Mia figlia Lainey è down e mi ha insegnato la «redenzione nell’imperfezione»

down_sindromeTempi, 8 Nov 2011

C’è un blog negli Stati Uniti di una madre che insegna ad altre madri cosa significhi amare i figli. «Qualche volta mi lamento perché non ho il parquet di legno che vorrei. La mia Nella è il mio promemoria costante: la vita non è questione di parquet. No, la vita è una questione d’amore e di conoscere e sperimentare la bellezza vera. Quella per cui siamo stati creati»

di Benedetta Frigerio

«Grazie per avermi dato un luogo dove trarre spunto ed esempio»; «ringrazio Dio che tu, Nella, Lainey e il resto della tua famiglia siate entrati nella mia vita, anche solo via internet»; «hai davvero cambiato il modo con cui guardavo all’imperfezione»; «sono felice di aver scoperto questo blog in cui seguirti nel tuo cammino. Tu fai la differenza, per Nella, mia figlia, e altri innumerevoli bambini con la sindrome di Down».

Sono solo alcuni dei centinaia di commenti ad un blog, Enjoying the Small Things, nato quattro anni fa da Kelle Hampton, una giovane mamma residente in Florida. Kelle, sposata con Brett, nel 2007 dà alla luce Lainey: «Con la sua nascita – scrive – iniziai ad apprezzare le piccole cose. A scriverle e fotografarle».

Ma è con l’avvento di Nella, la secondogenita, che la Kelle scopre la bellezza anche in luoghi da cui non credeva potesse esistere: «Ho capito che arrivare a trovare i posti più meravigliosi della vita costa sacrificio, ma è stupefacente». Ormai seguito da centinaia di persone il blog racconta delle scoperte quotidiane di una vita ordinaria, per aiutare i lettori «a cogliere la bellezza nascosta nella presenza delle cose» e «la redenzione nell’imperfezione».

Da dove nasca uno sguardo tanto puro lo si intuisce di più leggendo la storia di Kelle: «Questa – scrive nel 2010 – è la cosa più difficile che abbia mai dovuto scrivere nella mia vita. La più difficile, ma la più bella insieme… dopo aver finito il libro A Million Miles in a Thousand Years di Donald Miller… stavo per partorire la mia secondogenita e mi sentivo in grado di lasciare la mia oasi di confort per attraversare le difficoltà, perché è solo così che possiamo cambiare la sceneggiatura della nostra vita e trasformarla da noiosa in una da Oscar. Ma, per essere onesta, fino ad allora la sfida più dura della vita mia era stata quella di avere mio marito Brett lontano da casa per lavoro (…) poi aspettare un secondo figlio.

Perderne uno: rimanere ancora incinta. Sembrava così reale eppure appariva un sogno… preparare e avere ogni cosa sistemata… perfettamente: la musica al momento del parto, le coperte fatte a mano piegate e pronte, l’abbigliamento per il rientro a casa, la camicia da notte che avevo comprato apposta per l’occasione (…) stava tutto andando tutto esattamente come immaginavo, anzi meglio.

Alle ore 14 le acque si sono rotte, le contrazioni erano all’apice (…) Mi ripetevo: “Stai per conoscere tua figlia” (…) Spingevo spingevo, vedevo il suo piccolo corpo uscire dal mio e capii. Capii dal primo istante che era affetta da sindrome di Down e nessun altro lo aveva compreso. La tenevo in braccio e piangevo… quello fu il momento che ha più segnato e definito la mia vita, l’inizio della mia storia (…) Mi sentivo come fossi in un buco nero… quando penso a quei momenti in cui piangevo mi chiedo: “Nella avrà sentito il mio amore?”. Chi era con me sorride quando lo chiedo, promettendomi di sì… sono fortunata le mie amiche fotografe, Laura e Heidi, erano lì a catturare ogni singolo istante. Non hanno mai smesso di farlo, mi hanno permesso di rivivere la bellezza di quei momenti».

Insieme allo sguardo degli amici a sorreggere Kelle c’è quello della fede paterna: «Chiesi di farlo entrare nella mia stanza. Papà sorrise e mentre i suoi occhi si riempivano di lacrime disse: “Non c’è problema. Noi la amiamo”: sollevò in alto mia figlia e io gli chiesi di dire una preghiera. E lì, in sala parto, dove in pochi attimi era già entrato un mondo di gente, si strinsero tutti attorno al mio letto… Mio padre pregò e ringraziò Dio per il dono della vita di Nella e per le fantastiche cose che aveva pianificato per noi. Per la nostra famiglia. Per Nella. Amen».

Immediatamente dopo, mai lasciata sola nel guardare la sua bimba malata Kelle racconta di aver percepito un grande sostegno: «Dottor Foley – continua – non c’è nessun altro che avrebbe potuto fare un lavoro migliore nel condividere la sfida di questo cammino… ho sentito amore». Ma prosegue Kelle «continuavo ad immaginarmi un’altra bambina… quella che sentivo essere morta nel momento in cui avevo realizzato che quella che era nata non era come mi aspettavo (…) la stanza era ancora piena di gente, ci sarebbero tante storie da raccontare, di amici e famiglie che sono stati fra quelle mura ad aspettare. Quello che posso dire è che c’era più amore in quel reparto di quello che può contenere, ricordo felicità. Da ciascuno. E mio marito, beh non ha mai lasciato sola mia figlia. Era tranquillo, non saprò mai cosa provò davvero, ma so che ama le mie figlie con tutto il suo cuore».

