Come legno di sandalo

Giuseppe_TaliercioJesus agosto 2011

A trentanni dal sequestro e dall’omicidio di Giuseppe Taliercio, dirigente della Montedison, ricordiamo la sua figura di cristiano esemplare. Chi lo uccise restò colpito dalla sua fede.«Il giusto è come il legno di sandalo», dice un proverbio orientale, «che profuma l’ascia che lo abbatte».

di Alberto Laggia

Era un bersaglio troppo facile: era abitudinario, non aveva la scorta e aveva rifiutato di portare con sé la pistola. Il suo ruolo dirigenziale ne faceva il simbolo perfetto del “servo del capitalismo”. Il suo cadavere venne ritrovato il 5 luglio 1981, in una via non distante dal Petrolchimico di Marghera.

Il corpo quasi irriconoscibile dell’ingegner Giuseppe Taliercio, direttore dello stabilimento Montedison, rapito dalle Brigate rosse 47 giorni prima, era piegato nel bagagliaio di una Fiat 128 bianca. A finirlo, dopo sevizie e giorni senza nutrimento, erano stati 16 colpi di pistola esplosi dal capo della colonna brigatista veneta, Antonio Savasta. Taliercio aveva 54 anni, una moglie e cinque figli.

Un silenzio assordante ha accompagnato il trentesimo anniversario dell’uccisione del dirigente della Montedison trucidato dalle Brigate Rosse: pochi articoli sulla stampa locale e qualche riga tardiva su un paio di quotidiani nazionali, Anche la stampa cattolica non ha versato molto inchiostro nel ricordare il tragico avvenimento e la figura eroica dell’ingegnere toscano.

Eppure Giuseppe Taliercio non è stata solo una delle tante vittime dei terribili Anni di piombo che hanno insanguinato un decennio della nostra storia patria. Giovanni Paolo II, su richiesta dell’allora patriarca di Venezia, il cardinale Marco Gè, lo ha inserito tra i martiri cristiani del Novecento che si ricordano ogni 24 marzo. E un martirio fu davvero la sua morte. «Se un seme non muore nella terra non può dare frutto.

Da venti secoli i martiri cristiani sono stati un seme di nuove primavere per l’umanità e non solo per la Chiesa. È accaduto anche sulla tomba di Taliercio. il suo esempio, la sua forza d’animo sono stati così forti da suscitare addirittura il ravvedimento di alcuni dei suoi carnefici», afferma padre Luigi Francesco Ruffato, francescano minore conventuale, che fu il confessore negli ultimi anni “mestrini” del dirigente Montedison, e che ha dedicato ai suoi giorni di prigionia un’opera teatrale.

«Gli sono state intitolate vie, aule universrtarie, anche un palazzetto dello sport a Mestre, ma quanti giovani italiani sanno chi fu Taliercio? E che fu assassinato dalle Brigate rosse? Dimenticarlo sarebbe ucciderlo una seconda volta», sentenzia amaro il religioso.

Ingegnere, figlio di un commerciante, e ultimo dì quattro fratelli, Giuseppe Taliercio si era trasferito stabilmente a Mestre già dal 1954, anno del suo matrimonio con Gabriella, che aveva conosciuto in Azione cattolica, Nel 1980 assume la direzione del Petrolchimico di Marghera, ovvero del colosso chimico italiano, nel polo industriale che, allora, era il più importante del Paese.

La Montedison e i suoi dirigenti sono già da tempo un obiettivo strategico del terrorismo. Tant’è che in quello stesso anno vengono assassinati, sempre a Marghera, il vicedirettore Sergio Gori («fu un errore, miravano a me», confessò una volta) e, a distanza dì pochi mesi, i commissario di polizia Alfredo Albanese, che seguiva le indagini.

