Cronache da Cuba, l’ultimo paradiso (2010) I

La rubrica di Yoani Sànchez su Internazionale

Yohani Sànchez è probabilmente la cubana più odiata dal regime comunista dell’isola ma non è una dissidente e neppure una oppositrice politica. E’ una  come tanti, che però da alcuni anni sul suo blog descrive la vita quotidiana nell’isola caraibica.

Su internet tiene una sorta di diario dove descrive il fallimento di una ideologia e di un regime che doveva dare libertà e felicità a tutti e che invece ha dato ai suoi connazionali una vita di miseria, di grigio squallore e quasi senza speranza. Alla Sànchez, stranamente, è stata affidata una rubrica sul settimanale di sinistra Internazionale.

Stranamente, perchè è qui che albergano gli ultimi nostralgici sostenitori del socialismo e per i quali Cuba ancora oggi rappresenta l’ultima illusione. In questo spazio vi proponiamo alcuni dei suoi articoli.

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a cura di rassegna Stampa

Internazionale n.828 del 8 gennaio 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

SPERANZE

C’è una frase premonitrice che si sente ripetere nelle strade dell’Avana in questi giorni: il 2010 sarà l’anno buono! Questo slogan è pronunciato indistintamente dai giovani e dai pensionati, dagli oppositori al sistema e dai fedeli militanti del partito comunista. Tutti sentono che la corda dell’attesa è ormai tesa al limite, mentre i cambiamenti promessi dal governo di Raùl Castro sfumano all’orizzonte.

Non bisogna essere degli indovini per capire dove porteranno la frustrazione e le privazioni materiali della popolazione. Il numero degli emigrati aumenterà, mentre la crisi rafforzerà il mercato nero e la sottrazione delle risorse; gli opportunisti avranno la strada spianata mentre i contestatori si scontreranno contro il muro sempre più impenetrabile del controllo e della censura. Di fronte a prospettive così cupe ci si chiede perché queste parole di speranza siano sulla bocca di tutti. A forza di ripetere questa litania ci siamo convinti che stia per trasformarsi in realtà.

Anche se probabilmente l’anno che è appena cominciato sarà segnato da una serie di calamità economiche, non si può escludere che l’aggravarsi della crisi faccia maturare alcuni fenomeni sociali che spingano all’apertura. La combinazione di crisi materiale, perdita di fiducia in un progetto e invecchiamento dei leader storici produrrà inevitabilmente dei cambiamenti. Insomma, ci sono buone ragioni per avere qualche speranza per il futuro. I più anziani riassumono quest’idea senza tanti giri di parole: “La cosa buona è che le cose vanno sempre peggio”. E lo dicono con le borse ancora vuote dopo un’ora di attesa per comprare delle uova

Internazionale n.829 del15 gennaio 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

STEREOTIPI

Mio figlio ha ricevuto in regalo un’enciclopedia per bambini. Per controllarne la qualità vado direttamente alla voce “Cuba”. Una breve frase racconta che viviamo su “un’isola dei Caraibi, dove gli indigeni seminano riso sui fianchi delle montagne”. All’inizio penso di aver sbagliato paese. Invece no, siamo descritti proprio così.

Dopo aver riso a lungo per un ritratto così sbagliato, comincio a riflettere su tutti i cliché cubani. Penso, per esempio, che nelle nostre strade non camminano solo le donne mulatte ritratte nei manifesti.

È rappresentato tutto lo spettro di colori. Dalle languide bionde con gli occhi azzurri fino ai toni più scuri. È possibile avere a che fare con una vastissima gamma di fedi religiose e posizioni politiche, con un’incredibile pluralità di opinioni sui temi più diversi. Ma questa varietà non è rappresentata nella nostra scena politica. Al contrario, c’è un gruppetto di capricciosi che ha deciso di tingere tutto dello stesso colore. Un’isola segnata dalla diversità ma legata a un discorso monocromatico. Sono stufa del fatto che cercano di farci credere che tutti i cubani giocano a domino. Che tutti pratichiamo la santeria e gridiamo slogan in piazza o che siamo esperti ballerini e acerrimi antimperialisti.

Sono stanca di vedere poche persone decidere chi è degno di portare o meno il nome di questa terra. Sono le stesse persone che si credono in diritto di chiamare “anticubano” chi la pensa diversamente sulle sacrosante leggi del partito. La nostra identità è stabilita secondo il metro dell’ideologia e della caricatura, ma la Cuba profonda ed eterna si fa beffe di tutti questi stereotipi.

Internazionale n.830 del 22 gennaio 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

PONTE TRA INNAMORATI

Per anni Ricardo ha cercato di non complicarsi la vita con un rapporto serio perché sognava di andarsene da Cuba. Ma lo scorso inverno ha conosciuto Niurka e, davanti a questa ventenne di Santiago, tutte le sue difese sono crollate. È bastato un bacio a mandare in fumo ogni resistenza: a marzo erano già inseparabili e progettavano di emigrare insieme ovunque fosse possibile.

