Ecologismo disumano: il precedente nazista della “deep ecology”

Pan-Amazon Synod Watch 2 Ottobre 2019

Guido Vignelli

“Siate umani!”, è lo slogan recentemente diffuso dai mass-media, nel tentativo di rilanciare un “nuovo umanesimo” proposto da noti esponenti del mondo culturale e politico, anche cristiano. Ad esso ha forse alluso la nuova presidente della Commissione Europea, nel richiamare la necessità di ricuperare la cultura e lo “stile di vita” originali dell’Europa moderna.

Eppure, questi stessi ambienti così umanistici e umanitari propagandano una “ecologia integrale” (ossia radicale) che si prospetta come disumana, perché vuol sostituire l’antropo-centrismo moderno con il cosmo-centrismo post-moderno. Del resto, se diamo uno sguardo alle radici storiche dell’ecologismo, emerge un fatto strano: il più sincero amore per gli animali è compatibile con il più accanito odio per gli uomini.

Lo dimostra il caso esemplare del Nazional-Socialismo tedesco. Infatti, il più noto precedente storico-politico dell’ecologismo radicale è proprio quello nazista, sebbene esso venga quasi sempre occultato con imbarazzo dalla propaganda ecologista stessa.

Il mito nazista della Natura e della vita selvatica

Fedele alla propria ideologia materialista e neopagana, il partito nazista avviò una propaganda e una politica di rivalutazione della natura che sconfinava nella idolatria. Essa si rifaceva al ben moto mito – di origine romantica e idealistica – dell’età dell’oro, ossia il felice Eden perduto, animato da uno “slancio vitale” e caratterizzato da una primitiva “selvatichezza” (Wildheit, oggi wilderness), una sorta di primigenia spontaneità (Ursprünglichkeit) priva di leggi, gerarchie e istituzioni.

Tuttavia, all’opposto della versione rousseauviana del mito naturalistico, per il nazismo in quell’Eden l’armonia tra le specie risultava non dalla pacifica convivenza ma dalla libera competizione tra gli esseri viventi, ossia dal “bellum omnium contra omnes”: vinca il migliore! Nell’originario “stato di natura”, infatti, s’imponevano i valori e le esigenze della predazione; vigeva la legge della sopravvivenza del più forte sul più debole, inventata dall’evoluzionismo e idolatrata dal Nazismo; quindi dominava il vivente più sano, potente e capace.

Nel mondo vegetale e animale, questa “selezione naturale” avviene spontaneamente; nel mondo degli uomini, invece, essa dovrebbe imporsi mediante la cultura, le usanze, la politica, compresa una legislazione selettiva che impedisca ai più deboli di prevaricare sui più forti. Sì, avete letto bene: è proprio questo l’“equilibrio naturale” auspicato dalla mentalità ecologista radicale!

Nel contesto ambientale, l’uomo può competere con gli animali solo approfittandosi della propria intelligenza, abilità e astuzia; ma queste virtù furono condannate dai nazisti in quanto “meschine” e “sleali”, anzi “vili”. Del resto, «in principio ci fu l’Azione» (Goethe), non certo il Verbo, il Pensiero, come pretendono i cristiani!

Ciò esige che nella evoluzione vitale prevalgano solo i più adatti a sopravvivere nella dura vita dei campi, dei monti, dei mari, delle selve (e ovviamente della guerra). Il noto personaggio letterario pseudo-nibelungico, ma in realtà wagneriano, di Siegfried – quest’ominide selvatico, forzuto e leale, ma anche imprudente, ingenuo e anzi sciocco (dumme) – ben riflette questo strano ideale nazista di animale bipede in bilico tra la coscienza e l’incoscienza.

Gli ambientalisti dell’epoca nazista giustificarono l’interventismo ecologista dell’uomo sulla natura rifacendosi alla filosofia dell’utilitarismo e a quella dell’evoluzionismo. In questa impostazione, è bene e giusti, dunque ha valore, semplicemente ciò che è utile alla conservazione e alla evoluzione della Natura, intesa come organismo vivente globale, del quale ogni specie è solo una componente.

Lungo la storia, la società politica organizzata ha poi superato la salubre “guerra di tutti contro tutti”, ma a vantaggio solo dell’uomo e a danno dei suoi “fratelli animali”. Il nazismo criticò i pretesi Diritti dell’Uomo, sanciti dalla Rivoluzione Francese, anche perché essi privilegiano i diritti del debole civilizzato (il “cittadino”) rispetto a quelli del forte competitivo (il “selvaggio”) e, in questa prospettiva, non consideravano i diritti dell’animale rispetto a quelli dell’uomo.

Le leggi animaliste ed ecologiste del Nazismo

«Nel nostro nuovo impero non si dovrà più tollerare la crudeltà verso gli animali», proclamò più volte Hitler, il quale era molto affezionato al proprio cane-lupo, come Himmler ai propri canarini, per non parlare di Göring. Proprio queste tre anime sensibili, assieme al ministro della Giustizia Frick, furono promotori della legge per la protezione degli animali (Tierschutzgesetz, 24 novembre 1933), alla quale seguirono la legge per limitare al massimo la caccia (3 luglio 1934) e infine la globale legge sulla protezione della natura (Reichnaturschutzgesetz, 1 luglio 1935).

Qualcuno avrà visto la famosa vignetta nazista, in verità piuttosto ridicola, che raffigura rappresentanti di alcune specie animali mentre fanno il saluto nazista davanti a Hitler, per ringraziarlo di aver varato le leggi zoofile sopra elencate. La prima di queste leggi ecologiste proclama che il genere umano ha «alti e gravi doveri morali» verso gli animali, i quali devono essere protetti non in funzione dell’uomo, ma in quanto tali e per sé stessi (“um ihren selbst”).

