I nazi-corretti. Così tolleranti

Joseph Goebbels

Joseph Goebbels

pubblicato su Tempi Numero: 28 – 12 Luglio 2001

Pari opportunità, antiglobalismo, lotta alla discriminazione. Le politiche cosiddette liberal, esaltate dalla nuova ortodossia del politically correct, possono produrre effetti tutt’altro che liberali. Joseph Goebbels (e la Germania “socialmente corretta” di Hitler) docet…

di Francesco Esposito

Forse non tutti sanno che il luogo dove il pensiero politically correct ha trovato la sua realizzazione più compiuta è stata la Germania nazista. Qui Adolf Hitler imponeva personalmente quelle leggi da lui stesso definite “socialmente corrette”. Come la regolamentazione per la cottura delle aragoste, il suo primo atto dittatoriale dopo la nomina a cancelliere (1933).

Sembra che il führer fosse assai turbato dallo stridere delle povere bestiole durante la cottura in acqua bollente. Tanto da far precedere l’imposizione di questa norma di civiltà all’abolizione dei sindacati. Allo stesso modo sappiamo che Heinrich Himmler, responsabile della morte di milioni di persone, considerava la caccia agli uccelli come “puro omicidio”. Ed elogiava il medioevo tedesco, quando s’istruivano “processi” ai topi per le loro razzie, dando così ai roditori una possibilità per scamparla. Mentre è nota la politica nazista contro il fumo, proibito in tutti gli uffici del Partito e, nel 1944, durante la fase critica del conflitto, su tutti i mezzi pubblici.

In propaganda, far sapere è spesso più importante che far ignorare

Il vero regista dei piani culturali del Reich è stato Joseph Goebbels, Reich Minister für Volksaufklärung und Propaganda – ministro della propaganda e responsabile delle pubbliche relazioni di Hitler. Goebbels era un ammiratore di Edward L. Bernays, viennese nipote di Sigmund Freud che aveva aperto un ufficio a New York nel 1919.

Reputato un pioniere nell’uso della psicologia e delle altre scienze sociali nel marketing e nell’arte delle comunicazioni istituzionali, durante la I Guerra mondiale aveva fatto parte dell’U.S. Committee on Public Information (CPI), l’apparato propagandistico americano creato nel 1917 per pubblicizzare la guerra come atto che avrebbe “salvato il mondo e la democrazia”.

Nel suo “Propaganda” (Boni&Liveright, New York 1928) e in “Crystallizing public opinion” (Boni&Liveright, New York 1923) scrisse: “se comprendiamo il meccanismo mentale e le motivazioni dei gruppi è possibile controllare e irregimentare le masse secondo la nostra volontà e senza che queste se ne accorgano”.

Bernays chiamò questo scientifico controllo delle opinioni “ingegneria del consenso”. I suoi due volumi si trovavano sul comodino di Goebbels che li riteneva “i migliori che io abbia mai visto” e furono le principali auctoritas della campagna d’odio contro gli ebrei, come egli stesso rivelò a Karl von Weigand, corrispondente estero dei giornali del gruppo Hearst, nel 1933.

L’ingegneria del consenso

Goebbels era specializzato nel controllo del linguaggio. Effettivamente il nazismo si è diffuso tra la popolazione innanzitutto attraverso le singole parole, le locuzioni, lo stile delle frasi imposte alla masse. Le forme idiomatiche coniate dai nazisti e diffuse da tutti i giornali del regime servivano come strumenti di propaganda politica e di camouflage.

Controllando come una certa realtà veniva detta, i nazisti in qualche modo potevano cambiare, se non proprio l’evento di cui si parlava, senz’altro il modo di pensare e valutare quell’evento (Cfr. Vicyor Klemperer, LTI. La lingua del Terzo Reich. Taccuino di un filologo). Ad esempio: il termine “fanatico” sempre accostato al termine “eroico”, tanto da indurre a credere che la condizione per essere eroi fosse il fanatismo.

O l’uso dell’aggettivo “ebraico” e “giudaico” abbinato a termini che identificavano il nemico o il male: “l’ideologia ebraico-marxista”; “la barbarie giudaico-bolscevica”; “il sistema giudaico-capitalista”; “il nemico giudaico-americano”. O ancora gli esseri umani sui quali si svolgevano sperimentazioni scientifiche, chiamati, come scrisse Goebbels in una circolare, “individualità prive di vigore vitale”. Mentre i critici del “nuovo ordine mondiale” proclamato da Goebbels erano “le forze oscure dell’anarchia e dell’odio”.

Le radici filosofiche del “multiculturalismo”

Il termine “politicamente corretto” è stato utilizzato la prima volta nei circoli intellettuali del Partito Comunista durante gli anni ’30 e ’40. Ma filosoficamente le sue premesse affondano nelle tesi di Nietzsche. Nel 1936 Joseph Goebbels istituì un comitato di accademici per mettere a punto l’edizione integrale delle opere del filosofo tedesco. Ne faceva parte Martin Heidegger che individuò nell’impegno per distruggere le ultime tracce dell’”umanesimo metafisico” della cultura occidentale il trait d’union tra Nietzsche e gli orientamenti del Reich.

Con la conseguenza immediata che ogni idea di Dio, di moralità, di bene e di male, diventava falsa e priva di senso. Occorreva quella umwertung aller Werte (transvalutazione di tutti i valori) per cui ogni uomo si costruisce i propri valori, il suo personale concetto di bene e male. Più tardi la Scuola di Francoforte, di fede marxista, si spingerà ancora oltre.

Fondata per volontà del facoltoso Felix Weil, col contributo di pensatori come György Lukacs – già commissario della cultura durante la breve occupazione bolscevica del potere in Ungheria, nel 1919, poi ufficiale del Comintern a Mosca – voleva eliminare la tradizione giudaico-cristiana dalla cultura occidentale a favore di una nuova “cultura del pessimismo”. Che vedeva l’uomo contemporaneo alienato dal progresso capitalista e allontanato dal suo passato originario, quando si poteva confrontare con gli oggetti della realtà fisica e assegnare ad essi nomi corrispondenti alla loro essenza (da cui l’importanza di ri-nominare le cose).

Il risultato è che oggi non esiste verità, non esiste diritto naturale, la morale del bene e del male è falsa e borghese, la famiglia un’istituzione “autoritaria” che merita di essere attaccata (curiosamente, anche Goebbels aveva riconosciuto alle donne non sposate contributi statali per avere figli fuori dal legame matrimoniale).

Difendere la famiglia? Un crimine di pensiero

Da queste premesse si è imposto quell’atteggiamento relativista che sostiene l’impossibilità di assegnare giudizi di valore (sarebbero discriminatori) agli altrui comportamenti. Mentre non esistono risposte “giuste”, solo risposte differenti, e tutte le diversità vanno tollerate. Almeno a parole. Perché, con malcelata disonestà intellettuale, si dice che non esistono verità definitive, ma insieme si afferma un codice di domande e risposte “politically correct” che considera chiunque conserva una certa considerazione per la famiglia o la ragione “indottrinato da una cultura oppressiva”.

Infine, chi davvero ha un’idea diversa, non può esprimerla. Una graziosa e molto progressivamente aggiornata forma di censura e di controllo del pensiero.