A metà anno Ricardo si è sposato con un’inglese di quasi due metri e Niurka ha fatto da testimone alle loro nozze. L’aereo ha portato la strana coppia verso la luna di miele, mentreall’Avana la fidanzata, afflitta, cercava un trampolino per avvicinarsi alla grigia Londra do ve si era trasferito Ricardo. Niurka si è comprata alcune minigonne e ha cominciato a frequentare i posti in cui i turisti cercano ragazze dolci e belle.

Un sessantenne gentile, che vive a Parigi, si è innamorato del suo corpo esile e all’inizio di gennaio è tornato a Cuba con tutti i documenti necessari per suggellare legalmente l’unione. Si sono sposati in un giorno qualunque, che lei non racconterà mai ai futuri nipoti. E il visto di Niurka è arrivato tre settimane dopo. Niurka e Ricardo si sono dati appuntamento vicino a quel Mediterraneo che non somiglia affatto ai Caraibi dove sono nati. Lui dirà a sua moglie che un amico lo ha invitato a pescare e lei racconterà che va a trovare una parente emigrata.

Nessuno dei due sa come rimediare al cavillo legale in cui sono intrappolati, ma questi sono dettagli che affronteranno in seguito. Ora hanno solo tempo per amarsi, mentre in due diverse città europee delle persone tradite sono state il ponte che ha permesso loro di rincontrarsi.

Internazionale n.831 del 29 gennaio 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

L’ALTRA FACCIA DI VARADERO

Lingua di terra che entra nel mare, Varadero da l’impressione di voler viaggiare verso un altro paese, lontano e diverso. La stretta penisola mostra i suoi hotel di lusso e i turisti come un braccialetto ali inclusive legato al polso.

Gli autobus vanno avanti e indietro scaricando valigie e turisti sul territorio stretto e lungo della più bella spiaggia di Cuba. Alcuni rimarranno qui senza muoversi per due settimane per poi riprendere l’aereo e tornare a casa. E crederanno che sull’isola ci siano solo palme di cocco, creme solari e sabbia. All’ingresso della zona turistica, un ponte sul canale segna la frontiera con le altre province. Lo sguardo acuto dei poliziotti identifica le auto guidate dai cubani, a cui chiedono la ragione del viaggio prima di valutare se lasciarli passare o meno. Se le autorità ritengono che hanno intenzione di vendere illegalmente sigari, sesso o rum, li rimandano indietro per la stessa strada da cui sono arrivati.

Il controllo riguarda soprattutto chi esce. Varadero è il luogo di contrabbando delle risorse statali per eccellenza. I dipendenti degli alberghi tornano a casa con porzioni di cibo e bottiglie sottratte ai tavoli. Sistemano il bottino sotto i sedili della macchina, tra i vestiti o in qualche valigia a doppio fondo. La catena del contrabbando va dal cuoco all’autista che trasporta le merci su un terreno sicuro. Ognuno otterrà il suo beneficio dalla vendita sul mercato nero.

Di tanto in tanto qualcuno viene colto sul fatto e punito. Ma è difficile notarlo dall’immagine da cartolina patinata e irreale di questa spiaggia.

Internazionale n.832 del 5 febbraio 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

LA MUSICA COME PONTE

I ritornelli di salsa sono un antidoto contro le dosi di conflittualità iniettate dal potere. Decine di anni passati a gridare “traditore” a chi emigrava svaniscono al ritmo di una canzone interpretata da una delle tante voci dell’esilio cubano.

Al grido di Azùcar!, Celia Cruz riusciva a far ballare i suoi compatrioti a Hialeah e i militanti del partito comunista che la ascoltavano, a volume bassissimo, da questa parte dello stretto della Florida. La musica ha finito per unirci, mentre gli slogan ideologici fanno di tutto per allontanarci.

Pochi giorni fa il gruppo di salsa Los Van Van, il più importante del paese, è stato al centro di un dibattito per l’inizio della sua tournée negli Stati Uniti. Ci sono state opinioni contrastanti, e più che alla qualità delle interpretazioni si è data importanza a questioni non musicali. Invece di lasciarsi trascinare dalla musica, alcuni emigrati cubani hanno puntato il dito contro i legami del gruppo con il regime e la sua partecipazione a una serie di attività organizzate dalle autorità dell’isola.

È la cultura a perdere quando le valutazioni di partito hanno la meglio sul valore di una canzone. È stata proprio questa la ragione che ha impedito a molti artisti della diaspora di venire a cantare per il loro pubblico nei teatri cubani. Se molto timidamente i musicisti che vivono sull’isola hanno cominciato a esibirsi di fronte alla comunità cubana -rinnegata e stigmatizzata-che vive all’estero, il contrario non è avvenuto.

Eppure non abbiamo smesso di ascoltare i “proscritti”, quelli con cui abbiamo ballato nell’intimità delle nostre case, con il volume basso delle cose proibite.

