Francois Rouleau: regole per dialogare con un ideologo

KoreaL’Altra Europa (bimestrale del Centro Russia Cristiana ) n. 1 (205)-1986

Come spiegare ieri lo scacco dei negoziati con Hitler, Monaco compresa? Come spiegare oggi la difficoltà del dialogo Est-Ovest, e più ancora la sensazione finale di delusione? Ciò che sconcerta non è la durezza delle discussioni — che è una cosa normale in ogni autentico negoziato — ma il risultato finale, che lascia il problema fondamentale intatto: al termine della discussione ci si ritrova o al punto di partenza o di fronte a una nuova serie di esigenze. Come spiegare questo dato di fatto?

1) I poteri ideologici dichiarano sempre in anticipo ciò che hanno intenzione di fare e perché: non sarebbero più ideologici se non seguissero con una coerenza necessitante la loro teoria. Ma noi rifiutiamo di credere a quello che dicono: nessuno ha voluto prendere sul serio il Mein Kampf che pure era stato assolutamente e totalmente chiaro. Oggi il comunismo ci spiega che è lui il futuro del mondo e che non ve ne può essere un altro dato che il comunismo pretende appunto di essere la scienza.

Le cose non potrebbero essere più chiare, ma noi ci rifiutiamo di ascoltare, e così finiamo inevitabilmente per meravigliarci quando Hitler o i comunisti fanno quello che avevano sempre detto di voler fare.

2) La lingua utilizzata da un regime ideologico ha un’importanza decisiva che dipende dalla natura stessa di questi sistemi derivati dall’idealismo: per loro tutto il reale è razionale e tutto il razionale è reale. È di qui che viene il primato della lingua, che riguarda sia la teoria sia la pratica. È la lingua a esprimere la superiorità del sistema che pretende di essere l’unico capace di risolvere scientificamente tutti i problemi del nostro tempo.

E poi è sempre questa lingua ideologica il principale strumento utilizzato per mettere in opera questa superiorità: è lei che detta ogni condotta futura. Un regime ideologico trae la propria forza da questa pretesa di dire una verità indiscutibile e di saperla realizzare con efficacia. Discutere con un ideologo senza sapere che parla una lingua diversa dalla nostra significa credere soltanto di capirsi.

3) La lingua ideologica, solitamente chiamata «lingua di legno», è un insieme di formule o di principi più o meno generali dotati di una caratteristica comune: implicano tutti un elemento di verità inevitabilmente accompagnato da qualcosa di falso. Una sorta di chimera che avrebbe un volto umano e un corpo di serpente. È questa mistura di vero e di falso che rende così seducente il sistema: appigliandosi alla parte di verità inclusa nel principio, ci si mette a rimorchio della sua parte di falsità.

Tra i principi che giocano su questa mistura di vero e di falso possiamo ricordare: «la difesa della pace» (che maschera i preparativi per la guerra), «il partito come coscienza della classe operaia» (formula che nasconde il disprezzo per gli interessi del popolo), «il centralismo democratico» (che nasconde la dittatura di una casta), «il carattere scientifico del sistema» (che maschera una pura utopia) ecc.

4) In realtà, però, l’ambiguità del sistema non dipende tanto da questa mistura di vero e di falso ma dal carattere irreale della teoria. La teoria ideologica è caratterizzata dalla sua generosità sul piano dei principi: essa pretende di por fine una volta per tutte allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E chi potrebbe non augurarsi un risultato di tale portata? In questo senso ciò che distingue innanzitutto l’ideologia non è tanto la falsità quanto il suo carattere irreale: è falsa a forza di essere irreale.

L’ideologia ci vuoi far credere che la questione si giochi sul piano della generosità mentre di fatto si gioca sul piano del reale. È questo il punto critico. Sono note le parole di Maritain che voleva che l’uomo avesse «lo spirito duro ma il cuore tenero»; l’ideologo, invece, che avrà il cuore duro, vuole uno spirito tenero.

5) Ciò che rende tanto pericolosa la mentalità ideologica è appunto questo scivolamento dalla teoria, ideale e seducente, a una pratica dura e inumana. Più esattamente si tratta della distanza che separa l’affermazione continuamente ripetuta dei principi seducenti della teoria (ortodossia) dalla loro aperta violazione nella prassi quotidiana, perpetrata con il pretesto del realismo (ortoprassia).

La teoria (spesso formulata in termini rispettabili) si articola su una pratica che può anche essere corretta per un certo tempo, ma che conduce inevitabilmente a degli atti inaccettabili: i diritti dell’uomo vengono affermati come trincipio, ma la prassi normale è quella di rinchiudere i dissidenti negli ospedali psichiatrici.

