La Los Angeles liberal come la Roma dei 5 Stelle: ideologia green, incendi, inefficienze e topi

Atlantico

5 Novembre 2019

di Rob Piccoli

Come tutti sanno, la California sta vivendo giorni terribili, con le fiamme che lambiscono sia la Città degli Angeli — la megalopoli grande un po’ meno del Friuli Venezia Giulia e un po’ più della Liguria, ma con una popolazione pari a quella della Lombardia e del Veneto messi insieme — sia San Francisco, la bella e romantica città del Golden Gate Bridge e delle mille colline.

Decine di migliaia di persone evacuate, tra cui Arnold Schwarzenegger e la star della Nba, LeBron James, centinaia di migliaia di ettari di terreni agricoli e vigneti distrutti… Un’apocalisse, a meno di un anno da un disastro analogo dal quale il Golden State non si era ancora ripreso.

E, come se non bastasse, anche a fronte di previsioni ancor più nefaste, sono arrivati i blackout “intenzionali” (cioè preventivi) di 48 ore per oltre due milioni di californiani in 36 contee (un milione solo nella Bay Area).

Mentre scrivo, un amico di Facebook posta la notizia, diffusa da Usa Today, che The Ronald Reagan Presidential Library, collocata a Simi Valley, nel sud dello stato, si è salvata per un pelo dall’andare in fumo, e questo non grazie all’intervento o alla preveggenza dell’uomo, bensì in ragione di un repentino cambio di direzione del vento, nonché del provvidenziale contributo di un gregge di capre che aveva provveduto ad alleggerire il terreno circostante dall’abbondante vegetazione, creando in tal modo una barriera al fuoco…

Insomma, un campionario di notizie allarmanti, sconcertanti, talvolta inimmaginabili, come se non più di quelle che nei mesi scorsi ci raccontavano di una Los Angeles sanctuary city nonché conclamata capitale degli homeless people d’America (che di recente hanno raggiunto il numero record di 59 mila persone), in cui le montagne di rifiuti crescono a vista d’occhio, e con esse il numero dei topi e quel che ne consegue sotto il profilo igienico-sanitario (tifo, peste bubbonica, ecc.).

Nel vasto e variegato panorama degli interventi sui media di esperti, figure istituzionali e opinionisti, spiccano ovviamente – accanto a prese di posizione cerchiobottiste, se non addirittura indulgenti nei confronti delle policies (molto green) di gestione del territorio – quelli che esprimono sdegno e indignazione.

Un esempio per tutti è l’articolo che il direttore del National Review, Rich Lowry, ha pubblicato contemporaneamente sulla sua rivista e sul New York Post il 29 ottobre: un durissimo j’accuse all’indirizzo dei “progressisti” che da tempo immemorabile guidano la California.

L’incipit è sarcastico (e micidiale): “La California sta mantenendo fede alla sua reputazione di terra dell’innovazione – sta rendendo i blackout, che sinora sono stati il marchio di paesi impoveriti e devastati dalla guerra, una caratteristica tipica della vita americana del 21mo secolo. Più di due milioni di persone se la passano senza corrente nella California centrale e settentrionale nell’ultimo e più vasto dei blackout intenzionali che sono, incredibilmente, la miglior risposta del Golden State al rischio di incendi selvaggi.”

L’energia elettrica e tutti gli altri vantaggi che essa elargisce – prosegue Lowry – è sinonimo di civiltà moderna: non dovrebbe essere un bene negoziabile per chiunque viva in una società che funziona, e persino in California, la quale, malgrado le sue conclamate bellezze naturali e la sua stupefacente ricchezza, negli ultimi decenni si è rovinata con le sue mani grazie alle sue priorità fasulle e al malgoverno dei liberal.

Uno stato che ha visto nascere e imporsi a livello planetario aziende che hanno cambiato il mondo per renderlo ciò che è oggi non riesce a tenere accese le luci delle case dei suoi cittadini.

La stessa California che si è coraggiosamente assunta l’impegno di ricavare la metà dell’energia di cui ha bisogno da fonti rinnovabili entro il 2025, e il 100 percento entro il 2045, non riesce a gestire decentemente le proprie infrastrutture energetiche. La stessa California che ha fatto lievitare le tariffe elettriche ai livelli più elevati grazie alle sue imposizioni e regole non riesce a fornire un accesso continuativo a quella stessa, costosissima, energia.”

Gavin Newsom

Il governatore in carica, Gavin Newsom, che deve cercare di scaricare la responsabilità di questa débâcle avvenuta proprio sotto il suo naso, dà la colpa dei blackout al “capitalismo cane-mangia-cane”. È come se i veri responsabili fossero dei robber barons – alla lettera “baroni rapinatori”, un termine che negli Stati Uniti del 19mo secolo indicava quella tipologia di imprenditori o banchieri che ammassavano enormi quantità di denaro con pratiche senza scrupoli e attraverso forme di concorrenza sleale.