Internazionale 835 del 26 febbraio 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

I NUOVI RUSSI

Arrivano i russi!”, gridava qualcuno spaventato, mentre altri ribattevano: “Benvenuti i sovietici!”. Preferire un’esclamazione all’altra era una questione ideologica. Da bambini i cubani della mia generazione non avevano dubbi su quale frase scegliere: vedevano film e cartoni animati russi e salivano felici sulle Lada so-vietiche. A ovest della città svettava un edificio, sede dell’ambasciata dell’Unione Sovietica, ribattezzato la “torre di controllo” per la sua architettura e per i suoi significati politici.

La diciannovesima edizione della fiera internazionale del libro, che si è appena svolta all’Avana, era dedicata alla patria di Lenin. Al cinema hanno proiettato vecchi classici come Guerra e pace e, tra lo stupore di molti, la tv ha trasmesso in prima visione la serie Il maestro e Margherita, basata sul romanzo satirico di Michail Bulgakov. È stata incredibile anche l’acida critica che i giornali del settore hanno riservato alla presentazione del balletto del Bolshoi, un tempo fiore all’occhiello della cultura sovietica, che ha deluso il pubblico esigente dell’Avana.

Questa volta i russi non sono arrivati in grandi gruppi, vestiti con pantaloni abbondanti e camicie bianche rimboccate fino al gomito. Non li abbiamo neanche chiamati los bolos, gli amorfi, un appellativo tra lo scherzoso e l’affettuoso che gli avevamo affibbiato per i loro prodotti industriali poco sofisticati.

Oggi si fanno vedere in discoteca, sembrano imprenditori e usano profumi francesi. Ci hanno portato libri che affrontano diverse tematiche, con pochi titoli di marxismo e leninismo. Nessuno ha gridato spaventato: “Tornano i sovietici!”.

Internazionale n.837 del 12 marzo 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

LO STESSO RITORNELLO

“Lucha tu yuca, taino, lucha tu yuca” (lotta per la tua yucca, taino, lotta per la tua yucca) è il ritornello di una canzone che ha invaso l’isola. La metafora svela una realtà che i mezzi d’informazione ufficiali nascondono: per poter sopravvivere alle difficoltà quotidiane bisogna violare la legge, nonostante i controlli. I cubani oltrepassano la linea della legalità con la tranquillità di chi è abituato a farlo fin da bambino, comprando al mercato nero, sottraendo risorse allo stato o esercitando una professione per cui non sono abilitati.

In un panorama di schizofrenia economica, in cui convivono due monete da più di quindici anni, l’ossessione nazionale è la ricerca dei pesos convertibili. Con questi si aprono le porte di negozi pieni di cianfrusaglie, in cui un litro di latte può costare lo stipendio di quattro giorni di lavoro. Ma ci sono oggetti e servizi che neanche quelle banconote colorate possono comprare: una casa, una macchina, un giornale straniero, una linea telefonica fissa o una connessione internet.

Da mesi la speranza di cambiamenti nata con il passaggio di potere a Raoul Castro è svanita. Al desiderio di maggiore flessibilità, il fratello di Fidel ha contrapposto una disciplina militare per far aumentare la produzione agricola e ha moltiplicato gli appelli al sacrificio. Ma gli effetti della sua politica non si sono ancora visti nelle tasche dei cubani. Di fronte alla lentezza e alla mancanza di volontà politica di cambiare, guardiamo verso l’alto e canticchiamo come una premonizione questo ritornello: “El cacique delira, està que preocupa, tu taino, tu, lucha tu yuca” (il cacicco delira, c’è da preoccuparsi, tu taino, tu lotta perla tua yucca).

Internazionale n.838 del 19 marzo 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

BASEBALL

Come ogni anno, il campionato nazionale di baseball appassiona milioni di cubani. “La pelota”, come viene chiamato, è da molti anni lo sport nazionale ed è spesso l’argomento di accese discussioni nei parchi dell’isola.

Per chi come me vorrebbe che i cubani si occupassero di questioni più importanti, è frustrante vedere gruppi di uomini che gridano e si sbracciano per stabilire chi è il miglior battitore del campionato invece che per reclamare diritti fondamentali o per discutere di come mettere fine al sistema della doppia valuta. Ma la prima passione sportiva dei cubani non è estranea alle vicende politiche. Capita che una star del baseball decida di non rientrare nel paese dopo un viaggio all’estero o che un giocatore non sia convocato per un evento internazionale perché considerato poco affidabile e a rischio di diserzione.

In un recente incontro dei play off, un giocatore si è infuriato perché, secondo lui, la palla gli era stata lanciata addosso di proposito, così si è messo a inseguire il lanciatore cercando di colpirlo con la mazza. I giocatori in panchina si sono alzati, alcuni tifosi sono scesi in campo ed è intervenuta la polizia con spray orticanti. I cameramen hanno voluta-mente ignorato la rissa e gli spettatori a casa non si sono resi conto di cosa stava succedendo. Ma decine di macchine fotografiche digitali e di cellulari hanno filmato ogni dettaglio dell’azione. Così la rissa, registrata su ed e copiata su memorie usb, è stata vista da migliaia di persone.