Ma a Kelle non basta nemmeno tutto questo amore: «I miei sogni, l’idea delle mie figlie che crescevano insieme consigliandosi, facendo shopping e cucinando… no ogni cosa sarebbe stata diversa». Quel che realmente cambia la prospettiva di Kelle è altro: «Non dimenticherò mai il momento in cui la mia primogenita arrivò in ospedale e prese in braccio Nella. Guardavo la scena in agonia… in lacrime… in ammirazione mentre la mia piccola mi insegnava ad amare. Mi ha mostrato a cosa è simile l’amore incondizionato… quello che si prova quando non esistono stereotipi».

Ma insieme alla notte per Kelle torna il dolore: «È orribile – racconta – dire che spesi la prima sera con mia figlia in agonia, ma so che quel dolore era necessario per me, per portarmi a dove sono oggi: ora so quanto lei sia un dono fatto apposta per me e io per lei. Ora posso dirlo. È dura, ma è la realtà…ricordo che quella notte piansi, volevo scappare: volevo prendere mia figlia maggiore e il mio mondo perfetto e il suo perfetto amore e i nostri progetti e il nostro legame e fuggire».

Infine Kelle si rende conto che l’aiuto più grande viene proprio da quella figlia così diversa dai suoi progetti: «Smisi di desiderare di scappare… qualche volta mi lamento ancora per lo stucco nero delle piastrelle al posto del parquet di legno che vorrei. Ma la mia Nella diventò il mio promemoria costante: la vita non è questione di parquet. No, la vita è una questione d’amore e di conoscere e sperimentare la bellezza vera. Quella per cui siamo stati creati».

E da questa nascita anche il blog di Kelle comincia a cresce in numero di visitatori. Mentre la stampa e i media americani iniziano a parlare della donna che «insegna alle madri a fare le madri», e trovare gioia «anche dove sembra non ci sia». Scrive Kelle il primo novembre scorso: «Sono felice quando sono grata, quando sono cosciente di quanto mi circonda e del significato degli istanti che mi rendono felice. La gratitudine è un modo di vivere più che una lezione (…) e il modo migliore per insegnarla ai figli è viverla noi (…) riconoscere ogni frammento di bellezza che ci circonda.

Prima insegnavo a mia figlia la gratitudine forzandola a dire grazie… con Laine mi domandavo sempre se facevo giusto o sbagliato, se farla piangere negandole un gioco… Ora mi scopro sempre meno preoccupata della lista dei doveri, mi accorgo invece sempre più della grazia che è casa mia, dell’istante presente, ho coscienza del bene (…) voglio che i miei figli si accorgano di come mi commuove il mondo, solo così potranno imparare ad apprezzare anche loro le piccole cose. Come il cielo azzurro pennellato di rosa alla mattina, come il profumo calmante che il cotone sprigiona nell’asciugatrice… Mia figlia mi chiede “sai cosa amo di questo istante? Amo quella nuvola a forma di farfalla”.

Così ribatto: “Io amo quella piccola forcina che ti tira indietro i capelli e ti fa somigliare a quando eri più piccola”. “Grazie mamma” (…) un giorno le insegnerò a scrivere grazie per quanto riceverà… per ora continuerò semplicemente a lodare il mondo intorno a me. Per iniziare chiedetevi: “Cosa amo di questo istante, comincerete ad accorgervi di molte cose”».

Molte donne con figli malati o altri problemi si sono chieste come Kelle possa vivere con gioia quello che per loro è solo dolore. Alcune ringraziano, altre non capiscono. Ma lei risponde continuamente: «Nasciamo con desideri scritti nel nostro cuore, nelle nostre anime/ Nasciamo ogni mattina con possibilità solo nostre/ La redenzione viene da luoghi strani, da posti piccoli/ Chiedendoci il meglio di noi stessi/ Voglio partecipare della bellezza. (Sara Groves). Il 22 gennaio Nella entrava nelle nostre vite… tutto era dove doveva essere. Non avrei potuto sentire Dio più vicino. La redenzione viene da luoghi strani».

Parole davanti a cui si potrebbe ancora obiettare, come fa una lettrice con una figlia autistica: «Leggevo il tuo blog e mi innervosivo. Non solo perché sei perfetta in costume da bagno, anche dopo una gravidanza. Ma perché volevo la tua vita: io non avevo foto in spiaggia con le mie figlie. Anzi, navigavo nel mare della paura. Ci sono voluti anni per la diagnosi. Ero una madre sola (…) E tu? Tu hai una rete di sostegno solidissima (…) ma poi leggendo e rileggendo il blog ho capito. E mi sono ricordata del sogno che feci sei anni prima di avere mia figlia. Nasceva un bambino che mi conduceva attraverso un sentiero estatico.

L’amore che sentivo per quel figlio era pura forza di Dio (…) ora se dovessi scegliere non scambierei mia figlia con null’altro (…) Cominciare ad amare mia figlia ha spalancato il mio cuore. La mia compassione è grande ora. Anche quella per me stessa, pure quando mi sento brutta. O quando sbaglio. O sono meschina. Non mi fermo più lì. La mia anima non lo tollera più. Devo andare più a fondo. Ora ringrazio Kelle per avermi aiutato in questo cammino di crescita (…) È quando dimentichiamo quanto assolutamente unici e pieni di risorse siamo, di fronte a qualsiasi situazione, che soffriamo e diamo la colpa sempre ad altro».