Costoro, nella narrazione del governatore, sarebbero calati sullo stato per prosciugarne le ricchezze facendo nel contempo tabula rasa. Ma questo, osserva Lowry, è del tutto falso, per la semplice ragione che Newsom parla di una delle industrie più regolamentate dello stato, cioè appunto quella dell’energia, che deve rispondere alla specifica Commissione dello Stato della California che si occupa delle aziende di pubblica utilità.

Dunque, se solo i regolatori lo avessero voluto, avrebbero pressato le aziende affinché dessero la massima priorità al problema della sicurezza e della resilienza delle loro infrastrutture. E invece ciccia.

La Commissione in oggetto si è preoccupata piuttosto di costringere le aziende a imbarcarsi in costose iniziative nel settore energie rinnovabili. “Chissenefrega di qualcosa di così banale e terra-terra come mantenere in efficienza le linee elettriche ad alta tensione quando si ritiene che sia in gioco qualcosa di un’importanza talmente epica e alla moda quale la messa in sicurezza dell’intero pianeta a fronte dei cambiamenti climatici?

Per altro, ricorda Lowry, la California per decenni ha avversato in ogni modo il dissodamento di selve e foreste, poiché l’élite politica è stata ed è tuttora ostaggio della convinzione che tagliare alberi sia un’offesa alla natura, anche quando ciò consente di recare un beneficio alle foreste stesse.

Si è consentito alla biomassa di crescere di volume”, accusa il direttore del National Review, “e questa è diventata la miccia di incendi catastrofici”. Particolare non trascurabile, nel 2016 l’allora governatore Jerry Brown oppose il veto a una legge approvata all’unanimità dal Parlamento californiano che prevedeva il taglio di alberi pericolosamente vicini ai pali dell’alta tensione.

La squadra di Brown dice che quella legge non era poi così importante, ma un osservatorio progressista dichiarò che la legge non era niente affatto insignificante. Sulla stessa lunghezza d’onda dell’articolo di Rich Lowry si colloca il pezzo a firma dell’Editorial Board del New York Post pubblicato il 28 ottobre. Il titolo dice già tutto: “I californiani hanno creato la loro attuale apocalisse”.

La California,” esordisce l’editoriale, “sta oggi offrendo un’umiliante lezione sui pericoli del wishful thinking. I governanti possono dare la colpa al cambiamento climatico o alle grandi aziende dell’energia, ma in realtà tutta la maledetta colpa ce l’hanno loro. (…) Perché dieci tra i venti più devastanti incendi sono scoppiati negli ultimi dieci anni? Perché in California le foreste hanno oggi un’estensione doppia rispetto a 150 anni fa”.

Colpa di quel green sentiment che ha messo in ginocchio l’industria del legno, che avrebbe potuto creare provvidenziali strade di accesso, cioè veri e propri salva-vite, nel fitto della boscaglia.

Un sentiment che ha impedito la messa in atto di incendi controllati (per paura di sconvolgere l’habitat degli animali) e ha sbarrato la strada anche ai più modesti programmi di sfoltimento boschivo. Quando gli incendi devastanti della scorsa estate causarono la morte di 85 persone, lo Stato della California non trovò di meglio che dare ipocritamente la colpa alla PG&E (Pacific Gas and Electric Company, con quartier generale nell’omonimo palazzo in San Francisco), che finì sotto processo e fu portata alla bancarotta – l’azienda è tuttora sotto Chapter 11, una norma della legge fallimentare statunitense.

Di qui, tra l’altro, l’attuale decisione dell’azienda medesima di praticare i blackout preventivi, con i disagi e il senso di débâcle di cui parlavamo prima. Come darle torto? Ovvio, però, che il prezzo economico, per le aziende e per i cittadini della California centrale e settentrionale, dell’interruzione nell’erogazione della corrente elettrica non può che essere ingentissimo.

Come informa il San Francisco Chronicle, Michael Wara – dello Stanford Woods Institute, nonché membro della Commissione Wildfire Cost and Recovery – parla di 2,5 miliardi di dollari… In buona sostanza, il fallimento delle politiche green – oggi diremmo à la Greta Thunberg – è sotto gli occhi di tutti coloro i quali non sono accecati dalla partigianeria politica.

Se poi aggiungiamo a questo scenario, già di per sé apocalittico, i danni forse irreversibili arrecati al Golden State dalla filosofia open borders e dell’accoglienza a tutti i costi e della tolleranza verso tutto e tutti (tranne ovviamente per i conservatori tradizionali e in modo particolare per gli estimatori di Donald Trump), il bilancio di decenni di incontrastata egemonia liberal è decisamente pesantissimo.

La metafora di Gotham City rischia di essere inadeguata, per difetto, a descrivere lo stato dell’arte.