Chissà quante belle discussioni ci saranno state nei parchi di tutto il paese!

Internazionale n.839 del 26 marzo 2010

Dall’Avana Yoani Sànchez

ETICHETTE

Nel 1959 i barbudos arrivarono al potere e bollarono tutti i loro nemici come “sbirri e torturatori della tirannia”. In seguito alle leggi rivoluzionarie che portarono alla confisca di tutte le proprietà produttive, in quel gruppo iniziale di nemici entrarono anche gli “sfruttatori degli umili” e i nostalgici del “mortificante passato capitalista”. Negli anni ottanta agli oppositori del sistema si aggiunsero quelli che “non erano disposti a sacrificarsi per un futuro luminoso”.

Da decine di anni a Cuba sono comparsi anche i cubani secondo i quali le cose si dovevano fare in un altro modo, quelli che sono arrivati alla conclusione che un intero paese fu trascinato in una missione impossibile, molte persone che vorrebbero introdurre qualche riforma e perfino qualcuno che vorrebbe cambiare tutto. Ma i barbudos continuano a fare di tutta l’erba un fascio, aggiungendo ai loro nemici tutti quelli che osano scontrarsi con l’unica possibile “verità” monopolizzata dal potere. Non importa se sono socialdemocratici o liberali, democristiani, ambientalisti o semplicemente dissidenti indipendenti. Sono tutti oppositori, mercenari, vendipatria, insomma, agenti dell’imperialismo.

Sfortunatamente, le etichette non riempiono solo i discorsi e gli editoriali della stampa ufficiale, ma svolgono un ruolo anche nei registri della polizia e nei documenti della giustizia. Ecco perché ci sono almeno duecento cubani detenuti perle loro opinioni, che scontano condanne in carcere con l’accusa di aver commesso atti che la legislazione nazionale considera reati comuni e che non avrebbero niente di criminale se il paese avesse un sistema politico più tollerante e plurale.

Internazionale n.840 del 2 aprile 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

BICICLETTE

Vent’anni fa le strade cominciarono a riempirsi di biciclette e a svuotarsi di macchine. Non era una moda per proteggere l’ambiente o tenersi in forma, ma la conseguenza della fine dei sussidi sovietici. Il rifornimento di petrolio a prezzi preferenziali si interruppe, i trasporti pubblici si fermarono e mio padre perse il lavoro come macchinista di treni. In quegli anni per arrivare al lavoro ci si poteva mettere anche mezza giornata.

Poi arrivarono i carichi di biciclette dalla Cina, che furono distribuiti tra operai e studenti modello. Il premio per un lavoro ben fatto o per l’appoggio ideologico incondizionato non era un viaggio in Germania Est o l’ultimo modello di Lada, ma una fiammante bicicletta Forever. Si diffusero i parcheggi per le bici e mio padre aprì un’officina per riparare le ruote bucate. Anche le donne più anziane, restie a mostrare le gambe, si adattarono alla situazione.

Con la dollarizzazione dell’economia, i funzionari, gli artisti e gli stranieri che vivevano a Cuba furono autorizzati a importare le loro auto. I turisti potevano noleggiare una Peugeot o una Citroen. Le strade si riempirono di nuovo di macchine e le bici diminuirono, perché non arrivavano più i carichi via mare, i pezzi di ricambio erano pochi e i cubani si erano stancati di pedalare.

Oggi, grazie a un piccolo miglioramento dei trasporti pubblici, molti si sono disfatti della compagna a due ruote. Come se bastasse questo per dimenticare la crisi.

Internazionale n. 841 del 9 aprile 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

CONTRO LA RICCHEZZA

Per i cubani della mia generazione aspirare al successo è come essere affetti da una terribile deviazione ideologica. Siamo stati educati a essere umili. E se per caso riceviamo qualche riconoscimento pubblico, dobbiamo ricordare i nostri compagni, perché senza il loro aiuto sarebbe stato impossibile ottenere questo risultato. Lo stesso vale per chi possiede un oggetto, gode di qualche comodità o nutre la “malsana” ambizione di avere successo.

La competitivita è stata bollata con etichette difficili da cancellare dal nostro fascicolo personale, come l’accusa di essere “autosufficiente” o “immodesto”. Il successo deve essere o sembrare comune, ottenuto grazie allo sforzo di tutti sotto la saggia guida del partito. Cosi abbiamo imparato a dissimulare l’autostima e a tenere a freno l’entusiasmo e l’intraprendenza. In questa società che ha tarpato le ali ai più coraggiosi, i mediocri hanno trovato la terra promessa. Siamo cresciuti in un’epoca in cui bisognava nascondere i beni materiali, dimostrare che eravamo tutti figli di umili proletari e manifestare il nostro odio per i borghesi.

