Il Cristianesimo e l’invenzione degli Ospedali

Secondo  incontro del Corso di Biopolitica

organizzato da Scienza & Vita di Pisa e Livorno

Pisa, venerdì 10 giugno 2011 – Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Pisa

Francesco Agnoli

RIFUGIO DELLA CARITA’ NEI SECOLI

Andrea Bartelloni

PISA E I SUOI OSPEDALI NELLA STORIA

ospedale_medievale

Francesco Agnoli

RIFUGIO DELLA CARITA’ NEI SECOLI

Lo storico si chiede: perché l’ospedale nasce nel mondo cristiano e non altrove? Si pone questa domanda come pure si pone altre domande su scienza, università e così via.

La prima cosa che bisogna dire per cercare di comprendere come nascano gli ospedali è capire la novità del cristianesimo. Il mondo greco, quello indiano e quello cinese, hanno la loro medicina, infatti si trovano tantissime storie della medicina con i tanti apporti delle varie culture, tutti i popoli hanno avuto una medicina, ma non tutti i popoli hanno conosciuto l’istituzione ospedaliera.

Neppure i latini  e i greci avevano gli ospedali.

Se cerchiamo la storia dell’ospedale nel mondo antico troviamo sporadiche descrizioni di strutture ospedaliere ma che non hanno molto a che vedere con l’ospedale come lo intendiamo oggi; alcuni ospedali romani erano per i soldati che necessitavano di cure per tornare a combattere. Nel mondo romano abbiamo ospedali per gli schiavi, per tutelare un proprio patrimonio, ma oltre il medico, che veniva chiamato a casa o dal quale ci si recava, non esisteva nulla.

Dobbiamo aspettare il cristianesimo per vedere un’esplosione di ospedali, di ospizi, di rifugi, di nosocomi di xenodochi, che sono tutti sinonimi, ma l’incredibile è vedere, prima di Cristo, una quasi totale assenza, dopo l’esplosione.

All’origine c’è una nuova visione del mondo, dell’uomo e di Dio; non si crea un’istituzione come l’ospedale se non si ha una certa visione teologica e antropologica. In India, dove il malato sconta i peccati della vita precedente e quindi la reincarnazione è il metodo della giustizia, il malato è colui che si merita ciò che ha. Da questa visione del mondo capiamo che l’ ospedale non poteva nascere in India.

In Africa il malato viene curato dallo stregone e tutta una serie di malattie sono motivo di allontanamento dal paese dove il malato vive, sono viste come maledizioni, un esempio fra tutte, la lebbra.

Qual è il nuovo atteggiamento del cristianesimo? Anzitutto la prima cosa da dire è che i cristiani entrano in contatto con questo uomo-Dio, Gesù, che viene definito, nei primi testi dei Padri e degli apologeti, medicus et infirmus, in contemporanea, medico e malato.

Abbiamo tutta una serie di episodi nel Vangelo, dalla parabola del buon samaritano, al fatto che Luca fosse un medico, abbiamo tutta una serie di episodi che ci parlano di questa caratteristica di Gesù: medico e infermo. Gesù non è come Buddha (566 a.C.-486 a.C.) un filosofo o un Dio che si rivela tramite un profeta come nell’Islam, è un Dio che scende sulla terra, prende un corpo e soffre nel suo corpo. C’è una visione filosofica del corpo portata dal cristianesimo che è piuttosto innovativa, se pensiamo al mondo antico facilmente ci imbattiamo in forme di spiritualismo, lo spirito è tutto, il corpo è niente, è il soma sema, la prigione. In buona parte della filosofia greca, la materia è il principio del male.

Col cristianesimo abbiamo a che fare con un Dio che scende sulla terra, si incarna, prende un corpo, assume su sé stesso quel qualcosa che invecchia, si ammala, è segnato dal limite; il corpo è l’indice del suo limite, ogni piccolo malanno ci fa capire che non siamo Dio. In realtà questo corpo, che in tante culture è una zavorra, il principio del male, è ciò da cui occorre liberarsi, quel corpo lì, Dio, lo ha scelto come luogo in cui abitare e come cosa buona, esattamente come tutte le cose che sono intorno a noi.

Verbum caro ha preso la carne, il limite, la finitudine, ha preso il dolore su se stesso e lo ha vissuto fino all’ultimo, la passione, la fustigazione, la crocifissione, è stato infirmus. Molti degli ospedali, Bologna e Udine ad esempio, nascono dalle confraternite dei battuti, dei flagellanti, di coloro che meditavano sulla Passione di Cristo.

Se Dio ha preso un corpo, se quel corpo ha sofferto, è inevitabile che colui che soffre sia un’immagine di Cristo, il corpo diventa il tabernacolo dello Spirito Santo, qualcosa di assolutamente straordinario, addirittura qualcosa che ri-sorge, la resurrezione dei corpi è un dogma del cattolicesimo che il buon Paolo quando va nell’Areopago non riesce a far capire ai greci perché Aulo Cornelio Celso (14 a.C.- 37 d.C.), un pagano dei primi secoli, diceva: «Risorgere dal corpo, ma col corpo è assurdo!».