Si deve qui aggiungere, anche solo per inciso, un problema o meglio una distinzione che non deve comunque essere dimenticata: prima della presa del potere ci si deve certo accontentare di studiare il sistema servendosi unicamente della sua teoria, ma continuare a far riferimento soltanto alla teoria anche dopo la presa del potere significa condannarsi a un’interpretazione assolutamente erronea: sarebbe come se si volesse capire l’Unione Sovietica limitandosi a leggere il solo Marx.

6) Si vuoi dire con ciò che la distanza che separa teoria e pratica è il carattere precipuo dei regimi ideologici? È ovvio e risaputo che ci sarà sempre uno iato tra i nostri principi e le nostre azioni. E in questo senso non c’è differenza tra gli uomini, quale che sia il loro sistema concettuale o il loro sistema politico: ideologico o no. «Infatti io non faccio il bene che voglio, ma faccio il male che non voglio» (Rm. 1, 19).

Tuttavia, questa distanza tra i principi e le azioni è di natura diversa a seconda che si tratti di un regime ideologico o non ideologico, democratico, per intenderci. In regime di democrazia questa distanza è di ordine morale, in un regime ideologico è di ordine strutturale. In un regime democratico la distanza dipende dall’infedeltà dell’uomo a un ideale reale; in un regime ideologico dipende, a parte ogni altra considerazione, dal carattere irreale dell’ideale.

7) Per un ideologo una tregua con l’avversario è sempre ammissibile, ma non vi può essere alcuna pace durevole. Ciò cui si aspira non è un compromesso che riconosca la legittimità degli interessi dell’avversario (come in un negoziato classico): l’esito non può essere che la vittoria completa raggiunta attraverso l’annientamento dell’avversario (il quale non ha posto nel mondo nuovo che si vuole creare).

La «guerra fredda» o la «politica di distensione» sono due forme di una stessa politica, due fasi di uno stesso processo. È così per delle ragioni teoriche: perché la realtà è dialettica e perché lo sviluppo della società comunista si realizza progressivamente. È così per delle ragioni pratiche: perché la guerra fredda non serve ad altro se non a recuperare un ritardo sull’avversario e perché la distensione non serve ad altro se non a consolidare una supremazia.

8) II carattere specifico dell’ideologo è quello di cominciare sempre con l’affermazione dei propri principi, della propria teoria, perché questa teoria gli conferisce una superiorità indiscutibile: essa sola, infatti, possiede un carattere scientifico. Una volta che si sia.concessa questa superiorità all’ideologia — anche tacitamente — la partita è praticamente perduta in partenza: anche se poi si avanzano delle riserve su questi principi, sono loro che di fatto hanno dominato la discussione.

Non si deve dimenticare quello che Chruscev disse a Kennedy «Quello che è nostro (sovietico) è nostro, quello che è vostro (americano) è da discutere». Questa formula può sorprendere solo chi non abbia neppure la benché minima idea di quello che è la mentalità ideologica. Per quest’ultima, infatti, siamo tutti dei comunisti in potenza, il cui destino è quello di operare a favore del comunismo, dato che quest’ultimo è la legge che governa il mondo.

Questo per la teoria; quanto alla pratica dei negoziati, bisogna ricordare che se negli altri regimi vige il gioco dei compromessi tra interessi diversi e divergenti, l’ideologia, invece, ha il privilegio di formulare l’unica soluzione «valida». Chi non è ideologo può credere che la discussione consista nell’analizzare i punti della controversia; l’ideologo sa in partenza che essa non può che giustificare la sua soluzione. In breve, l’ideologo ha diritto a un vantaggio per il quale non deve dare nulla in cambio dato che gli interessi del suo avversario sono illegittimi. Discutere con un ideologo dimenticando questi presupposti significa condannarsi ad amare disillusioni.

9) Ogni discussione con un ideologo deve quindi aprirsi con una chiara negazione o rifiuto dei principi dell’ideologia: rifiuto del sistema (della teoria) ma anche apertura a una discussione che concerna le condizioni oggettive della controversia (il reale). Si deve rifiutare il dialogo con l’ideologia ma si deve senz’altro discutere con l’ideologo: si deve accogliere l’uomo, ma non vi possono essere compromessi con una teoria falsa.

Ogni negoziato con un ideologo, prima di affrontare le questioni pratiche, deve dunque situarsi innanzitutto sul piano teorico. Questo ordine è contrario a tutte le abitudini democratiche e al modo in cui vengono regolati, da sempre, i rapporti tra gli uomini. Di solito, infatti, si comincia con il cercare un terreno d’intesa, per cercare di ridurre poi, passo dopo passo, il contenzioso; ma questo metodo è destinato all’insuccesso quando si tratta di un ideologo: gli si è infatti concessa in partenza una superiorità di diritto, tanto indiscutibile quanto lo è la scienza.

