpo». Oppure: «Può essere un’azione morale che restaura la verità della donna di fronte alle sopraffazioni della sua libertà di persona» (Franca Bimbi, deputata Pd e presidente Commissione Politiche Europee, su / ‘Unità).

Oppure ancora: «II campo d’esercizio di una libertà relazionale all’interno di una rete di rapporti affettivi e sociali» ed «esperienza femminile connessa alla sfera della sessualità» (Ida Dominijanni, Il manifesto).

co-madre: Una delle due o più «madri» di un bambino nato dall’ovulo di una donna e gestato da un’altra per conto di una terza, quella per la quale le prime due hanno cooperato (vedi Paternità femminile).

diritto alla genitorialità: Questo nuovo «diritto civile» è la base pseudo-giuridica su cui si fondano la richiesta della fecondazione artificiale nelle sue varie forme e il «diritto» degli omosessuali di adire al matrimonio (vedi più avanti) e all’adozione come alle possibili forme di «procreazione assistita».

eutanasia del linguaggio: Questa espressione costituisce una sorta di contrapposizione al concetto di Antilingua. È stata usata da Liberazione (che ancora si autodefinisce «Giornale comunista») per polemizzare con il Glossario che il sottosegretario alla Salute Eugenia Roccella ha curato per «definire i termini chiave circa lo stato vegetativo permanente» (invece di «persistente»). Il bioeticista «laico» Maurizio Mori, presidente della Consulta di bioetica (organismo privato e laicista) asserisce che «dando il nome alle cose si vuole dare una rassicurazione ai cittadini turbati dicendo loro che non devono preoccuparsi di niente». Se fosse davvero così sarebbe l’esatto contrario dell’Antilingua.

interruzione volontaria della propria sopravvivenza: (Da una proposta di legge radicale) È l’adattamento all’eutanasia della formula a suo tempo applicata all’aborto per evitare ogni evocazione di sentimenti e di giudizi, relegando la definizione di aborto, con tutta la sua carica di riprovazione, esclusivamente all’aborto clandestino.

matrimonio: Non è più l’unione stabile di un uomo e di una donna che assumono la responsabilità di generare figli per la società, ma una convivenza di maschio e femmina oppure un accoppiamento (impossibile) tra due persone del medesimo sesso.

paternità femminile: Designa la madre genetica per distinguerla dalla madre gestante che la maternità surrogata comporta.

salute laica: È l’aborto, considerato appunto come un aspetto o un momento della «salute laica».

selezione genetica: II nuovo nome dell’eugenetica applicata alla selezione degli embrioni con conseguente condanna a morte degli esclusi.

terapia innovativa di riprogrammazione genetica: La clonazione: il ginecologo Severino Antinori preferisce chiamarla così (intervista a Il Giornale).

vita umana biologica: L’ovulo fecondato, che in realtà è già un essere umano concepito e bene individuato, invece «è vita umana, ma non persona umana. Il passaggio da vita a persona avviene nel tempo» (Franca Bimbi). Ci sarà dunque, dapprima un po’ di persona -diciamo un 3%? – che poi crescerà in percentuale fino a essere un quarto di persona, mezza persona e così via…