Alcuni hanno finto di abbracciare l’egualitarismo ma in realtà hanno continuato ad accumulare privilegi e fortune, ripetendo nei loro discorsi gli appelli all’austerità. Nelle loro autobiografie raccontano di provenire da una famiglia povera e di voler servire la patria. Ancora oggi indossano la maschera della frugalità, anche se le loro grosse pance dicono tutto il contrario.

Internazionale n.842 del 16 aprile 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

MANÌE DA PAVONE

In un mondo in cui da una parte regna la moda mentre dall’altra dominano gli stracci, quello che indossiamo è diventato un elemento di giudizio. È l’epoca in cui tutti si pavoneggiano, sfoggiando più di quanto permettano le tasche. Per le strade dell’Avana c’è un andirivieni di Adidas, anche se molti di quelli che le portano non hanno acqua corrente o un materasso decente su cui dormire. Dopo anni di privazioni materiali, i cubani si sono arresi ai capricci dell’abbigliamento. È stato un lungo processo di attrazione verso i tessuti e le stoffe.

Tutto è cominciato nei grigi anni settanta, quando un paio di jeans potevano attirare l’accusa di essere filostatunitense e provocare rappresaglie per “problemi ideologici”. Poi è arrivato un momento in cui tutti ci vestivamo nello stesso modo, a causa della poca varietà offerta dal mercato razionato.

Con le rimesse inviate dagli esuli e l’apertura dei negozi in pesos convertibili il nostro abbigliamento è cambiato. Molti cubani sono stati travolti dalla valanga del consumismo e hanno cominciato a parlare degli ultimi modelli Benetton. Di fronte ai negozi si vedono persone stregate dai manichini, a cui sorridono mostrando un dente d’oro o un piccolo diamante incastonato nell’incisivo. Ma a casa quelle stesse persone hanno a malapena un piatto di riso o l’acqua e il sapone per farsi la doccia. Hanno scelto di portarsi dietro tutto quello che hanno: la loro ricchezza è quello che indossano.

Internazionale n.844 del 30 aprile 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

SCEGLIERE O ACCETTARE

II 25 aprile a Cuba si sono svolte le elezioni per scegliere i delegati che si occuperanno della gestione dei quartieri. Alcuni giorni prima del voto sono state diffuse le liste dei cittadini maggiori di 16 anni con diritto di voto e le biografie dei candidati che sarebbero apparsi su ogni scheda. Ma nessun elettore ha potuto leggere i programmi degli aspiranti delegati.

Circa otto milioni e mezzo di cubani hanno votato sulla base del livello di istruzione dei candidati, dei loro successi sul lavoro o della loro parte­cipazione alla difesa della patria. Non sapevano, per esempio, se un candidato era favorevole a una maggiore apertura economica del paese o se voleva rafforzare il centralismo. La propaganda ufficiale ha ripetuto allo sfinimento che i candidati non erano stati nominati da nessun partito politico e che la scelta dipendeva dai loro meriti. Ma non ha diffuso dei programmi che spiegassero come cercheranno di risolvere i problemi delle varie comunità.

Diventa inutile votare per qualcuno senza sapere se è favorevole alla liberazione dei prigionieri politici e all’eliminazione della dualità monetaria, o se invece appoggia il pugno di ferro e la schizofrenia del peso convertibile e del peso cubano. Così molti miei connazionali hanno votato senza fermarsi a pensare chi stavano eleggendo. Non ci sono grandi differenze, perché il loro talento di amministratori è limitato, mentre il loro grado di fedeltà al governo è molto

Internazionale n.845 del 7 maggio 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

IL PRIMO MAGGIO

Venerdì Yuri è stato convocato a scuola e ha dormito insieme ai suoi compagni su un banco nell’aula. La direttrice ha fatto l’appello prima del tramonto e li ha svegliati all’alba. Si sono incamminati verso plaza de la Revolución per unirsi alla sfilata della giornata dei lavoratori. Centinaia di migliaia di cubani hanno manifestato il i maggio in tutto il paese.

Quest’anno le istituzioni hanno fatto più pressioni del solito per garantire una partecipazione enorme, nel tentativo di dimostrare con i numeriche il governo ha ancora il sostegno del popolo. I festeggiamenti hanno cercato di nascondere la frustrazione che la crisi economica, la corruzione e la repressione contro i dissidenti e le Damas de bianco hanno provocato tra i cittadini.

Un bagno di folla sembrava il modo migliore per sviare l’attenzione dai tagli del personale che stanno avvenendo un po’ ovunque. Quest’ondata di disoccupazione potrebbe lasciare un quarto della popolazione attiva dell’isola senza un posto di lavoro. Nonostante i preparativi, gli striscioni colorati e le frasi energiche, la sfilata non ha raggiunto le dimensioni di altri anni. Le autorità non sono riuscite a portare nella capitale tante persone come in passato, perché il combustibile scarseggia e il paese non può più permettersi certi lussi.