I pagani deridevano il cristianesimo anche per questo motivo, ci si libererà dal corpo, dalle pastoie che ci tengono legati a terra, quando risorgeremo saremo puro spirito, non saremo ancora in questa prigione. Nel cristianesimo il corpo diventa importante, non va avvilito con l’ubriachezza, la fornicazione, la lussuria, le gozzoviglie, va rispettato.

Qui troviamo l’incapacità del pensiero contemporaneo di capire questa grandezza che il cristianesimo da al corpo; solitamente si sente dire che il cristianesimo umilia il corpo, specialmente nella concezione materialista attuale. Un tempo avremmo sentito dire che lo esaltava troppo perché cercava di tenere unita l’anima e il corpo in una visione unitaria e questo segnerà anche la rivalutazione del lavoro manuale, che diventa l’attività con cui l’uomo imita il suo creatore diventando un sub-creatore.

Bisognerà attendere molto più avanti, come scrive Jacques Le Goff, per avere una scissione netta fra l’anima e il corpo, non appartiene questa al pensiero cristiano.

Un Dio medicus et infirmus, che racconta la parabola del buon samaritano, che prende corpo come cosa buona, un Dio che patisce nella sua carne la Passione e questo diventa sempre più chiaro ai cristiani dopo i pellegrinaggi in Terrasanta quando il Dio lontano dei primi secoli su sfondo d’oro (dell’iconografia bizantina) inizia a diventare il Dio del quale si è visto dove dormiva, dove camminava, esattamente come noi.

Fu qualche cosa di straordinario, a lungo nei primi secoli Dio era visto più come Dio Padre che come il Dio Figlio, perché calare Dio nella concretezza della carne non è stato facile nei primi tempi.

Infine, l’atteggiamento verso il prossimo. Cristo non è un filosofo e ci invita ad amare il nostro prossimo, colui che ci è immediatamente vicino, come diceva Feodor Dostoevskij (1821-1881): “amare l’umanità è molto facile, amare il prossimo che ci è vicino è più difficile”. Gesù Cristo prova a insegnare questo. Gregorio di Nazanzio (329-390 ca.) scrive, parlando dei poveri, “noi nutriamo, vestiamo il Cristo”.  Patiamo con, compatiamo; un grande medico dice che il medico è fondamentalmente religioso perché patisce insieme e Dio ha deciso di patire con noi ed esercitare la sua misericordia: “dare il cuore ai miseri”. In Toscana abbiamo le Misericordie e quanti ospedali sono nati in nome della Misericordia!

Uno dei tanti altri motivi di questa visione antropologica è che il cristianesimo col suo profondo senso dell’incarnazione condanna l’astrologia, l’alchimia e la magia. Quindi condanna quel modo di guarire che è un fare appello a forze magiche ma senza mettere in gioco la propria esistenza, solo attraverso il potere dello stregone. La condanna della magia non è slegata al fatto che i primi farmacisti furono i monaci benedettini. Proprio oggi ho acquistato un volume di Giorgio Cosmacini e Vittorio A. Sironi che curano la biblioteca di medicina della Laterza che appunto parlano di questi monaci, primi farmacisti, che si dedicano a raccogliere le erbe, ad utilizzare la natura.

Il cristianesimo è anche una nuova visione della natura: non si guarisce più invocando astri o utilizzando gli effetti magici delle piante, ma usando quella natura che è creata da Dio e che come tale viene messa al servizio dell’uomo.

Queste sono alcune delle cose che possiamo dire sinteticamente per introdurre il concetto di come questi ospedali nascono in questo mondo cristiano quando ancora era vivo il pensiero di un Platone che riteneva degni di cura solo i cittadini liberi, altri ritenevano degni solo i soldati, e cosi via.

Si dice che il primo ospedale sia nato in oriente: il complesso ospedaliero di San Basilio con lebbrosario, orfanotrofio, rifugi di vario genere, nel quale erano presenti varie tipologie di infermieri, i Parabolani, che avevano anche il compito di girare per le strade a cercare che avesse bisogno di cure.

In occidente  troviamo due donne, Fabiola (+399) e Marcella. Fabiola, nel IV secolo, con due matrimoni infelici alle spalle, si converte al cristianesimo e dedica la sua vita alle opere di carità. Nel suo palazzo, era una donna della gens Fabia, tra le famiglie più importanti di Roma, riuniva tutti gli ammalati raccolti nelle strade occupandosi personalmente degli infelici e delle vittime della fame e delle malattie.

Li nutriva con le sue mani, facendo qualcosa, nota anche Girolamo (347-419/420), che di solito ripugna all’uomo, toccare, vestire, nutrire queste persone con corpi malati. Fabiola è una donna come Marcella, molto importante. Viene in mente la Pietà di Michelangelo, la Madonna con Gesù Cristo, viene in mente il fatto che il cristianesimo ha portato alla ribalta queste figure femminili che nel mondo antico erano poco rappresentate e che nei primi secoli noi troviamo dedite, soprattutto, agli ospedali e alle scuole.

