Da Usain Bolt a Oscar Pistorius, una lezione dalle Olimpiadi di Londra

BoltOsservatore Romano, 9 agosto 2012

Carlo Bellieni

Gli allori olimpici stanno trasmettendo emozioni forti a tutto il mondo. Finalmente vediamo che il diametro dello sport è maggiore di quello ben più ristretto che tutto l’anno finisce con l’appassionarci sotto la pressione dei media e degli sponsor.

Impressionanti sono stati, finora, i record e la semplicità del velocista Usain Bolt, il coraggio degli schermitori, le lacrime di chi ha perso il podio per un minimo errore, così come l’emozione del quattrocentista Oscar Pistorius, fermatosi alla semifinale ma con una storia di disabilità e di conseguente formidabile agonismo. Anche attraverso lui abbiamo scoperto che i record non dipendono solo «dall’essere superdotati» ma, come spiega l’allenatore Carmichael sulla rivista «Time», da «una semplice formula: vince chi vuole lavorare più intensamente di chiunque altro » .

Ecco ora le Paralimpiadi, che inizieranno a Londra il 27 agosto, palcoscenico di atletica e di agonismo per nulla inferiore alla manifestazione principale, e di cui si auspica un ulteriore avvicinamento, fino a una vera e propria fusione, come peraltro si augura anche il presidente del comitato organizzatore dei giochi londinesi, Lord Sebastian Coe.

Lo sport paralimpico si è evoluto dal dopoguerra, quando fu inventato per la riabilitazione dei soldati americani invalidi. Ora non è più solo occasione di recupero fisico, ma momento di eccellenza agonistica «che porta un prestigio intrinseco», come sottolinea il «Journal of the Royal Society for the Promotion of Health».

L’avvicinamento e la fusione temporale e spaziale con le olimpiadi sarebbe salutare, per far trionfare un agonismo più autentico sullo spettacolo fine a se stesso e condizionato da pressioni esterne che dettano ritmi e orari. Questo incalzare ha portato all’introduzione nel 1992 del professionismo alle Olimpiadi: fino ad allora — forse con eccessivo rigore — si poteva essere esclusi per aver vinto in precedenza una gara a premi.

Ha anche alterato, in discipline come il tennis, il giusto equilibrio tra agonismo, sportività e ironia, introducendo sofisticati strumenti tecnici per stabilire se una palla oltrepassa o sfiora una riga del campo. E ha fatto entrare in gioco termini come “acquisto” e “mercato” quando si parla di atleti, cioè di persone.

Ma quando il mercato irrompe nell’agonismo cambiano le regole. E i media seguono a ruota, anche nel modo di trattare lo sport: ma quale sport? Nella società che accetta solo prodotti prestabiliti e facilmente digeribili, discipline meno note, anche se non sempre meno popolari, scompaiono, salvo essere riportate sugli schermi ogni quattro anni proprio dalle Olimpiadi.

Così, bene ha fatto l‘emittente Mtv a dedicare per mesi una serie televisiva — intitolata «Ginnaste, vite parallele» — alla quotidianità delle giovanissime atlete della squadra italiana di ginnastica artistica, in cui si vede quello che normalmente in televisione non passa: la fatica della preparazione continua e costante, le lacrime per un errore o un infortunio, la gioia per una vittoria più o meno importante e prestigiosa.

Noi facciamo il tifo per lo sport: dai mondiali di calcio al badminton, dallo sci per atleti privi di arti al superbowl. Non esistono uno sport per normodotati e uno sport per disabili, proprio perché non ci sono uno sport maggiore e uno sport minore. E soprattutto perché non esistono «persone meno persone» o «sport meno sport» di altri. Di questo i media devono tener conto, per non venire meno alla loro missione.

Le Olimpiadi stanno affascinando miliardi di persone; dovrebbero essere le autorità sportive e i media a tramutarle in un punto di partenza per avvicinare più gente possibile allo sport, e far capire che tutti, ma proprio tutti — anche se non saliremo mai su un podio nella nostra vita — abbiamo affascinanti risorse da offrire agli altri.