Spreco di cibo, la realtà è diversa dai falsi miti

La Nuova Bussola quotidiana 28 Novembre 2019

L’agenzia dell’Onu per l’alimentazione afferma in un nuovo rapporto che non c’è correlazione tra spreco di cibo nei Paesi ricchi e fame in quelli in via di sviluppo. Anzi, moltissimo cibo va perduto anche nei Paesi poveri. Diversi sono però i modi in cui il cibo si butta via, legati alle diverse fasi della catena alimentare.

di Anna Bono

Non c’è correlazione tra spreco di cibo nei Paesi ricchi e fame in quelli in via di sviluppo. Lo afferma un rapporto appena pubblicato dalla Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, sulla situazione alimentare nel mondo, dal titolo “Lo stato del cibo e dell’agricoltura. Verso una riduzione della perdita e dello spreco di cibo”.

Un minore spreco di generi alimentari nei Paesi sviluppati non serve a combattere la fame nel mondo, che esiste non perché centinaia di milioni di persone scartano enormi quantità di cibo, ma perché centinaia di milioni di persone non ne producono abbastanza per il loro fabbisogno, anche perché una parte dei raccolti e dei prodotti lavorati va perduto, o non guadagnano abbastanza da poter acquistare tutto il cibo di cui hanno bisogno.

Al contrario di quel che si può pensare, spiega inoltre la Fao, moltissimo cibo va perduto anche nei Paesi poveri. A scoprirlo già nel 2011 era stato l’Istituto svedese per l’alimentazione e la biotecnologia di Goteborg, incaricato dalla Fao di svolgere una ricerca sullo spreco e la perdita di cibo nel mondo. L’indagine, intitolata Global food losses and waste, aveva dato risultati inaspettati. Il primo riguardava la quantità globale di derrate alimentari sprecate e perse ogni anno: circa 1,3 miliardi di tonnellate, pari – e questo fa capire meglio l’enormità dello spreco – a circa un terzo del cibo prodotto per il consumo umano.

Altri dati sorprendenti riguardavano appunto dove e come si perde e spreca il cibo. L’idea è che a trattare con negligenza il cibo sia eventualmente chi ne ha in abbondanza e non teme di rimanerne mai senza, quindi gli abitanti dei Paesi ricchi, industrializzati. Invece , Paesi industrializzati e in via di sviluppo sono quasi pari nel dissipare cibo: 670 milioni di tonnellate i primi e 640 milioni i secondi.

Diverso è però il modo in cui il cibo si butta via. Avendo individuato cinque fasi nella catena alimentare (produzione agricola, raccolta-trasporto-immagazzinamento, lavorazione, distribuzione e consumo), per “perdita” i ricercatori hanno inteso tutto il cibo che per qualsiasi motivo si deve scartare senza poterlo riutilizzare in qualche altro  modo, nelle fasi  di raccolta, trasporto, immagazzinamento e lavorazione; per “spreco”  tutto il cibo che per qualche motivo non si vende e non si consuma dopo averlo acquistato, dunque nelle due fasi finali.

Il rapporto del 2011 indicava più spreco nei Paesi sviluppati e più perdite in quelli in via di sviluppo. Si era calcolato che ogni anno in Europa e in Nord America lo spreco di cibo fosse di 95-115 chilogrammi per persona rispetto ai 6-11 chilogrammi dell’Africa sub-sahariana e del Sud Est asiatico. Nei Paesi in via di sviluppo le perdite ammontavano al 40% del totale, dovute in gran parte alle condizioni in cui vi si svolgono le prime tre fasi della catena alimentare.

A partire da quella prima ricerca, le Nazioni Unite hanno deciso di approfondire la rilevazione del fenomeno separando, per meglio analizzarle, le due modalità e affidando alla Fao la realizzazione di un indice della perdita di cibo e all’Unep, il Programma Onu per l’ambiente, un indice dello spreco di cibo.

Il dato generale che emerge dal nuovo rapporto della Fao è che ogni anno – escludendo gli sprechi in fase di distribuzione e consumo – il 14% dei generi alimentari va perduto. La stima è approssimativa, spiegano i ricercatori, perché tanti Paesi, soprattutto africani e asiatici, hanno fornito informazioni molto incomplete, ma sostanzialmente conferma i risultati della ricerca condotta nel 2011.

Il rapporto conferma anche i fattori che determinano un simile danno, concentrati nei Paesi in via di sviluppo, inclusi quelli emergenti del gruppo Brics: sono le tecniche di coltivazione arretrate, i magazzini, sili e granai che non proteggono i raccolti da insetti e parassiti, le infrastrutture carenti e maltenute, l’ignoranza degli andamenti dei mercati da parte di milioni di coltivatori, i difetti di lavorazione, confezionamento e imballaggio.

Per di più, a ogni stagione milioni di coltivatori perdono i raccolti ancora nei campi o se ne vedono ridotta la resa a causa di inondazioni, siccità, insetti e parassiti. Ultima ma non minore causa di cibo perso nei Paesi in via di sviluppo è, spesso, l’inadeguatezza delle politiche e degli investimenti statali a sostegno del settore agroalimentare.

Il rapporto, al di là dei dati, contiene delle interessanti considerazioni. Spiega tra l’altro che si deve comunque mettere in conto una certa sovrabbondanza di cibo prodotto e poi non consumato se si vuole disporre di riserve indispensabili per far fronte a eventuali crisi alimentari. Avverte inoltre che il risparmio di cibo – sia in termini di perdita che di spreco – non porta beneficio a tutti e bisogna esserne ben consapevoli.

Ad esempio, sprecare e perdere meno cibo nelle fasi finali della catena alimentare può danneggiare i coltivatori facendo diminuire il prezzo dei prodotti e la quantità di generi alimentari richiesti dai mercati. Se ridurre perdite e sprechi di cibo non risolve il problema della fame nel mondo e può persino risultare in un danno per molti, giova invece all’ambiente.

La Fao avverte che va preso seriamente in considerazione l’impatto che il cibo prodotto e non consumato comunque esercita sull’ambiente. Il quinto capitolo del rapporto contiene dati sul consumo di energia e di acqua, sull’inquinamento, sulla produzione di gas serra che si potrebbero evitare riducendo gli sprechi.

L’agenzia Onu è giustamente preoccupata di organizzare al meglio il vitale settore della produzione agricola a scopo alimentare, come le compete. È difficile che ci riesca, però, finché si avvale di un indicatore screditato, l’impronta ecologica, e di una congettura, il riscaldamento globale di origine antropica.

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