Fabiola e Marcella erano donne ricche, vedove, che nel modo pagano non potevano gestire il proprio patrimonio e che con l’avvento del cristianesimo, non avendo più l’obbligo di risposarsi, sono libere e donano le loro proprietà al servizio degli altri. Questi palazzi nobiliari di ricche famiglie, vengono adibiti a ospizi, l’idea dalla quale nascerà l’ospedale come lo conosciamo noi adesso.

Dopo Fabiola e Marcella abbiamo sant’Elena (+ 329) in oriente e poi abbiamo il diffondersi dell’Hotel Dieu, le God’s house in Inghilterra, e così negli altri paesi dell’Europa; nei primissimi secoli nascono moltissimi di questi “rifugi” che hanno nomi diversi: nosocomi, xenodochi (tutte parole di derivazione greca), per ospitare gli stranieri (xenos=straniero), ospizi per ospitare i poveri, i malati. Manca, per adesso, una chiara distinzione tra povero e malato, per tanti motivi: la medicina deve fare ancora il suo percorso e spesso il povero è anche malato, denutrito.

Queste persone vengono raccolte, curate e entrano a far parte di quel grande sistema della carità che nei primi secoli è dato dal concetto insistente sul dovere fondamentale dell’elemosina e del digiuno. Il digiuno viene indicato costantemente ai cristiani come un dovere e ha le funzioni più varie, e tra queste, la capacità di auto controllarsi, di riconoscere una gerarchia: l’anima comanda sul corpo.

Ma è anche la capacità di compatire, di partecipare alla Passione e alla sofferenza di Cristo e, partecipando a quella sofferenza, riscoprire le esigenze che gli altri hanno. I monaci digiunavano spesso per avere più chiaro che le persone povere che bussavano alla loro porta sperimentavano abitudinariamente quello che loro ogni tanto, imponendoselo, sperimentavano. Quando facciamo digiuno ci rendiamo conto della grande fortuna che abbiamo di poter mangiare e del grande dovere che abbiamo nei confronti dei nostri fratelli, i pauperes christi, a cui nei testamenti medievali venivano devolute eredità intere.

I primi ospedali nascono da privati (Fabiola, Marcella), canonici, sacerdoti, da monasteri e conventi, da papi come Gregorio Magno che di fronte ad una Roma in disfacimento fonda ospedali, libera prigionieri, assegna pensioni.

I monasteri sono, per una lunga fase, il centro di questa rinascita, si copiano i testi classici e tutta la medicina greca che sarebbe andata perduta senza il lavoro di Cassiodoro (485 ca.-580 ca.) e dei benedettini.

In questo periodo buio, quello del disfacimento dell’impero romano, delle invasioni barbariche, troviamo personaggi giganteschi: Cassiodoro che nel suo monastero di Squillace in Calabria raccomanda la medicina degli antichi, dei pagani e invita i suoi monaci in questi termini: «A voi mi rivolgo, egregi fratelli, che trattate con diligente curiosità la sanità del corpo umano, rifugiandovi nei luoghi sacri (…), tristi per l’altrui sofferenze, mesti per gli altrui pericoli, trafitti dal dolore di quelli che intraprendete a curare sempre nelle sventure altrui oppressi dal proprio affanno, servite con cuore sincero coloro che languiscono come conviene alla perizia dell’arte vostra».

Uno storico della medicina come Giuseppe Nisticò dice che si può notare già in Cassiodoro l’unione della caritas, della carità, dell’amore (“Vi do un comandamento nuovo”, nuovo veramente perché ci viene detto di amare Dio e il prossimo, questa è una novità. Il Dio aristotelico si nutriva della contemplazione di sé stesso), alla scientia. La scienza è ancora in fase incipiente, ma è anche vero che è già chiara. Perché il cristianesimo eredita il Dio come Logos del mondo greco, il Dio come ragione, ma è un Logos che si incarna, si fa anche caritas. Cassiodoro dice di servire i malati, ma anche di studiare i medici greci.

C’è un atteggiamento laico, dice Nisticò, ragionevole: il maestro che indica la strada soprannaturale della carità, ma indica anche la strada della scienza, della ragione.

Quando dico che l’Italia è al centro della storia degli ospedali, penso anche che, ad es, l’anatomia nasce in Italia, da Mondino dei Liuzzi (1275-1326) a Bologna nel 1316 e fino al 1543, i primi tre secoli dell’anatomia sono sostanzialmente italiani. E quando non sono italiani come con Andreas Vesalius (1514-1564), sono fiamminghi che vengono a lavorare in Italia: Padova, Bologna, Roma.

Perché l’anatomia nasce qui e non altrove? Perché i greci facevano anatomia, ma sezionavano le scimmie, perché ancora oggi in gran parte del mondo sezionare il corpo è un sacrilegio e invece nel mondo cristiano si può fare.

