Le ragioni del patriottismo

bandiera_ItaliaStudi Cattolici n.612 febbraio 2012

di Pietro Soriani

Parlare di patriottismo oggi in Italia è considerato politicamente scorretto. Infatti, quasi nessuno lo fa, se non in occasioni particolari e circoscritte. Per esempio i giornali, a proposito di partite di calcio o di altri eventi sportivi. Oppure il Presidente della Repubblica, per promuovere l’inno nazionale o per celebrare i 150 anni dell’unità d’Italia. Mai che qualcuno si preoccupi di spiegare l’importanza del patriottismo nella vita del nostro Paese (come in quella di tutti gli altri) e perché esso possa aiutarci a superare le nostre attuali difficoltà.

Naturalmente la spiegazione implicita in questo atteggiamento sta nell’associazione tra patriottismo e fascismo, quasi che dal primo discenda necessariamente il secondo e che entrambi vadano perciò accomunati in una stessa condanna. Ma non c’è tra i due fenomeni una relazione di causa ed effetto: si tratta di cose intrinsecamente diverse, tanto che nel mondo ci sono stati e ci sono – Paesi patriottici e perfino nazionalisti che non si possono definire fascisti. Un altro equivoco da sfatare è quello di attribuire al patriottismo una connotazione di destra, mentre esso appartiene indifferentemente a regimi democratici come a governi di sinistra. Basti per tutti l’esempio della Cina.

Il patriottismo è un fenomeno apolitico, proprio di tutte le aggregazioni sociali; ed è tanto più forte quanto più esse sono compatte. Esso è un elemento di aggregazione che agisce in piccole comunità locali, sostanzialmente omogenee; o, viceversa, in grandi conglomerati multietnici, come la Russia o gli Stati Uniti. In passato, era sovente limitato entro i confini di una città o di una regione; e quando si allargava fino a comprendere un intero Stato, aveva caratteristiche molto diverse da quelle odierne. Gli Stati, fino a un paio di secoli fa, erano condizionati da vittorie militari, combinazioni dinastiche o appartenenze religiose («cuius regio, eius religio»); i confini erano spesso arbitrar!, i popoli appartenevano a ceppi diversi e differenti erano, all’interno dello stesso Stato, le lingue e le tradizioni.

Non bastano i colori

II patriottismo ha preso corpo con l’affermazione in Europa dello Stato-Nazione, da cui sono derivate le guerre d’indipendenza dell’Ottocento; e si è generalizzato nel secolo scorso, dopo la Prima guerra mondiale (con il disfacimento dell’impero asburgico e di quello ottomano) e dopo la Seconda (con la disgregazione dell’impero sovietico e poi del blocco balcanico). È sufficiente, per rendersene conto, confrontare una carta politica dell’Europa di cento o duecento armi fa con quella di oggi: non bastano i colori per rappresentare la variegata situazione attuale.

L’Italia è stata uno dei Paesi coinvolti in questa gigantesca opera di risistemazione storica: dopo aver completato nel 1918 la sua unificazione, ha dovuto subire nel 1945, a causa della sconfitta, qualche dolorosa mutilazione. Lo Stato-Nazione è una costruzione giuridica che poggia su tre pilastri: un popolo, un territorio e una lingua (cui si aggiungono due elementi rappresentativi, ma di forte significato simbolico: l’inno e la bandiera). Il patriottismo appartiene invece a una categoria culturale, che serve da collante all’intera costruzione.

E’ interessante constatare come, in certi Paesi, esso abbia fatto seguito alla creazione dello Stato nazionale, mentre in altri l’abbia preceduta. Il suo secolo d’oro è stato l’Ottocento, dopo la crisi dei regimi monarchici e del potere temporale della Chiesa. È stato allora che, in tutto il mondo, sono andati affermandosi sistemi politici più rappresentativi.

Il Paese che più ha contribuito alla nascita e all’affermazione del patriottismo è stata la Germania, che agli inizi del secolo era ancora divisa. Esso è andato di pari passo con un altro fenomeno tipicamente tedesco: il romanticismo. Nella letteratura, nella musica, negli studi storici e filosofici si è manifestata la ricerca e la valorizzazione di un destino nazionale fondato su tradizioni e valori comuni.