Non c’era neanche la stessa passione di un tempo tra chi gridava gli slogan o salutava verso la telecamera. Anche chi era in tribuna sembrava stanco di tante ripetizioni.

Internazionale n. 846 del 14 maggio 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

QUATTORDICI PIANI

II palazzo dove vivo è stato costruito venticinque anni fa dalle stesse persone che poi ci sono andate a vivere. Con la sua enorme struttura di cemento e la sua architettura jugoslava, questo condominio di quattordici piani è stato uno degli ultimi a essere costruiti sotto la supervisione di tecnici sovietici. Durante gli anni settanta e ottanta, un concetto innovatore chiamato “microbrigata” permise a chi aveva bisogno di una casa di costruirsela da solo. In molti credettero che questi edifici a dodici, diciotto e perfino venti piani avrebbero risolto i problemi abitativi del paese. Ma i nuovi quartieri in stile Europa dell’est non misero fine alla carenza di alloggi.

Quando ci siamo trasferiti qui, dopo sette anni passati a sistemare un mattone sull’altro, ci sentivamo gli ultimi beneficiari di un progetto urbanistico che era finito con il crollo del socialismo. Chi si accontentava di poco spazio divise la sua casa con altri o costruì appartamenti improvvisati sui terrazzi.

I figli delle 144 famiglie che abitano nel mio palazzo sono cresciuti, bisogna fare posto a generi, nuore, suocere e nipoti. Purtroppo la struttura non consente di ampliare i balconi di innalzare nuove pareti, ma la creatività ci ha permesso di tirar fuori due stanze dove prima ce n’era una.

Questi “grattacieli” sono il simbolo di un’epoca passata, e i bambini che corrono peri corridoi sanno a malapena che le loro case furono progettate come i vistosi immobili in cui avrebbe abitato “l’uomo nuovo”.

Internazionale n.847 del 21 maggio 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

SOTTO LA TUNICA

La chiesa cattolica cubana sembra decisa a svolgere un nuovo ruolo sociale in vista dei cambiamenti in arrivo sull’isola. L’alta gerarchla ecclesiastica ha condannato i cosiddetti “atti di ripudio” contro le damas de bianco e ha espresso solidarietà con la lo­ro richiesta di liberazione dei prigionieri politici.

I rapporti tra la gerarchia ecclesiastica e il governo rivoluzionario hanno attraversato varie fasi. Negli anni sessanta le contraddizioni erano forti, soprattutto perché l’ateismo era una componente dell’ideologia ufficiale. Alla fine degli anni ottanta, con la pubblicazione del libro Fidel e la religione e i contatti con i teologi della liberazione, i rapporti sono diventati più distesi. Nel 1991 il IV congresso del partito comunista ha concesso ai credenti di entrare nelle sue file.

A metà giugno si terrà la X settimana sociale cattolica, a cui dovrebbe partecipare il segretario di stato del Vaticano Dominique Mamberti. Comincia così la preparazione per i festeggiamenti, tra due anni, del seicentesimo anniversario dell’arrivo sull’isola di un’immagine della vergine della carità, patrona di Cuba. Per l’occasione si attende la visita del papa.

Poche persone si aspettano che appaia la madonna per mettere ordine nelle questioni cubane. La speranza è che gli esseri umani in carne e ossa, mossi dalla fede o per il bene del paese, cerchino un accordo che scuota l’isola dalla sua immobilità. La chiesa ha capito che non può ignorare queste esigenze.

Internazionale n.848 28 maggio 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

PICCOLI EROI

Gli eroi non sono quelli che nelle foto vengono sempre bene. Chiunque può diventare involontariamente il protagonista di un’epoca pur avendo un volto comune, le mani tremanti o una voce che non cattura il pubblico. Le ultime settimane confermano che a Cuba è possibile fare a meno dei salvatori carismatici, se le persone comuni decidono di non aspettarli.

La ribellione dei piccoli mina un sistema costruito sulla grandiosità e stinge un processo politico che ha voluto mostrarsi con i colori accesi dell’utopia. Le strade delle nostre città non sono piene di manifestanti e di striscioni, ma dietro le persiane delle case i sussurri d’insoddisfazione sono sempre più forti. Con una smorfia di fastidio, un applauso senza l’energia di un tempo o un commento acido, queste persone anonime stanno corrodendo alla base un potere arroccato sull’inerzia e la paura. La delusione guadagna terreno sui marciapiedi, negli uffici e nei vecchi taxi collettivi. Anche se la storia si muove secondo i suoi tempi, esasperanti per molti, la ribellione dei piccoli sta cercando di cambiare il ritmo dell’isola.

L’uomo che dimagrisce senza toccare cibo in ospedale, la donna vestita di bianco che percorre la strada con un gladiolo o il professore universitario che pubblica le sue critiche sono gli eroi di oggi. Non sono fotogenici, le loro voci esitano davanti a un microfono e le loro mani tremano quando sono in pubblico, ma sono sicuramente i protagonisti del cambiamento a Cuba.