La cultura greca che diventa arte, diventa anche medicina, ma i greci sezionano animali; abbiamo in età ellenistica alcuni casi di sezionatori di uomini vivi (schiavi), ma è una parentesi brevissima, e uomini vivi o morti non venivano sezionati. Per vedere la nascita dell’anatomia vera e propria occorre aspettare Gugliemo da Saliceto (1210-1277) e Mondino dei Liuzzi.

L’anatomia, testo del 1316 che vede la luce all’Università di Bologna dove era permesso sezionare due cadaveri alla settimana, col permesso pontificio. Si toccavano dei cadaveri, qualche cosa di sacro per tutte le civiltà e ci si poneva la domanda se fosse lecito toccare un corpo. La risposta fu affermativa ma con determinati limiti: cadaveri abbandonati, non reclamati da nessuno, condannati a morte.

Da Mondino dei Liuzzi, 1316, pieno medioevo, abbiamo una lunga tradizione che prosegue fino al 1543 quando arriva Vesalius, un fiammingo, che a Padova compone il De humani corporis fabbrica (1542) che è il corrispettivo del De rivolutionibus orbium celestibus. L’anatomia precede l’astronomia.

Perché Vesalio viene in Italia. Perché gli italiani per primi hanno sezionato i corpi umani. Ecco un altro primato degli italiani, dopo gli ospedali, le scienze, l’Università, l’anatomia, la fisiologia, ben prima del 1861 abbiamo una ricchezza straordinaria nell’Italia. Perché queste affermazioni. Spesso sentiamo parlare dell’arretratezza del nostro paese per colpa della Chiesa, ma a quanto pare non è andata proprio così.

Dopo Mondino dei Liuzzi, abbiamo Girolamo Manfredi (1430-1493), Daniele Zerbi, Alessandro Benedetti (1450-1512) e gli storici si chiedono come mai proprio in Italia un’esplosione così grande? La storia quella scritta dai vari Augias e Odifreddi vede sempre nella Chiesa un freno alla scienza e alla ricerca. Parlano di cose che non conoscono: Bologna, Padova e Roma sono, per secoli, le capitali dell’anatomia. Se noi leggiamo i trattati degli anatomisti, continuamente nella sezione del corpo umano rimandano alla necessità della cura e la bellezza del corpo li rimanda alla bellezza di Dio.

Questo è il quadro storico, poi abbiamo un altro fatto importante, ci sono dei documenti della Chiesa che sono di autorizzazione e poi abbiamo dei processi a degli anatomisti. Su questi processi si sono costruite le dicerie e le leggende nere. Uno di questi processi, molto famoso, del 1349, è il processo ad un anatomista perché aveva trafugato dei cadaveri. Anche Vesalio subisce un processo per avere aperto, pare, il corpo di un uomo ancora vivo. Chi combatte contro Vesalio? I galenisti, i seguaci di Galeno, che si rifacevano al loro maestro che non sezionava.

Ma perché l’anatomia è nata in Italia? Anzitutto per la visione antropologica: il corpo con la sua importanza, ma che non doveva necessariamente subire i trattamenti della sepoltura propri delle altre culture. In Grecia, a Roma, nel mondo etrusco, germanico, nella civiltà africana o cinese, il corpo deve essere seppellito con un determinato rito per permettere il passaggio nell’aldilà. Se non si eseguono determinati riti non si attua il passaggio e il morto rischia di passare nella categoria dei morti viventi, dei morti che ritornano.

Pensiamo la terremoto di Haiti dove si cercavano disperatamente i cadaveri perchè se non identificati e seppelliti il morto avrebbe vagato nell’aldiquà chiedendo ai vivi la sepoltura. Questo si ritrova anche nel mondo romano dove i lari e i penati sono si i protettori della casa, ma sono anche da scongiurare; anche nel mondo celtico il giorno di Halloween era il giorno in cui i morti ritornavano e bisognava dare loro il sacrificio o il cibo.

Ancora oggi abbiamo culture africane con tribù dove si continua ad andare sulle tombe a versare quel poco di olio, di acqua o latte che hanno per il trapasso del cadavere. La sepoltura del cadavere intatto secondo un determinato rito è necessaria alla vita eterna.

Col cristianesimo, fin da subito, succede che i cadaveri dei martiri vengono gettati, dispersi; i cristiani, sull’onda della cultura romana, cercano i loro cadaveri e scrivono ai loro vescovi chiedendo spiegazione sul destino di questi corpi. Sant’Agostino (354-430) nel De cura pro mortuis gerenda, spiega che il rispetto per i cadaveri è importante, ma che la resurrezione dei corpi non dipende dalla sepoltura del corpo stesso. E di lì avanti una tradizione che ha permesso all’Italia, culla del cattolicesimo, di essere l’unico luogo dove si sezionavano i cadaveri, con delle regole precise per evitare trafugamenti di cadaveri o omicidi di poveri (v. processi in Inghilterra nel ‘700).

