Guardini e l’aborto

abortoCorriere della Sera 8 maggio 2005

Il problemi dell’uso dell’embrione, che a noi sembrano sorti con le tecniche di procreazione assistita, agli occhi di Guardini erano già tutti presenti al momento della legislazione tedesca sull’aborto, e s’intrecciano con la consapevolezza storica del recentissimo passato nazista, il quale impedisce di vedere che “ogni violazione della persona, specialmente quando s’effettua sotto l’egida della legge, prepara lo Stato totalitario”.

di Lucetta Scaraffia

Sembra scritto per l’acceso dibattito che sta precedendo il referendum sulla legge 40 questo piccolo ma intenso saggio del filosofo e teologo tedesco Romano Guardini (Il diritto alla vita prima della nascita, Morcelliana) scritto nel 1947 – quando fu presentata al parlamento tedesco la legge sull’interruzione volontaria di gravidanza – e pubblicato nel 1949.

Stupisce per lo sguardo acuto, per la capacità di trattare temi complessi come la dignità dell’uomo e i modi in cui la vita dev’essere salvaguardata, per la pacata lucidità e la chiarezza che i contendenti di oggi di rado sanno raggiungere. Stupisce anche perché difende la sua posizione senza mai ricorrere ad argomenti religiosi.

I problemi dell’uso dell’embrione, che a noi sembrano sorti con le tecniche di procreazione esistita, agli occhi di Guardini erano già tutti presenti al momento della legislazione tedesca sull’aborto, e s’intrecciano con la consapevolezza storica del recentissimo passato nazista, il quale impedisce di vedere che “ogni violazione della persona, specialmente quando s’effettua sotto l’egida della legge, prepara lo Stato totalitario”.

Il ragionamento del filosofo inizia smontando l’obiezione che l’aborto sia una questione di competenza degli esperti – giuristi, medici, sociologi – mentre è problema che “riguarda l’intero rapporto del singolo con la società, investendo il carattere fondamentale dell’esistenza umana”.

E prosegue contrapponendo la moderna “concezione dell’uomo quale unico responsabile e padrone della propria esistenza” con “il senso prima vivissimo della fondamentale intangibilità della vita umana”. Nel valutare questi due diversi modi di giudicare Guardini considera centrale il ruolo del nazismo, responsabile di avere stabilito l’eliminazione dei disabili, a cui sarebbe seguita quella dei malati inguaribili e dei vecchi, di quanti cioè non erano più “utili” alla società, ma costituivano un peso, un danno: “se si comincia a considerare il danno come una ragion sufficiente per violare la vita umana, non si può più tener fermo nessun limite in maniera convincente”.

Il filosofo è infatti fortemente convinto che “il rispetto dell’uomo in quanto persona è una delle esigenze che non ammettono discussione: ne dipendono la dignità, ma anche il benessere e alla fine la durata dell’umanità. Se questa esigenza viene messa in forse, si cade nella barbarie”.

Guardini risponde, con anticipo, alla pretesa delle donne di essere padrone assolute del proprio corpo, e quindi anche del figlio che vi è racchiuso: “la donna non ha il diritto di disporre del proprio corpo, non è padrona della vita in divenire, ma questa le è affidata; in sostanza non ha su di essa maggiori diritti di quanto ne abbia un qualsiasi essere umano su un altro essere umano”.

Anche su questo ritorna il parallelo con il nazismo: “l’affermazione che il figlio nel grembo della madre sia semplicemente una parte del corpo di lei, equivale a quella che l’uomo sia nello Stato una semplice parte del tutto” e quindi “questa opinione deve egualmente concedere allo Stato il diritto di disporre degli uomini che ne fanno parte”.

Un intero capitolo è dedicato alla questione dell’embrione, se cioè questo possa essere considerato un essere umano fin dal primo momento del suo sviluppo. Guardini risponde che l’organismo si manifesta in forma sia sincronica che diacronica, secondo gli stadi in cui è passato o deve ancora passare l’essere umano. E che entrambe le forme, quella strutturale e quella del divenire, “si coappartengono, vale a dire rappresentano entrambe appunto l’organismo, la prima nello spazio, l’altra nel tempo.

In entrambi i casi si tratta di una unità indivisibile” perché l’uomo “è la totalità della sua esistenza, che non è soltanto natura, ma anche storia, che non possiede soltanto uno sviluppo, ma anche un destino”. Se si rifiuta questa realtà, se si considera l’essere umano non un carattere essenziale, ma qualcosa che è dato in grado superiore o inferiore, si finisce fatalmente con il costruire una graduatoria, applicabile non solo alla fase embrionale, ma a tutte le parti del complesso vitale.

La distanza dall’optimum si può dunque manifestare sia nella decadenza della vecchiaia sia nelle menomazioni e nelle malattie, cosicché “quanto più un individuo è malato, debole, sventurato, tanto meno può pretendere al carattere di vero essere umano”.

In perfetta analogia con il concetto, originariamente nazista,  di “vita non degna di essere vissuta”. La difesa della vita in Guardini coincide con la difesa dell’umanità dalla barbarie, appena sperimentata nella dittatura hitleriana, e il suo lucido ragionare mette in guardia da ripetere gli stessi errori, perché “le azioni sbagliate, anche se appaiono utili, alla fine conducono alla rovina”. Confutando chi sostiene che l’aborto, la selezione degli embrioni e il loro uso a fini di ricerca sono libere decisioni individuali e non coercizione dello Stato, come al tempo del nazismo. La sostanza, sostiene Guardini, è la stessa e uguale il pericolo di barbarie.