«Ero solo un ragazzino dodicenne nel 1981», ricorda Antonio Taliercio, l’ultimo dei figli di Giuseppe, «ma rammento bene la sua preoccupazione espressa più volte a tavola, dopo aver assunto l’incarico di direttore del Petrolchimico. Fu un anno davvero difficile, il clima era al limite del sostenibile. Papà, che non temeva nulla, neanche d’esprimere disaccordo con alcune scelte strategiche dell’azienda, era teso e si sentiva attorno la terra bruciata. Ma, da credente, dava sempre un senso “ulteriore” alle responsabilità assunte, Lo trovavamo spesso con la Bibbia tra le mani, leggeva con predilezione particolare le epistole di san Paolo».

A poche settimane dal suo rapimento, Taliercio aveva chiesto il trasferimento a Milano per tutelare la sicurezza della famiglia, ma era già troppo tardi. Il 20 maggio 1981 entra in azione un commando di brigatisti che fanno irruzione nella sua abitazione di Mestre travestiti da finanzieri e, davanti alla moglie Gabriella e a due dei suoi figli, viene chiuso in un baule, portato fuori casa e sequestrato. Dopo 47 giorni di prigionia, a luglio, il tragico epilogo.

Molti ancora si chiedono: perché proprio lui? Perché un dirigente così retto e mite? Perché un cattolico? Forse perché nella logica della lotta armata quell’incarico nella “fabbrica della morte”, la “Mortedison” com’era definita l’azienda chimica, era il simbolo del “nemico di classe” da abbattere.

«E poi papà era un bersaglio facile: aveva rifiutato più volte la scorta, per non mettere a rischio la vita di altri per colpa sua, diceva. Così come aveva rifiutato di portare con sé la pistola, come gli avevano proposto», ricorda ancora il figlio Antonio che rivela per la prima volta un altro episodio: «Proprio la sera prima del rapimento ricevemmo a casa una strana telefonata. Volevano papà, ma alla richiesta di mia madre di presentarsi con nome e cognome, riattaccarono». Un tentativo estremo di allertare il dirigente da parte di chi sapeva qualcosa? Forse.

«Colpirne uno per educarne cento» era uno dei terribili slogan usati dalle Brigate rosse, Pensavano di fare così anche con Taliercio, Col suo martirio sarebbe invece accaduto esattamente il contrario. Il «servo delle multinazionali imperialiste», com’era definito l’ingegnere di Marina di Carrara dai brigatisti nei comunicati diramati durante il suo sequestro, si rivelò essere una persona lontana anni luce da quelle farneticanti etichette ideologiche. «Mio padre riteneva che la fabbrica, pur con tutte le sue contraddizioni, fosse luogo in cui poter esercitare la promozione umana, “il posto del progetto di Dio per la mia vita”, diceva. Amava e rispettava i suoi operai, era conciliante con i sindacati e di una competenza enorme», afferma ancora il figlio di Taliercio,

«Mi capita ancora d’incontrare qualche ex dipendente del Petrolchimico», prosegue ancora Antonio Taliercio, «e ogni volta percepisco chiaramente nei loro ricordi la gratitudine per la disponibilità che aveva sempre papa nei loro confronti».

Taliercio era entrato nella Conferenza di San Vincenzo già nel 1960 e presiedeva quella aziendale facendosi carico personalmente dei problemi dei dipendenti. «Durante i giorni festivi si dedicava ad una attività che teneva nascosta», testimonia Pietro Stocco, operaio ex dipendente della Montedison e suo amico personale: «Faceva visita ai lavoratori dello stabilimento con particolari problemi di salute o economici».

II figlio Antonio ne ricorda anche la sobrietà, la parsimonia e lo scarso attaccamento alle cose che lo contraddistinguevano: «Papa era persona sobria in casa, ma questo stile lo portava anche in azienda. Già trentanni fa pensava che un dirigente dovesse privarsi di tanti privilegi». Così, ad esempio, allungava la vita alle auto aziendali e si diceva di lui, con una battuta, che in quegli anni «avesse fatto risparmiare non poco alla Montedison».

«Un precursore di una sensibilità cresciuta solo oggi», commenta Antonio, Sceglierlo come bersaglio-simbolo, per le Brigate rosse fu un errore strategico grave. Provarono a “processare” un uomo che non conoscevano, che, con la fermezza e la mitezza dei forti, dava ragione delle sue scelte e scardinava dall’interno la convinzione che la lotta armata fosse l’unico mezzo per migliorare la società. Lo dicono le testimonianze dei suoi stessi carcerieri.