Ma torniamo ai nostri monaci, cosa fanno, pregano, ma preparano anche elisir, medicine, toccasana, insieme a benedizioni, in una visione che oggi si direbbe olistica, unitaria, nella quale si unisce la necessità di uno spirito e di un corpo curati. La medicina di oggi, per molti aspetti straordinaria, ha perso la dimensione del nostro essere fatti anche di anima, del fatto che ci debba essere anche un’anima che sostiene un corpo sano, altrimenti ci troviamo di fronte, come insegnante penso ai miei studenti, a tanti corpi sani con dentro delle anime depresse che si accartocciano ancora di più dei corpi malati, ma con un’anima forte.

A Chartres, a Cluny, a San Gallo, a Montecassino, a Roma, a Farfa, a Fossanova, questi medici curano i malarici, curano i malati; per primi, secondo la Regola di San Benedetto, hanno l’obbligo di curare i malati del convento, poi iniziano a uscire anche fuori.

Si arriva così alla Schola medica di Salerno, la prima scuola medica, che nasce da un preesistente avamposto dell’abbazia di Montecassino.

Uno dei temi molto interessanti per l’argomento che stiamo trattando, sono le grandi pestilenze, descritte e raccontate da grandi storici laici, spesso anglosassoni, che nei primi secoli del cristianesimo si diffondono fortemente. Questi storici, notano che le pestilenze sono uno dei momenti che segneranno la vittoria del cristianesimo. Perché? Perché il cristianesimo offre una qualche forma di spiegazione teorica. Il male rimane un mistero, vedere queste epidemie che seminano la morte, quella del 1347 stermina intere città.

Cosa succede. C’è una risposta, la prima molto semplice: si indica Cristo crocifisso che patisce. Il cristianesimo insegna che Dio stesso ha preso su di se il dolore, che questa vita non è tutto, insegna che un significato in questo dolore, se Dio lo permette, c’è.

Questo dal punto di vista teorico. Dal punto di vista pratico accade una cosa molto semplice: i cristiani soccorrono i loro fratelli e a volte anche gli altri in queste pestilenze, i pagani muoiono in quantità e molti cristiani si salvano. Perché in queste condizioni basta uno che si prenda cura dei propri familiari anche solo per dare loro da mangiare, per fare sopravvivere e guarire gli ammalati.

Dicono questi storici che deve essere stato abbastanza incredibile per i pagani che scappavano nelle campagne come fa il Boccaccia (1313-1375), vedere delle persone che rimanevano nelle città. Nei primi secoli ci rimanevano anche i vescovi, abbiamo attestazioni di diocesi nelle quali in un anno muoiono tre vescovi. Quando un sacerdote o un vescovo scappavano era uno scandalo enorme, se erano i pagani a scappare era normale.

«Il semplice fatto di provvederle di cibo e di acqua consentiva a persone temporaneamente troppo deboli per badare a se stesse, di ristabilirsi e guarire completamente». L’effetto delle disastrose epidemie fu di rafforzare le comunità cristiane in un’epoca in cui molte delle istituzioni cadevano nel discredito e il mondo pagano non sapeva  rispondere,  il mondo cristiano rispondeva. Ce lo dice una fonte insospettabile, Giuliano l’apostata (331-363) che scrive ai suoi sacerdoti di imitare quelli cristiani perché il paganesimo non muoia: stare lì, seppellire i morti, aiutare i propri parenti.

San Cipriano (210-258) scriveva della peste del 251: «questa pestilenza che ad alcuni pare orribile e micidiale mette a prova la santità di ognuno e pesa sulla bilancia il cuore umano, giudica se i sani servono gli infermi, se i parenti assistono pietosamente i parenti, se i padroni hanno pietà dei servi languenti, se i monaci abbandonano i malati che li cercano, se i delinquenti frenano le loro violenze, se gli usurai smorzano gli ardori indomabili della loro avarizia».

Mentre, come ci racconta il suo biografo, il diacono Ponzio, raccoglieva i fedeli e li istruiva nella necessità della misericordia che copra la moltitudine dei peccati, nello stesso tempo diceva che quella peste metteva alla prova la santità.

Di fronte alle pestilenze abbiamo tre atteggiamenti: quello caritatevole che molti cristiani adottarono che generò stupore e ammirazione e una maggiore sopravvivenza dei cristiani stessi; e la scelta epicurea. Quest’ultima ce la racconta Tucidide quando ci parla della peste di Atene, quando il motto era “mangia, bevi e sii felice giacchè domani moriremo”. Manca la prospettiva della vita eterna, ma questo atteggiamento lo ritroveremo anche in pieno medioevo, lo racconta il Boccaccio, ma la diversità qual è? Con l’affermarsi del cristianesimo, questa scelta detta epicurea, era una scelta riprovevole, da molti respinta.