Internazionale n.849 del 4 giugno 2010

Dall’Avana Yoani Sànchez

COMPAGNI DI VIAGGIO

C’è chi paragona, esagerando, Cuba alla Corea del Nord. È vero che i giornali cubani sono gli unici a non aver mai pubblicato commenti sulle carestie del paese asiatico e che sull’isola festeggiamo ancora l’arrivo al potere di Kim Il sung. Ma non ci somigliamo. Per molti anni i due governi si sono sentiti vicini nella lotta “contro l’imperialismo yankee”. Non ci sono state battaglie dell’uno che non siano state sostenute dall’altro né votazioni internazionali in cui non si siano trovati d’accordo.

Oggi per la prima volta l’amico dagli occhi a mandorla non ha sentito la solidarietà del suo alleato caraibico. In una brevissima nota il Granma ha reso noto che l’imbarcazione della Corea del Sud Cheo-nan è stata affondata in seguito all’impatto di un “presunto” siluro nordcoreano. Non si faceva riferimento alle vittime, ma neanche a una dichiarazione del ministro degli esteri cubano a sostegno del vecchio compagno di viaggio.

Cuba, in ginocchio per la crisi economica e in balia di un vuoto ideologico, non è in grado di affrontare anche questo problema. Chi ama andare a caccia di dettagli che rivelino cambiamenti nell’isola potrebbe studiare quest’indifferenza, diversa dagli accessi del passato. In altri tempi avremmo già sentito parlare dell’invio di missioni “a difesa del compagno minacciato da un’aggressione imminente”.

L’assenza di queste dichiarazioni fa nutrire qualche speranza. L’impressione è che ci stiamo curando da qualche pazzia.

Internazionale n. 850 del 11 giugno 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

VACANZE ESTIVE

Tra poche settimane centinaia di migliaia di cubani andranno in ferie. Anche gli studenti andranno in vacanza per due mesi prima di ricominciare la scuola a settembre. La pausa estiva arriva proprio quando le temperature sono più alte, e tutti gli analisti concordano sul fatto che la pentola sociale raggiungerà il massimo della pressione all’inizio di agosto.

La combinazione di caldo, povertà e scuole chiuse irrita in particolare quegli adulti che sognano di mantenere la famiglia al fresco, tranquilla e sazia Molti genitori devono smettere di lavorare perché non hanno nessuno a cui lasciare i figli. L’estate invita ad andare in spiaggia, soprattutto su un’isola stretta dove la costa non è mai a più di cento chilometri di distanza. Ma fare il bagno presenta alcune difficoltà: non è facile arrivarci e una volta lì, stesi sulla sabbia, scopriamo che quasi tutte le offerte gastronomiche si pagano in pesos convertibili. E Io stesso vale per gli ombrelloni.

Prima o poi la noia ci spinge verso quegli angoli della casa che hanno bisogno di essere riparati. La sedia che traballa, lo scarico del lavandino intasato, la presa che fa scintille e lo scarico del bagno che perde. Insomma, tutte quelle cose che con il tempo si rovinano e a cui dobbiamo dedicare qualche ora quando abbiamo dei giorni di ferie.

Ecco perché alla fine delle vacanze, tra colleghi di lavoro, si parla allo stesso modo delle calde acque dei Caraibi e di quant’è difficile aggiustare il lampadario della cucina.

Internazionale n.851 del 18 giugno 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

SOLUZIONI

Durante la riunione si alzò spiegando, con dovizia di particolari, perché la fabbrica non produceva la quantità di zucchero prestabilita. Intorno a lui, mentre descriveva l’obsolescenza delle macchine, la disorganizzazione dei turni e la mancanza di stimoli per i lavoratori, solo in pochi alzarono lo sguardo. Alla fine della sua invettiva il direttore lo accusò di “criticare senza proporre soluzioni”. L’uomo si sedette ripromettendosi di non prendere mai più la parola durante quei noiosi incontri mensili.

Con il tempo l’ingegnere capì che le polemiche venivano accolte bene solo se erano associate a espressioni come “la saggia decisione dei nostri leader” o mitigate da presunti buoni propositi come “abbiamo bisogno di più sacrifici”.Ma lui voleva fare luce sull’inefficienza della produzione nella sua impresa e credeva che, il semplice fatto di raccontarla, fosse il primo passo pertrovare una soluzione. Gli ci vollero alcuni anni per rendersi conto che il resto dei suoi colleghi aveva attraversato una fase di entusiasmo simile per il rinnovamento.

Molti avevano alzato la mano nell’assemblea e avevano ricevuto gli stessi sguardi torvi per aver osato mettere in discussione qualcosa. Alla fine si erano rassegnati a non dire niente contro gli slogan trionfalistici: non volevano essere bollati come “ipercritici”, la categoria precedente a quella di dissidente. Da quel momento l’ingegnere notò che le riunioni diventavano più brevi e gli sbadigli più lunghi. Il direttore sorrideva felice elencando solo i successi e le promesse.