È nato in quegli anni l’amore per la natura, che poi si ritroverà nel secolo successivo; l’esaltazione dell’amicizia, soprattutto a livello studentesco, con la creazione delle confraternite universitarie (con i rispettivi riti, come quello della mensura, la lotta con la spada a volto scoperto), la diffusione dei lieder, di cui fu maestro Schubert. Tutto era diretto a riscoprire il passato per preparare un futuro più glorioso. Purtroppo, come è tipico del carattere tedesco, il processo è stato portato alle sue estreme conseguenze.

Dal patriottismo si è passati al nazionalismo; l’amore per la patria è sfociato in una diminuzione degli altri popoli, gettando così il seme del razzismo; l’eccellenza culturale ha indotto a coltivare un senso di superiorità. C’è un legame tra la musica di Wa-gner, il pensiero di Nietzsche e la nascita del movimento nazista. Non è un caso che Hitler raccogliesse i suoi primi accoliti in una birreria di Monaco e che uno dei canti più cari al regime fossero i Carmina Burana di Orff, ispirati alle feste studentesche del Medioevo. Certo, il collegamento tra Schubert e Hitler può sembrare arbitrario, ma ha una sua logica.

Lo sbocco che il patriottismo ha avuto in Germania non deve far credere che la stessa cosa possa ripetersi in altri Paesi. Infatti, non si è ripetuta in Francia e in Inghilterra, due Paesi dove pure gli abitanti manifestano un forte amore per la loro terra. Anche in Francia il patriottismo è sfociato nel nazionalismo, dando vita a un’idea di grandeur che ha incoraggiato le guerre e le avventure coloniali, ma l’aspetto bellicoso del carattere francese è sempre stato temperato da una tensione ideale, frutto dell’eredità illuministica e dell’esperienza rivoluzionaria. Napoleone ha commesso molti crimini, ma ha anche diffuso nel mondo il concetto di libertà e dei diritti umani.

Comunque, col passar del tempo, la grandeur si è molto ridimensionata: anche se qualche personaggio politico, come l’attuale presidente della Repubblica Sarkozy, se ne lascia talvolta tentare. Ancora più diversa la situazione in Inghilterra, che anche sotto questo aspetto rivela la sua peculiarità. Che gli inglesi siano patriottici, non c’è alcun dubbio: sono stati loro a coniare lo slogan «right or wrong, my country».

Il loro nazionalismo è dimostrato dal passato coloniale, in cui hanno spesso mostrato disprezzo verso i popoli sottomessi, fossero essi africani, indiani o cinesi. L’inno da essi preferito non era God save the  King, ma Rule Britannia, che esprimeva tutto il loro orgoglio per la potenza della marina di Sua Maestà.

Qualche rigurgito nazionalistico si è avuto anche di recente, come nel conflitto sulle isole Falkland. Ciononostante, il nazionalismo inglese non ha mai prodotto derive antidemocratiche, anzi ha spesso servito la causa della democrazia. L’occupazione coloniale ha lasciato in eredità a molti Paesi una lingua unitaria, un’organizzazione politica e giudiziaria, una rete efficiente di trasporti: l’India ne è l’esempio più eclatante.

E dopo l’indipendenza gli abitanti delle ex colonie sono stati spesso accolti con generosità in Inghilterra, insomma, il senso di superiorità che ancor oggi certi inglesi ostentano verso gli stranieri non si basa su considerazioni di razza o di cultura; e va rapidamente attenuandosi, parallelamente alla perdita di prestigio del Regno Unito.

L’Italia, un caso anomalo

E l’Italia? In realtà nel nostro Paese, il patriottismo non ha mai messo solide radici. Ciò deriva dal fatto che, per una lunga parte della sua storia, l’Italia è stata divisa in vari Stati, molti dei quali sono stati occupati dall’una o dall’altra delle più forti potenze del momento, fossero esse la Spagna, la Francia o l’Austria; e anche quelle che sono riuscite a restare indipendenti, come Venezia, sono state costrette a negoziare con qualche Stato straniero, nella speranza di mantenere un certo equilibrio e assicurarsi così un periodo di pace. Il patriottismo non ha avuto né lo spazio né l’opportunità di svilupparsi.