La peste del 1347, uccise così tanti sacerdoti che, probabilmente, fu uno dei motivi di un crollo culturale della società, dato che i sacerdoti, che erano i più colti, morirono in massa. Abbiamo diocesi col 40% di sacerdoti scomparsi.

C’è il terrore, anche in Tucidide si trova la ricerca dell’untore e c’è il fatalismo.

Spostiamoci in un’altra zona del mondo, andiamo nell’Islam. Come reagisce il mondo islamico alle pestilenze? Per il mondo islamico le pestilenze sono un volere di Dio ineluttabile di fronte al quale rassegnarsi e morire come martiri senza contrapporsi. Una scelta che noi oggi chiameremo fatalista.

Quando i cristiani costruiscono i lazzaretti, quando gli stati cristiani istituiscono le quarantene, le leggi per bloccare arginare nei porti i possibili contagi, i musulmani ci deridono perché dicono che se Dio ha già scelto il suo bersaglio, l’uomo non è capace di opporsi a questo. Il fatalismo è la visione che non contempla la libertà che è un fondamento della visione cristiana.

Nella Genesi si legge “tu sei il re del creato, dominererai la terra”. Il fatalismo si ritrova anche nella cultura indiana. Quanta fatica fa Madre Teresa per mettere su i suoi ospedali. Perché Madre Teresa cura quei malati e che interesse ha a farlo? Personaggi importanti del mondo indiano polemizzarono a lungo con lei perché non si spiegavano il suo interesse per quelle persone che erano  gli intoccabili.

Nel mondo indiano ci sono le caste e il fatalismo della reincarnazione, un mix dove la nascita dell’ospedale risulta impossibile. La reazione di fronte alla peste, la stessa del mondo islamico, la rassegnazione, l’ inazione, il tentativo di proporre una divina indifferenza, un’astrazione dal mondo.

Nell’induismo il raggiungimento del Nirvana è una liberazione dal corpo. Ancora oggi in India c’è una cerimonia, nell’Orissa, a Puri, il 16 luglio, immensi carri recanti le statue di tre divinità vengono trainati da migliaia di intoccabili, i malati, gli storpi, vogliono buttarsi sotto ai carri perché chi muore sotto ad un carro esce dal ciclo delle reincarnazioni e si libera dalle sofferenze. Immaginate questa scena di migliaia di persone che trascinano questi carri e la gente che si butta sotto.

Gli intoccabili, gli impuri, che dovevano girar con i campanelli, che secondo le regole più dure, dovevano essere messi a morte se l’ombra di un intoccabile toccava l’ombra del bramino, sono contagiosi e ci rimandano all’altissima frequenza di pestilenze e alla reazione che provocavano: l’emarginazione non il lazzaretto.

Pensiamo poi al concetto della malattia come maledizione, come punizione, come malocchio, nella cultura africana. Anche qui l’istituzione ospedaliera non può nascere.

Intorno al Mille nascono questi ospedali lungo le vie dei pellegrinaggi, la via Francigena ad es., realtà nate da confraternite. A Siena l’ospedale è di fronte alla Chiesa e nasce dai canonici in una perfetta sintonia tra la cura dello spirito e quella del corpo. Cosa si fa all’ospedale di Santa Maria della Scala di Siena: si raccolgono i bambini abbandonati e quanti hanno bisogno di aiuto.

Com’è strutturato l’ospedale: c’è una grande corsia dove si provvede ai bisogni essenziali, ma piano piano, iniziano le specializzazioni. Alcuni ospedali hanno di tutto, anche il Monte di Pietà al loro interno, si forniscono borse di studio per gli orfani, una struttura variegata che si regge su volontari, non ci sono in questi secoli e a lungo non ci saranno, gli infermieri pagati.

All’ospedale di Siena troviamo membri di ricche famiglie che diventeranno rettori che, per entrare nell’ospedale, doneranno il loro patrimonio. Uno degli ospedali più importanti del Medioevo, l’ospedale del Santo Spirito a Roma, dove si formerà Camillo de Lellis (1550-1614), l’uomo che ha cambiato la figura dell’infermiere nella storia, nasce e cresce grazie alle donazioni di privati, cardinali e cosi via.

Esplodono, poi, gli ordini ospedalieri: l’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme che, prima, gestisce ospizi per pellegrini, poi diventa anche un ordine militare.

La Croce Rossa Internazionale nasce quando Jean Henry Dunant (1828-1910), dopo la battaglia di Solferino, vedendo le croci dei Camilliani che lavorano sui campi di battaglia, dà vita a questa istituzione sostenuto dalla nobiltà tedesca ancora radunata sotto l’ordine di san Giovanni di Gerusalemme nato 800 anni prima.

Gli Antoniani che si dedicavano ai malati colpiti dal fuoco di Sant’Antonio curandolo col grasso di maiale; l’Ordine di San Jacopo di Altopascio, i Cavalieri dei Tau, che si ponevano nei punti critici lungo le vie che vanno verso Santiago, Gerusalemme e Roma.