10) Questo rifiuto preliminare dell’ideologia implica che il dialogo debba aprirsi con una violenza verbale o con uno scontro grossolano? Certamente no, ma la cortesia non è incompatibile con la fermezza. Il rifiuto dei principi dell’ideologia, anzi, deve avvenire nel rispetto delle persone.

Questo equilibrio tra fermezza nei confronti della dottrina e rispetto pieno di cortesia nei confronti delle persone si instaurerà in maniera del tutto naturale quando si sarà compreso che questo doppio atteggiamento è l’unico adeguato: esso rappresenta la risposta commisurata al sistema.

11) L’atteggiamento qui preconizzato non è una pura astrazione teorica: è già stato utilizzato e ha già portato dei frutti sostanziali. Anche se a ben vedere, fra gli uomini che hanno avuto una responsabilità politica di rilievo, si può citare un unico caso: quello del cardinale Stepan Wyszyriski. Nella sua opera al servizio della Chiesa polacca, il cardinale primate ha sempre unito il rifiuto più assoluto dei principi del comunismo con una volontà di negoziare nel rispetto delle persone. È l’atteggiamento classico della Chiesa: «intransigente con il peccato, comprensiva con il peccatore».

E’ probabilmente impossibile precisare con esattezza ciò che ha ispirato l’atteggiamento del cardinale: difficile dire se è stato dettato da un’analisi razionale o da un’intuizione del sistema. È un problema aperto. Ciò che resta indiscutibile è la giustezza dell’atteggiamento e la sua efficacia.

Il cardinale Wyszynski è l’unico uomo che abbia saputo trattare con successo con il potere ideologico: in qualche caso è riuscito a farlo indietreggiare, spesso è riuscito a contenerlo, e in ogni caso è riuscito, nella società polacca, a preservare uno spazio di libertà che ha reso possibile la nascita di Solidarnosc.

Non abbiamo certo la pretesa di sostenere che questa politica sia stata del tutto priva di errori e di carenze. La politica del primate di Polonia è stata flessibile e diversificata: talora lo si è addirittura rimproverato di essere stato troppo arrendevole nei confronti del potere. Ciò che è rimasto immutabile, però, è il giudizio di fondo sul regime e la netta formulazione di questo giudizio: l’iniquità del sistema non è mai stata sottaciuta, neppure adducendo come pretesto la necessità di avere riguardo per l’interlocutore. E i frutti di questa intransigenza nella designazione del male sono senz’altro degni di considerazione.

12) II sottrarsi a questa denuncia chiara e ferma del male ideologico sta ad indicare innanzitutto che non ci si è fatti un’idea precisa dell’avversario, e non avere le idee chiare sul conto dell’avversario è sempre molto pericoloso. Ma c’è anche qualcosa di peggio: non rifiutare la ideologia sin dall’inizio significa conferirle una dignità politica che essa non ha; significa normalizzare questo male e, in ultima analisi, demonizzare l’ordine politico nella sua totalità.

Così si finisce per fare il gioco degli ideologi che vogliono appunto condannare, come radicalmente cattivo, il mondo esistente in modo d’avere il diritto e il dovere di distruggerlo. Per dirla in breve, dopo essersi ingannati sul conto del nemico, si finisce inconsciamente col lavorare per lui e col preparargli il terreno.

Come è possibile che il dialogo con l’ideologia porti a uno stravolgimento di tale portata? Basta rendersi conto di quello che è avvenuto lungo il tragitto: si voleva dialogare con l’ideologia ma, di fatto, ci si è lasciati ideologizzare. Come? Si è ideologizzato il dialogo. È il dialogo stesso a essere diventato un’ideologia: da mezzo che era è diventato un fine. E a questo punto tutto è stato falsato.

Per dire la stessa cosa in altri termini più morali, si tratta di capire che, cammin facendo, si è finito con il dimenticare la distinzione elementare tra il peccato e il peccatore, tra l’ideologia e l’ideologo. Ora, se si deve sempre essere buoni con il peccatore, si deve anche restare intransigenti con il peccato. Non v’è dialogo possibile con il male. Più si dialoga con il peccatore o con l’ideologo e meno si deve scendere a patti con il male e con l’ideologia. Dimenticare questo «dettaglio» significa lasciare che sia l’ideologia a guidare il gioco: significa prendere la strada che dall’errore porta al crimine.