Non sono mancati gli episodi di rivolta contro gli invasori, ma sono stati di breve durata e di scarso effetto. Mancava inoltre, tra gli Stati italiani, uno che avesse abbastanza forza da imporsi agli altri e, con gli altri, da opporsi allo straniero.

L’occasione si presentò nell’Ottocento con il Regno piemontese; ma anch’esso dovette chiedere l’aiuto della Francia per combattere contro il nemico austriaco. Per questo le Guerre d’indipendenza, più che il risultato di un movimento popolare di liberazione proveniente dal basso, furono concepite da molti come un’imposizione dall’alto, oltretutto realizzata con l’aiuto straniero.

Non è qui il caso di ripercorrere le varie tappe della nostra storia risorgimentale, in cui si inserirono anche i difficili rapporti con Garibaldi e «la questione romana»; quel che ci interessa sottolineare è come, in una situazione talmente intricata, fosse difficile il sorgere di un sentimento patriottico condiviso.

L’assenza di una solida e tranquilla identità nazionale si fece sentire anche nello Stato unitario, in cui si alternarono momenti di esaltazione e di scoraggiamento: anche la Prima guerra mondiale, che si concluse per l’Italia con una vittoria, lasciò un sedimento di delusione che provocò una reazione nazionalistica e l’avvento del fascismo.

La deriva autoritaria si concluse drammaticamente in una sconfitta militare che distrasse la nostra dignità nazionale: il movimento di liberazione non ebbe un’influenza determinante sull’esito dei combattimenti e, soprattutto, non seppe esprimere al suo interno un personaggio di tale autorevolezza da poter trattare con i vincitori. Il patriottismo venne deriso e una parte della popolazione preferì affidarsi all’internazionalismo comunista.

Il resto è storia recente. Il crollo dell’Unione Sovietica ha sdoganato il Partito comunista, ma non l’ha portato a sposare le tesi della socialdemocrazia: ancora recentemente sono emerse in molti dei suoi seguaci simpatie per soluzioni massimaliste. Gli steccati ideologici, a sinistra come a destra, sono rimasti, impedendo l’emergere di una politica unitaria. Anche la presenza della Lega è stato un elemento di contrasto e l’avanzare della crisi economica ha creato tensioni nella sua alleanza con il partito di Berlusconi.

Quest’ultimo poi è diventato il bersaglio di tutti gli scontenti, nel mondo politico, in quello delle imprese e in quello del lavoro. Raramente si è vista una tale unanimità di giudizio, che, dalla scena interna, è tracimato in quella internazionale, con prevedibili contraccolpi nei mercati finanziari.

L’Italia, come già altre volte in passato, è diventata il «malato d’Europa». In questa situazione di sfiducia e di scollamento ci vorrebbe un’idea forte, che potesse ridare al nostro Paese una certa unità e gli permettesse di affrontare i problemi che lo assillano. Ma non si vede dove sia possibile trovarla. La politica non ne è capace, il Presidente della Repubblica è impotente, le parti sociali sono incancrenite dalle polemiche. Qualcuno ha fatto della Costituzione la sua bandiera; ma è un testo troppo vago e contraddittorio per costituire la base di una piattaforma comune.

La soluzione non può che venire dal basso. Non dagli indignados, che non si sa bene che cosa vogliano; piuttosto da un’opinione pubblica che, oggi disorientata, potrebbe trovare domani il modo di esprimersi. E il collante potrebbe essere il patriottismo. Qualche segno già s’intravede. I giornali, almeno quelli più responsabili, chiedono uno scatto dell’orgoglio nazionale. Si moltiplicano i Dazebao di privati cittadini che propongono soluzioni, suggeriscono vie d’uscita, incoraggiano a sacrifici. Si costituiscono comitati che potremmo definire di salute pubblica. Perfino la Chiesa, pur con la sua proverbiale prudenza, incoraggia un’assunzione di responsabilità da parte dei cattolici.

È una reazione alle critiche interne e internazionali, una ribellione ai giudizi troppo severi che sono stati pronunciati sul nostro Paese. Forse è esagerato dire che «l’Italia s’è desta»; ma qualche segno di risveglio c’è.