Non possiamo parlare della bellezza delle confraternite che si specializzano nel curare chi i poveri bisognosi, chi i carcerati, gli orfani o nel portare i malati negli ospedali, ci sono confraternite che si dedicano anche a redimere le prostitute.

Ma facciamo un balzo in avanti e arriviamo alla svolta del ‘400-500 quando l’ospedale in Italia, assume una connotazione da struttura dell’ospitalità, nella quale la figura del medico era presente e si era fatta strada gradualmente, a struttura dove il medico diventa fondamentale: si parla di ospedale della cura.

Gli ospedali italiani di questo periodo sono quelli che Martin Lutero (1483-1546) descrive come strutture straordinarie, pulitissime, dove i malati mangiano benissimo. Sono ospedali con corsie sempre più larghe, soffitti affrescati spesso con immagini della Madonna e di Santi, al centro, ben visibile da tutte le parti, l’altare, il tabernacolo, Cristo, il Sangue di Cristo.

Tra gli ospedali rinascimentali e quelli medioevali, non c’è rottura, ma una graduale evoluzione, come raccontano storici come Giorgio Cosmacini.

Con Giovanni di Dio (1495-1550) e Camillo de Lellis nasce la figura nuova dell’infermiere che divenendo sempre più un dipendente stipendiato vede diminuire il lato, l’aspetto caritatevole del suo lavoro. Camillo de Lellis vuole riportare gli infermieri a quella scientia et caritas originaria: studio, ma anche servizio disinteressato. Camillo de Lellis cerca di curare di più l’igiene, introduce le consegne fra gli infermieri, è il fondatore della figura dell’infermiere moderno.

Una breve parentesi sulla sifilide. Nel ‘500 fa la comparsa in Italia questa malattia. Un personaggio si distingue in questo periodo, il fondatore dell’Ospedale degli Incurabili, Ettore Vernazza (1470 ca.-1524), notaio, discepolo di Santa Caterina da Genova (1447-1510), la patrona degli Ospedali italiani. Santa Caterine è una Fieschi, sposata Adorno, una delle donne più nobili di Genova, diventa rettore dell’Ospedale del Pammatone, il più grande ospedale di Genova.

Ettore Vernazza fa parte di una delle tante confraternite e ne fonderà altre assieme a cardinali e a un futuro Papa, assieme a dogi e a futuri senatori che, quando entrano nella confraternita, indossano un abito, si coprono il volto per poter fare la carità senza essere riconosciuti. Questi personaggi delle più importanti famiglie genovesi si danno da fare per dare degli ospedali agli incurabili che non trovavano altri ospedali disposti ad accoglierli. I sifilitici erano tra questi.

Vernazza fondò il primo ospedale degli incurabili a Genova, poi si spostò a Roma dove il Papa gli offrì San Giacomo, un ospedale fatiscente, ma con l’indulgenza plenaria a chi farà donazioni per restaurarlo; poi instancabilmente si recò a Napoli dove trovò una nobildonna catalana, Maria Lorenza Longo (1463-1542), anche lei che aveva sofferto per delle malattie e si mise a disposizione ottenendo delle donazioni e così dette vita ad un altro ospedale.

Con Ettore Vernazza l’Italia si copre di ospedale per sifilitici. In Europa si contano 20 milioni di morti per questa malattia nel ‘500. L’Inghilterra arriverà due secoli dopo perché Enrico VIII (1491-1547), dopo lo scisma, sequestrò tutte le opere di carità in gran parte gestite dalla Chiesa e così l’Inghilterra rimase senza brefotrofi e senza ospedali.

Vernazza venne richiamato a Genova dal Doge per costruire un  lazzaretto perché la peste continuava a entrare in città attraverso il porto. Tornò a Genova, andò a salutare le sue tre figlie monache di clausura e alla foce del BIsagno fondò il lazzaretto e vi morì di peste.

Figure come queste sono figure che hanno vinto il naturale egoismo e la naturale ripugnanza verso queste malattie e hanno creato istituzioni che la nostra civiltà si troverà in mano e che i nostri stati, a partire dal ‘500 riceveranno e porteranno avanti fino ai nostri giorni.

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Andrea Bartelloni

PISA E I SUOI OSPEDALI NELLA STORIA

Qualche anno fa, nel 1986, a Pisa fu allestita una mostra che presentava al pubblico le strutture sanitarie pisane dal XIII al XIX secolo. Il catalogo della mostra, curato dall’assessorato alla Cultura del Comune di Pisa, mi è stato regalato da Patrizia Paoletti Tangheroni, dalla biblioteca del professor Marco Tangheroni (1943-2004), dopo la sua scomparsa. In questo catalogo sono presenti due suoi contributi.

Sono laureato in medicina e per anni ho attraversato l’ospedale della mia città senza pensare alla sua storia ma la passione per la storia la devo proprio al prof. Tangheroni e ad un corso di storia organizzato da Alleanza Cattolica nella sede pisana di via Sancasciani..

