Il buonismo che distrugge fede e autorità paterna è diabolico

Ermanno Olmi

Ermanno Olmi

Tempi, 19 Settembre 2011

Ermanno Olmi a Venezia presenta il suo ultimo film, Il villaggio di cartone, e accusa la fede di essere di intralcio alle opere. Una suora missionaria ad Haiti risponde: «Io aiuto gli altri per portare lo sguardo di Cristo, non per fare assistenza sociale». Torna in Italia dalla Svezia il padre messo in cella per aver dato uno scappellotto al figlio. Il buonismo dilaga e fornisce un assist diabolico al potere.

di Rodolfo Casadei

Contro il buonismo non bisogna mai abbassare la guardia. Perché non è solo una visione semplicistica della realtà ed è molto più di una forma di ipocrisia caratteristica di politici e giornalisti in cerca di consenso: è un’arma dell’arsenale del diavolo, e non sto esagerando.

Negli ultimi giorni due fatti di cronaca hanno lasciato scorgere il volto diabolico del buonismo: la presentazione del film Il villaggio di cartone di Ermanno Olmi a Venezia e il rientro in Italia di Giovanni Colasante, il padre italiano arrestato, processato e condannato a Stoccolma per l’accusa di aver maltrattato il figlio.

Non ho visto il film di Olmi, ma ho letto i resoconti della sua conferenza stampa e le recensioni della pellicola. Un’interpretazione benevola legge la sua ultima opera come un forte richiamo al vero amore cristiano contro una fede formalistica: la chiesa sconsacrata torna ad essere luogo veramente abitato da Dio nel momento in cui si trasforma in asilo per immigrati clandestini.

«I cattolici dovrebbero ricordarsi più spesso di essere cristiani», ha ammonito il regista. Parole ineccepibili, ma che nella Chiesa riecheggiano sin dalle origini: «La fede, se non ha le opere, è morta in se stessa» si legge nella lettera di san Giacomo (2,18) e si insegna a catechismo da ben prima che Olmi alzasse il suo dito ammonitore.

Purtroppo il film non ha come bersaglio polemico l’incoerenza fra la fede e le opere, bensì la fede come tale: per l’autore de L’albero degli zoccoli è essa stessa uno degli orpelli di cui la Chiesa si deve liberare se vuole poter fare del bene agli uomini. È essa stessa cartone, come il cartone di cui è fatto il crocifisso che viene rimosso all’inizio.

Lo si intuisce dalle parole del vecchio parroco, in crisi di fede, che riflette sulla vicenda di cui diventa protagonista: «Ho fatto il prete per fare del bene» riflette, «ma per fare il bene non serve la fede. Il bene è più della fede». Che il senso del film sia questo lo chiariscono ancor meglio le parole di Olmi in conferenza: «Quando è vero, il peso dei dubbi deve essere anche superiore alla stessa fede. Occorre sempre avere un muro di dubbi».

Niente è più artificioso di questa contrapposizione fra la fede e il fare il bene, e di questa elucubrazione sulla superiorità del secondo sulla prima; niente è più pericoloso – e diabolico – di questa svalutazione radicale della fede. Dai miracoli di Gesù e degli apostoli all’istituzione medievale degli ospedali, da Giovanni Bosco a Madre Teresa, alle migliaia di opere caritative, assistenziali, educative, rivolte al disagio sociale create negli ultimi cent’anni da schiere di religiosi e di laici cristiani, il messaggio è sempre lo stesso: le generazioni che si sono succedute nel mondo hanno potuto continuamente vedere sgorgare dalla fede in Cristo l’accoglienza e la cura dei bisogni umani.

Settimana scorsa ero presente a un incontro con una suora francescana missionaria ad Haiti in una parrocchia della provincia di Milano. Suor Marcella Catozza ha aperto un ambulatorio a Waf Jeremie, una delle più immonde baraccopoli di Port-au-Prince, e sta collaborando con tutte le sue forze (e quelle dei suoi numerosi amici in Italia) alla ricostruzione del quartiere dopo le devastazioni del terremoto del 2010: 122 case sono tornate in piedi migliorate rispetto a prima e altre 100 stanno sorgendo.

Là dove c’era una discarica è sorta una scuola per 400 bambini, che quest’anno diventeranno 800; c’è anche una mensa per i bambini che dopo l’apertura della scuola diventerà una mensa per disabili. Sta per nascere una “piazza dei mestieri” per insegnare un lavoro ai giovani. «Avevo molte obiezioni pratiche ad andare a fare apostolato in quel quartiere», ha raccontato suor Marcella. «Finchè l’arcivescovo, che poi è morto nel terremoto, non ci ha detto: “Portate Cristo e la Chiesa a quella gente”.

L’ho sentita come una sfida alla mia vocazione, che non potevo respingere. Siamo lì per portare a ciascuno lo sguardo di Cristo, non per fare delle cose. Siamo lì perché Cristo ha amato noi e noi amiamo Cristo, non per risolvere i problemi del quartiere: sono talmente grandi che non ne saremmo capaci. Se stessi lì come un’operatrice sociale, me ne andrei delusa dopo tre mesi, perché vedrei che i miei sforzi possono cambiare ben poco. Invece sto lì come una missionaria da sei anni, e sono contenta».

Non che un orpello, la fede è ciò che anima l’amore verso il prossimo, che aiuta a mantenere il senso del limite, che permette di sopportare i fallimenti, che consente ai poveri di intravedere una risposta più grande al loro bisogno e un senso più profondo alla loro sofferenza. Perché invitare i cristiani a metterla da parte come condizione per essere più liberi di amare? Solo per una suggestione diabolica, non c’è dubbio: è proprio del diavolo tentare l’uomo facendogli credere che può servire il bene, la giustizia, ecc. senza bisogno di prosternarsi di fronte a Dio.