Così scrive nel 1987 in una lettera a Gabriella Taliercio una brigatista poi dissociata e pentita: «Nella nostra follia volevamo colpire il simbolo, ma il vederlo accanto, giorno dopo giorno, ora dopo ora, ci portò inevitabilmente alla conoscenza dell’uomo, del suo spirito estremamente delicato, dignitoso, e mai arrogante. C’era nelle sue preghiere qualcosa che allora non capivo. Oggi comprendo che tutta la sua forza d’animo era intimamente legata al valore che lui dava alla preghiera. Questo era il suo mondo insindacabile, dove noi, con la nostra stupida razionalità, non potevamo raggiungerlo. I nostri processi, le nostre censure nulla potevano contro la fede».

Lo stesso Antonio Savasta, il killer del direttore del Petrolchimico, colui che andò fino in fondo senza ripensamenti nella trucida esecuzione, scrive così in una lettera ai familiari della vittima nel 1985: «Lo so, signora, questo non le restituirà molto, ma sappia che dentro di me ha vinto la parola che portava suo marito, L’ha vinta contro tutti coloro che, ancora oggi, non capiscono, Anche in quei momenti suo marito ha dato amore. È stato un seme così potente che, nemmeno io, che lottavo contro, sono riuscito a estinguere dentro di me».

Dice un proverbio orientale: «II giusto, come il legno di sandalo, profuma l’ascia che lo colpisce», Taliercio ha tutta la forza di quell’essenza, Sta di fatto che proprio la sua uccisione avrebbe convinto dell’assurdità e del fallimento del progetto sovversivo alcuni degli stessi aderenti all’organizzazione. L’esperienza del sequestro, come dimostrano gli atti dei processi, creò divisione in seno alla colonna veneta delle Br, anzi una vera e propria spaccatura organizzativa.

Dell’uomo Taliercio ha detto don Franco De Pieri, sacerdote e amico di Mestre, che seguì da molto vicino la vicenda: «Fu un “ecce homo”, sbattuto in prima pagina, rovistato in tutte le esperienze umane, rimasto integro e forte nella sua grande fede. Non era servo di nessuno. Non era iscritto ad alcun partito. Non apparteneva a logge o liste segrete. Non aveva club finanziari alle spalle, non aveva padrini, non aveva potere».

Era un uomo «con una statura e dimensioni superiori», continua don Franco, «lo hanno capito anche i suoi carnefici. La sua vita, il suo operato, la sua umanità, lo avevano reso un uomo esposto, indifeso da una parte, ma nello stesso tempo, il più inattaccabile. Hanno preso lui e durante la lunga prigionia credevano di piegarlo, di fargli cambiare modo di essere, di renderlo un uomo vittima, capace di accusare, di estorcere, di compromessi. Non ci sono riusciti. Lo hanno ucciso».

«Fu davvero un sacrifìcio non inutile quello di Taliercio, Alla fine la fede ha sconfitto l’ideologia», afferma padre Ruffato, Ma a che prezzo? «Del sangue del giusto. E si fece proprio l’impossibile per salvarlo?», si chiede il religioso, L’allusione è al comportamento dello Stato e della stessa azienda durante le settimane di sequestro del loro dirigente, «Le cronache non hanno mai fatto menzione di richieste di alcun riscatto, però fa pensare, ad esempio, il diverso esito del sequestro di Renzo Sandrucci, dirigente dell’Alfa Romeo, avvenuto pochi giorni dopo quello del direttore del Petrolchimico.

Dopo 50 giorni di prigionia da parte della colonna Br Walter Alasia il manager della casa automobilistica sarebbe stato rilasciato», osserva ancora Ruffato che ha appena realizzato un audiolibro sulla figura di Taliercio. Dubbi che non troveranno forse mai un chiarimento definitivo. Resta la testimonianza di un cristiano la cui fede e senso del dovere hanno portato alla via del martirio, Per lui vale davvero quanto recita il Siracide: «Un uomo si conosce veramente alla fine».