L’importanza della memoria storica sull’origine delle strutture sanitarie, è stata di recente sottolineata dal nostro Arcivescovo, mons. Giovanni Paolo Benotto, durante un incontro avuto con l’Associazione Medici Cattolici di Pisa: il cristianesimo, ricordava l’Arcivescovo, è all’origine dell’ospedale.

In due capitoli di questo volume, quello scritto dal prof. Tangheroni assieme ad Alberto Zampieri e la tesi di laurea del prof. Alessio Patetta, troviamo le prime testimonianze delle strutture sanitarie a Pisa.

Nel 1061 c’è già una fonte che attesta la presenza di una struttura sanitaria che, quindi, probabilmente, era già presente da alcuni anni. Un ospicium per poveri, una struttura che assisteva bisognosi in senso lato, anche malati, ma non solo, pellegrini, donne in difficoltà. Dall’anno Mille fino agli inizi del XIV secolo c’è una crescita enorme nel numero di queste strutture, dovuta anche all’enorme incremento demografico, si arriva a 54 istituti censiti (A. Patetta). Piccole strutture, per lo più nelle vicinanze di chiese e conventi.

Ad un certo momento succede qualcosa. Il nostro ospedale, Santa Chiara, si trova vicino alla Piazza dei Miracoli e queste due strutture hanno una storia simile. La vittoria della flotta pisana sui Saraceni in Sicilia con la conquista di Palermo nel 1063 e il bottino di guerra che viene portato a Pisa faranno nascere la Piazza dei Miracoli; l’Ospedale Nuovo che poi verrà dedicato a Santa Chiara, nacque anch’esso per una vicenda legata alle gesta della flotta pisana, gesta meno nobili in questo caso.

Nel 1241 Papa Gregorio IX (1170-1241) convocò un Concilio per dichiarare deposto l’Imperatore Federico II (1194-1250), a Genova si imbarcarono prelati, cardinali per raggiungere Roma, ma tra l’Isola del Giglio e Montecristo, nell’Arcipelago Toscano, vennero attaccati, tra gli attaccanti è presente la flotta pisana che era alleata dell’Imperatore: navi vengono affondate, prelati, chierici, cardinali, vengono portati a Pisa e alcuni tenuti prigionieri anche per tre anni.

La scomunica è immediata e ha gravato sulla città fino al 1257 anno in cui Pisa ottenne il perdono e l’assoluzione da Papa Alessandro IV (1199-1261), ma come tutte le assoluzioni sono seguite da una penitenza e tra le penitenze c’è la costruzione dell’ospedale. L’ospedale di Pisa nasce come espiazione di un peccato pubblico, anche grave per la violenza fatta a dei rappresentanti del Papa e nasce per riunire la maggior parte dei piccoli ricoveri presenti in città.

Nella chiesa di San Francesco, non in Cattedrale, in omaggio al mediatore, fra Mansueto Tanganelli, francescano, il giorno di Pentecoste del 1257 si svolge la cerimonia di assoluzione e fondazione del nuovo ospedale.

Il Papa lo battezzò col nome di Ospedale Nuovo di Pisa e volle dare anche un monogramma che doveva essere portato sui cappucci e sui mantelli e che ancora oggi si trova al portone d’ingresso dell’ospedale: una A ed E unite e sovrastate da una croce stanno a ricordare il nome di Alexander Episcopus, Papa Alessandro VI che volle quest’istituzione.

Al nome di Ospedale Nuovo si affiancò quello di Misericordia e nel 1344 quello di Santa Chiara che porta tuttora.

Dell’ospedale di Pisa, racconta il prof. Tangheroni, non ci sono descrizioni su come funzionasse e quale fosse la vita al suo interno, ma sicuramente non si discostava da quella che era la struttura e l’organizzazione degli ospedali della cristianità del periodo. Fu da subito posto sotto la tutela della città e dei suoi amministratori, fatto questo che si riscontra anche il altri ospedali italiani, anche se i compiti amministrati, di assistenza ai malati erano a carico di frati chierici che seguivano la regola di Sant’Agostino.

L’Ospedale Nuovo nasceva per riunire molte delle piccole strutture presenti in Pisa ad eccezione di quelli di pertinenza del Capitolo della Cattedrale, ma molte strutture rimasero, non confluirono nell’Ospedale Nuovo nonostante i reiterati inviti presenti negli archivi.

Queste mie brevi note sono state possibili grazie alla consultazione delle seguenti pubblicazioni:

H. Schipperges, Il giardino della salute, la medicina nel medioevo, Garzanti, 1988,

M.Tangheroni, A. Zampieri, L’Ospedale Nuovo nel suo primo secolo e mezzo di vita, in Strutture sanitarie a Pisa, Comune di Pisa, Assessorato alla Cultura, 1986, pp. 9-45,
A. Patetta, Gli ospedali a Pisa nel medioevo, ibid. pp. 49-75,
A. Patetta, A. Martinelli, L’ospedale di S. Chiara, Ets, 2004.