Ciò vale per tutti gli animali, tanto che «non si farà alcuna differenza né fra animali domestici e altri tipi di animali, né fra animali inferiori e superiori, né fra animali utili o dannosi all’uomo». Furono quindi vietati nutrizione forzata, prigionia opprimente, maltrattamenti, vivisezione, sacrificio degli animali, etc.

La terza legge ecologista prevede anche la tutela del mondo vegetale, ad esempio stabilendo periodi di riposo sabbatico per le campagne coltivate e creando “aree naturali protette” (art. 4). La legislazione animalista del Reich fu elaborata da due esperti consulenti del Ministero dell’Interno, i quali poi raccolsero il loro contributo in un loro saggio (Giese e Kahler, Il diritto tedesco sulla protezione degli animali, Duncker & Humblot, Berlin 1939).

L’ispiratore della legislazione ecologista globale fu il biologo nazista Walter Schönichen, docente di Protezione della Natura nell’Università di Berlino, il quale poi sintetizzò il suo pensiero “scientifico” in libri come La protezione della natura nel Terzo Reich (Berlin 1934) e soprattutto La protezione della natura come compito popolare e internazionale (Jena 1942).

Il terzomondismo nazista

Per quanto possa sembrare strano, l’ideologia nazista professò anche una sorta di multi-culturalismo e di terzomondismo precorritore di quelli che oggi sono di moda. Criticando l’uniformità e l’unilateralità della “ideologia liberale”, la salvaguardia nazista dell’ambiente prevedeva di “tutelare le differenze” non solo nel campo vegetale e animale ma anche in quello umano.

Il nazismo infatti immaginava che i “popoli indigeni” (Naturvölker), discendenti da quelli abitanti nell’Eden primordiale, facessero rivivere una piena armonia tra natura e cultura, ambiente e civiltà, fatto e valore. Niente opposizione tra queste due polarità, perché ogni polo deve inverarsi e rovesciarsi dialetticamente nel suo opposto, come aveva sognato il Romanticismo tedesco.

In concreto, il citato prof. Schönichen prevedeva di proteggere le «caratteristiche naturali, etniche e culturali» dei popoli indigeni ridotti a minoranze razziali (specialmente se indo-arie) o religiose (specialmente se pagane), in quanto ritenute residui testimoni del “calderone primordiale” dell’Eden perduto.

Il progetto nazista della “formazione dell’uomo nuovo” in realtà mirava a restaurare l’“Uomo primordiale” (Ur-mensch), per cui prevedeva di penalizzare «l’egoismo dell’uomo bianco borghese», colpevole di aver represso, ad esempio, le variopinte minoranze selvagge degl’indiani d’America e quelle religiose dell’India.

Insomma, come riassume un noto studioso concludendo un paragone tra l’ecologismo nazista e quello contemporaneo: «l’uomo viene ad essere visto non più come signore e padrone di una natura umanizzata e coltivata dal suo lavoro, ma come responsabile di uno stato selvaggio originario fornito di diritti intrinseci, di cui egli è tenuto a salvaguardare in permanenza la ricchezza e la diversità» (Luc Ferry, Le nouvel ordire écologique, Grasset, Paris 1992, cap. II, par. II).

La vera ecologia è conservatrice e tradizionalista

Secondo il filosofo e biologo evoluzionista Ernst Häckel, che ha lanciato la parola ecologia nel campo scientifico, essa indica «la scienza delle relazioni tra gli organismi viventi e il loro ambiente domestico». Quella parola infatti deriva dal greco oikos, che significa casa; l’ambientalismo vede la Terra come “la nostra casa comune”.

Essere ecologisti, dunque vuol dire aver cura dell’ambiente in quanto esso è la casa naturale dell’uomo. Ma – osserva il filosofo inglese Roger Scruton – ad essere “ecofili”, ossia a voler curare la propria casa, sono sempre stati i conservatori e i tradizionalisti; essi infatti hanno il senso del limite, dell’ordine gerarchico e del territorio (Heimat), hanno per motto “pro aris et focis” e quindi curano il focolare domestico, la comunità rurale, l’ambiente naturale, familiare e lavorativo.

Insomma, quello ecologista è stato per secoli un argomento tipico della cultura e dei movimenti conservatori e tradizionalisti, specialmente cattolici. Al contrario, per secoli i rivoluzionari hanno disprezzato la natura creata e il suo ordine, tanto che l’hanno ridotta a mera materia misurabile, manipolabile e sfruttabile, a campo di esercizio dell’umana onnipotenza, sacrificandola al progresso tecnico-economico.

Essi infatti erano mossi dall’odio per il creato e particolarmente per la natura umana; in realtà lo sono ancora oggi, come dimostrato dalla loro propaganda contro la sessualità e la procreazione naturali, e dalla loro politica in favore dell’omosessualità, della denatalità, dell’aborto e dell’eutanasia.

Oggi la situazione sembra essersi rovesciata. Già quarant’anni fa il prof. Plinio Corrêa de Oliveira osservava con rammarico che gli ambienti progressisti e rivoluzionari stavano sottraendo l’argomento ecologico a quelli conservatori e tradizionalisti, i quali se ne erano disinteressati a lungo, psicologicamente sottomessi com’erano al mito della scienza e della tecnica.

Oggi dobbiamo chiederci: com’è stato possibile questo vero e proprio “furto con destrezza”? E com’è possibile oggi riprenderci una bandiera così importante?