”Grazie, Le Corbusier, per i quartieri dormitorio”

quartiere_dormitoriopubblicato su Il Giornale del 5 settembe 2003

di Paolo Granzotto

Non so se lei è d’accordo con me, ma sulla vicenda dl Rozzano sono state scritte cose non vere, nel senso che quei plurimi omicidi non sono conseguenza del degrado delle periferie urbane, ma avrebbero potuto esserci anche nel quartieri alti, anche fra le ville di Cortina d’Ampezzo. Vito Cosco è un assassino non una vittima del clima del malessere delle periferie.

Gianni Ferrara e-mail

Certo, caro Ferrara, ma non potrà negare che la micro-delinquenza, all’origine di quel fatto di sangue, storia di piccoli spacciatori finita in tragedia, trovi il suo ideale brodo di coltura nei quartieri dormitorio, nei casermoni periferici. Vada a vedere com’era, fino alla seconda guerra mondiale, l’edilizia popolare eretta nell’allora cerchia esterna delle città.

Piccoli edifici per due, tre famiglie, quasi dei villini costruiti non senza rinunciare a un certo garbo, una certa eleganza architettonica. Poi tutto ciò apparve superfluo: l’edificio popolare, si sragionò, non deve imitare quelli del ceto abbiente, l’importante è che abbia quattro pareti e un tetto.

E non deve avere dimensioni modeste che accentuano il malcostume dell’individualismo, deve essere grande, grandissimo, enorme, così da favorire la socialità, l’aggregazione. Fatto sta che gli architetti iniziarono a concepire dei mostri edilizi che fossero comunità autonome e autosufficienti. Con ampi spazi (multifunzionali, va da sé) comuni dove incontrarsi, discutere, fraternizzare, con negozi, ufficio postale, banca, pronto soccorso, biblioteche, cineteche e l’immancabile ludoteca, il vero oggetto misterioso di quei deliri architettonici.

L’ideatore di questa bella pènsata fu un architetto francese, Le Corbusier, caposcuola del “funzionalismo” (la casa è “una macchina per abitare”, non altro) e della teoria che l’unico modo per risolvere le tensioni e i conflitti sociali fosse quella di stipare tutti nei casermoni (la sua prima “unità di abitazione” ospitava quasi duemila inquilini).

Le Corbusier è stato per gli architetti quello che il dottor Spock fu per milioni di genitori. Si pendeva dalle sue labbra, lo si osannava e poco c’è mancato che i comunisti, che vedevano in lui l’apostolo della modernizzazione, della “nuova città socialista”, non lo deificassero. Tale e quale il bardo della pedagogia permissiva, fece danni irreparabili che solo a cose fatte, a danni avvenuti, si cominciò a considerare tali.

Danni dei quali anche noi paghiamo le conseguenze perché quei gioielli architettonici che si chiamano Corviale (a Roma: un eco-mostro lungo un chilometro su nove piani con mille e 200 alloggi), Zen (a Palermo: ospita 25mila inquilini), Torridi Mirafiori (a Torino: 4lmila inquilini), Piagge (a Firenze: lO mila inquilini), il Biscione (a Genova: una sorta di volgare Grande Muraglia in cemento armato), le Vele (Napoli: doveva riproporre la “filosofia del vicolo”, e un ghetto per 5mila famiglie), Rozzol Melara (a Trieste: un girone infernale di 650 appartamenti), son tutti figli di Le Corbusier o meglio degli architetti che l’utopia modernista del maestro francese pedissequamente ripercorsero. E che si sono rivelati un fallimento perché la promiscuità non è mai stata un vaccino contro i conflitti sociali che anzi acuisce, esaspera.

Perché chi abita al Corviale o alle Vele non si sente a casa e meno che mai a casa propria, per cui sfascia, sporca, intasa, brucia, usa gli “spazi di aggregazione” come discarica e le ludoteche per farsi le “canne” quando non le “pere”. Ora si vogliono buttar giù quelle che per la sinistra erano “case modello” e sarebbe un bene. Ma ci credo poco: resteranno lì dove sono, monumento alla follia collettiva, alle utopie intellettuali, al giacobinismo che pretende di avere sempre la ricetta per far felice il popolo. Magari facendo sì che “comunicasse” per costrizione, ingabbiato nei lager architettonicamente corretti.