Il risultato, però, sarà un aumento dell’ingiustizia e della presenza del male nel mondo, perché un uomo senza fede è un uomo più debole, e quindi più facilmente manipolabile dal potere; e il potere cerca solo altro potere. Cristo ha detto: «Io ho vinto il mondo». Senza fede, a vincere è il mondo. Ha scritto mirabilmente Alexis de Tocqueville: «L’uomo, se non ha fede, bisogna che serva e, se è libero, che creda». La richiesta ai cristiani di rinunciare alla fede, o di relativizzarla, non è innocente: è propedeutica a un mondo di servitori, dove più nessuno sia in grado di opporre resistenza alle menzogne del potere.

La stessa perfida ipocrisia si ritrova nel modello svedese di lotta ai maltrattamenti dei minori. Quella che viene fatta passare come implacabile giustizia, pronta a gettare dietro le sbarre e a multare alla minima infrazione (presunta) anche un padre che non ha niente dell’orco, ha palesemente prodotto nel caso della famiglia di Canosa di Puglia un’ingiustizia ben più grande di quella che dice di aver voluto punire. E l’incidente svela il vero obiettivo, tutto politico, della legislazione svedese.

Giustamente il signor Colasante, tornato in Italia, ha dichiarato: «La vera violenza è stata far assistere mio figlio all’arresto di suo padre». Io aggiungerei che anche portare un ragazzo in un commissariato e sottoporlo a interrogatorio per poter incriminare suo padre è molto violento. Di solito è una scena che si vede nei telefilm della serie “Law & Order – Unità vittime speciali”, ma lì è questione di violenze sessuali o crimini di sangue, non di uno schiaffo o di una tirata di capelli. Ricordo una vacanza parecchi anni fa e un brivido mi corre lungo il cuore.

Mia figlia aveva 6 o 7 anni. Stavamo passeggiando su un lungofiume di paese, e lei gettò delle cartacce giù dal parapetto. Le arrivai uno scappellotto sulla parte superiore della testa. Lo schiocco fece inorridire mia madre, che ci accompagnava – non mia moglie che era lì e avrebbe fatto più o meno lo stesso al mio posto -. La bambina non disse nulla: probabilmente valutò che la marachella si sarebbe notata di più se protestava.

Oggi rabbrividisco al pensiero di come si sarebbe conclusa la storia se si fosse svolta a Stoccolma, di fronte ai testimoni che hanno “incastrato” Colasante. Penso ai danni difficilmente riparabili che la vicenda avrebbe causato a mia figlia: quanti anni di analisi le sarebbero voluti per liberarsi del senso di colpa che l’avrebbe presa per aver causato il mio arresto e la mia umiliazione, i comportamenti autopunitivi che avrebbe attuato per castigarsi, la perdita di autostima. Danni che le avrebbero fatto mancare tante opportunità nella vita.

Questa ovviamente è solo unipotesi irreale, ma in casa della famiglia Colasante sono state create le condizioni perché l’incubo diventi realtà. Grazie a una legge e al modo in cui testimoni, poliziotti e giudici l’hanno intesa: se un intervento correzionale dei genitori causa dolore fisico al figlio, in qualsiasi forma e in qualsiasi grado, i genitori sono colpevoli di un crimine. E di quel che ne sarà domani del figlio dodicenne del signor Giovanni non importa a nessuno.

Più che a difendere i minori, la legge serve a distruggere l’autorità dei padri. Se la legge servisse a proteggere i bambini, ci si sarebbe posti il problema della proporzione fra sanzioni e danni: quelli fisici che il minore patirebbe dall’atto manesco, ma anche quelli psicologici conseguenza dell’essere coinvolto in un’azione giudiziaria contro suo padre, e infine i danni che si recano alla figura paterna, la cui autorevolezza pedagogica esce azzerata.

Così evidentemente non è, se il giudice ha emesso una sentenza dove Colasante viene condannato perché il suo intervento ha causato dolore fisico al ragazzo. La sussistenza di “dolore fisico”, anche minimo, ha la preminenza su qualunque altra considerazione: difficile immaginare una concezione del benessere del minore più rozza di questa. Ma il punto è proprio questo: il vero obiettivo della legge non è la protezione del minore; quello è semplicemente il pretesto per il vero obiettivo: la distruzione dell’autorità paterna.

La norma di legge non si preoccupa se da un processo giudiziario da essa motivata l’autorevolezza pedagogica paterna esce distrutta, perché è proprio a questo che la legge mira. La legge vuole che i genitori abbiano paura di educare i figli, e vuole che i figli si sentano più protetti dallo Stato che non dal padre e dalla madre. Vuole genitori timorosi di sbagliare, terrorizzati dall’idea di poter essere denunciati, magari dai propri figli, e che perciò rinunciano al compito dell’educazione e lo consegnano allo Stato.

Alimenta nei figli l’idea e la pratica dell’emancipazione dai genitori, ma solo per consegnarli alla dipendenza dallo Stato, padre artificiale che li manterrà bambini per sempre. L’alto tasso di imposizione fiscale e di spesa pubblica svedese ha esattamente questo senso: fare dei cittadini gli eterni figli viziati dello Stato, incapaci di vera autonomia, ad esso sottomessi per paura di perdere i benefici che esso elargisce.

Distruggete la fede, distruggete l’autorità paterna e avrete un mondo di eterni servi e di eterni bambini, integralmente sottomessi al potere: quello dello Stato e quello del mercato. Stato e mercato non sono male in sé, ma sono male quando diventano gli idoli ai quali si affida tutto intero il bisogno umano, la domanda di senso umana. Il buonismo porta esattamente lì.