Internazionale n.852 del 25 giugno 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

MANFRED NOWAK

Ho sentito parlare di Manfred Nowak l’anno scorso quando un detenuto mi ha chiamato da Canaleta, un carcere di massima sicurezza. “Stiamo aspettando Manfred”, mi ha detto. Poi c’è stato un disturbo nella comunicazione. Due giorni dopo un altro detenuto mi ha raccontato che, per la visita del relatore speciale del Consiglio dei diritti umani sulla tortura prevista a novembre, il carcere aveva distribuito delle coperte. Nelle prigioni sono apparse alcune novità: i distributori d’acqua nei padiglioni dell’amore rapido, i servizi religiosi e il rispetto per l’orario delle telefonate. Bisognava trasformare il volto lugubre di questi luoghi prima dell’arrivo di Nowak.

“Complicazioni di agenda”, hanno detto le autorità cubane all’Onu per comunicare che la visita doveva essere rimandata. I detenuti hanno incassato il colpo. Ma le loro speranze si sono riaccese a febbraio di quest’anno, quando il relatore sembrava sul punto di oltrepassare la soglia delle carceri cubane. Non si lascerà distrarre dalla mano veloce di vernice passata su un sistema penitenziario che priva le persone del rispetto per se stessi, pensavano centinaia di prigionieri.

È arrivata l’estate, ma Manfred Nowak non è mai arrivato. Il terzo tentativo di entrare a Cuba è stato accolto da una risposta evasiva. Non potrà vedere il dramma che si nasconde dietro le sbarre. Se ne sarebbe reso conto, ripetono quelli che avevano sperato. Forse per questo non l’hanno lasciato entrare.

Internazionale n.853 del 2 luglio 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

SANKÌLOBYTE

Per quanto sia ancora in buona parte clandestina, la tecnologia ha portato un cambiamento nella società cubana. I controlli per impedire ai cittadini di accedere ad alcune aree della vita politica nazionale hanno perso la loro efficacia di fronte all’avanzata di reti spontanee. Seguendo la stessa logica del mercato nero, qualsiasi individuo può diventare una fonte di notizie.

Il cambiamento più significativo degli ultimi anni è stata la perdita del monopolio informativo da parte dello stato.

Anche se il centralismo domina ancora l’economia, nel campo della diffusione delle notizie perde potere ogni giorno. Migliaia di famiglie non vedono più i programmi televisivi ufficiali ma si rifugiano nelle antenne paraboliche illegali, nei ed e dvd masterizzati o nei computer. Si tratta di cittadini su cui la propaganda politica ha poco effetto: sono pecorelle smarrite a cui la voce del pastore e il suo bastone fanno sempre meno paura.

Ma non bisogna farsi ingannare dall’ottimismo: le autorità cubane non hanno alcun interesse ad aprirsi a una stampa libera o a un dibattito pubblico. Un sistema basato sul silenzio non sopporta l’acido corrosivo della libera espressione. La situazione attuale è il risultato diretto del coraggio dei cittadini e della nascita di una tecnologia che lo ha materializzato in blog, tweet, sms e reti wireless.

Il kilobyte si è intrufolato tra le fessure del muro della censura e si è trasformato nell’unità primigenia della libertà d’informazione.

Internazionale n.854 del 9 luglio 2010

dall’Avana Yoani Sànchez

MUSEO DELLE AUTOMOBILI

C’è un particolare della nostra realtà che affascina i turisti e sorprende i collezionisti di tutto il mondo: la quantità di automobili d’epoca che circolano per le strade del paese. Ancora oggi sui viali dell’Avana corrono Chevrolet del 1952 e Cadillac più vecchie dello stesso ministro dei trasporti fanno da taxi collettivo. Questi miracoli a quattro ruote fanno ormai parte del nostro paesaggio quotidiano al pari delle lunghe file, degli autobus strapieni e dei cartelloni politici.

All’inizio, i turisti sono sorpresi ed entusiasti nel vedere il luna park del passato automobilistico. Scattano foto e pagano prezzi esorbitanti pur di provare quei comodi sedili. Ma dopo aver parlato un po’ con l’autista, gli stranieri stupiti scoprono che la carrozzeria di quella Ford secolare nasconde un motore Fiat nuovo e che le ruote sono state prese da una Lada.

A mano a mano che il turista entra in confidenza con il proprietario, scopre che i freni sono un regalo di un amico europeo e che i fari anteriori appartenevano a una vecchia ambulanza.

I turisti si meravigliano del gusto dei cubani per queste reliquie del passato, ma pochi sanno che si tratta più di una necessità che di una scelta. Non possiamo andare da un concessionario per comprare un macchina nuova, anche se abbiamo i soldi per pagarla. Così dobbiamo rimettere in sesto le vecchie ferraglie. Senza queste macchine del secolo scorso, la nostra città sarebbe meno pittoresca e sempre più immobile.

continua