Eutanasia: il simbolo odierno della disperazione

Cultura Cattolica sabato 31 agosto 2019

Gianfranco Amato

Duole molto in questi tempi di grande confusione constatare l’assenza di un giudizio chiaro, netto e soprattutto capace di andare controcorrente rispetto alla mentalità dominante, sui grandi temi della vita come quello dell’eutanasia, che una parte del mondo cristiano ha preferito declassare a questione di secondo piano rispetto ad asserite «nuove emergenze sociali», come quella relativa alle migrazioni. Fino al punto di fare scelte politiche che implichino addirittura il suo sacrificio a vantaggio delle citate emergenze.

Per ritrovare la bussola in questa notte senza stelle, occorre andare a riscoprire, ripercorrendo i decenni, la voce di qualche profeta. Uno di questi è certamente Luigi Giussani, fondatore del movimento di Comunione e Liberazione, che io ho avuto la grazia di incontrare personalmente quarantaquattro anni fa.

Ricordo che agli Esercizi Spirituali di Comunione e Liberazione del 1986 – sono passati più di trent’anni –, Giussani spiegava come nella società moderna «l’amore tende ad essere identificato con alcune reazioni biologiche e la vita tende ad essere ridotta ad un oggetto che si può guardare con cinismo non solo rispetto al tema dell’aborto».

In quell’occasione, pose, infatti, una domanda illuminante: «Chi di noi può impedire al potere di dire che per conseguire una umanità giovane l’eutanasia si debba applicare a trentacinque anni? Chi potrà impedirlo al potere? Ciò accade quando la vita si guarda con cinismo, che è frutto dell’egoismo con il quale si educa la classe operaia, visto che orami quella borghese ne è già da tempo affetta». (1)

In un ragionamento più articolato affermava che questa prospettiva nasce, in realtà, dalla concezione giustamente condannata dal Sillabo nella proposizione XXXIX: «Lo Stato, in quanto origine e fonte di tutti i diritti, gode del privilegio di un diritto senza confini». A questo proposito Giussani chiariva che il principio condannato dal Sillabo, in realtà, altro non è se non «la definizione dello stato moderno, di tutti gli stati moderni, di qualunque natura», come «esito dell’Illuminismo, cioè dell’uomo che diviene misura delle cose».

E a questo punto aggiungeva una riflessione: «Ma se lo Stato ha un diritto senza confini, ha anche il diritto di determinare quanti figli devi avere e come debbano essere; e può anche stabilire fino a quando tu puoi vivere. Perché non ci sarebbe ragione, se un potere è potere, che esso non possa stabilire come legge l’eutanasia, per avere una generazione di umanità fresca, “creativa”, e perché nessuno viva oltre i trent’anni. Perché non lo dovrebbe fare? Perché?». (2)

In realtà aveva ragione Giussani, nessuno potrebbe impedire al potere di varare una legge generale sull’eutanasia a trent’anni, se la mentalità dominante arrivasse al punto di ritenere un vantaggio per l’umanità mantenere solo una classe di esseri umani giovani, freschi, dinamici e senza i pesi della vecchiaia. Il fatto è che queste cose il fondatore di C.L. non solo le scriveva ma aveva persino il coraggio di proclamarle pubblicamente senza vergognarsi di utilizzare il criterio paolino dell’«opportune et importune».

Ricordo di aver personalmente ascoltato dalla sua voce il racconto di quando un giorno egli assistette ad un dibattito in cui un tizio sosteneva una tesi a favore dell’eutanasia. Giussani, pur non essendo tra i relatori, si alzò dal pubblico e affermò: «Beh, ma chi è che fissa l’età in cui l’uomo dovrebbe essere abbandonato dalla società? È lo Stato.

Allora, se lo Stato fosse fatto da giovani energici e bellimbusti, tutti atleti, che fissassero l’eutanasia a quarant’anni – se loro fossero al governo dello Stato, potrebbero! –, a quarant’anni il mondo finirebbe!». (3) Per questo invitava i giovani ad opporsi veementemente (usava addirittura il termine “ira”) contro la menzogna: «Ho parlato di ira contro la menzogna. Il rapporto uomo-donna non è il sesso, questa è una riduzione, e tutto il mondo di oggi esalta il rapporto uomo-donna in senso biologico o biopsichico e basta. Oppure, dire che occorre che lo Stato sia guidato dalla scienza applicata nella tecnica è una riduzione, perché l’uomo non è un robot».

«Perciò, la lotta contro questa menzogna può giustamente far dire che sarebbe meglio per l’uomo essere assassinato che perdere la propria umanità. E noi siamo in un’epoca in cui il potere, cioè lo Stato, tenta di abolire l’umanità. E se lo Stato decide di usare la biogenetica in grande stile, benissimo, lo Stato ha il diritto di usare la biogenetica in grande stile; se, come vi ho già detto, decide che l’eutanasia avvenga a trent’anni per mantenere vivace e fresca l’umanità – ragazzi, voi vi salvereste ancora, ma per poco – non vi sarebbe nessun altro tribunale di riferimento!»

«Occorre porre la lotta contro il tiranno che impone il proprio progetto, l’ira contro la menzogna che, per servire il progetto del tiranno, riduce il desiderio, esalta talune esigenze e ne elimina altre». Cosa vuole dire questo discorso su certi valori sociali da tutti condivisibili? “Questo è lo sforzo che dobbiamo fare tutti, anche la Chiesa”, disse qualche porporato: “Il compito della Chiesa è quello di sostenere valori morali condivisibili da tutti”. Ma questo anche un pagano lo fa, non è necessario essere cristiani! Questa è la riduzione del desiderio: alcuni desideri ed esigenze sono sottolineati, altri censurati o ridotti. Per questo dico che è tirannica, menzognera, la mentalità dominante». (4)

La cosa che più colpisce del giudizio di Giussani sull’eutanasia «come simbolo della disperazione moderna» è la sua visione profetica: «La storia del popolo ebraico è realmente un miracolo dentro il cammino di tutta l’età umana, perché è il punto in cui per secoli un popolo intero ha affermato la positività della storia, una positività del mondo per qualcosa di buono che sarebbe successo; e questa attesa, questa speranza, ha coagulato e dato forza e consistenza personale al popolo d’Israele.

Il popolo d’Israele è il punto del mondo che Dio ha usato come pedagogia per tutti. Che cos’è il mondo, dove va a finire il mondo, quali sono i sussulti e le pacificazioni cui il mondo è destinato, è nella trama della storia del popolo d’Israele che lo si può comprendere. È la grande profezia, è la Bibbia, è l’Antico Testamento che focalizza un particolare, che ha come soggetto attivo un particolare, il particolare di un piccolo popolo (piccolo, relativamente): eppure tutti i destini degli uomini, come significato e come profezia, sono stati veicolati dalla coscienza di questo popolo.

Parto da questa idea, perché la cosa più difficile, per l’uomo che pensa, è l’affermazione della positività del vivere. È questo che implica subito dopo la questione: in che cosa consiste la positività del vivere, dov’è che questa positività del vivere s’attesta, dove si radica, così da inerpicarsi sulle erte della storia? Dove può mettere fronde, rami, dove può diventare dimora, dove può diventare costruzione e casa per gli uomini? Non sto dicendo una banalità, sto dicendo la cosa che più mi colpisce.

La difficoltà più grande che ha l’uomo è accettare e riconoscere la positività del suo vivere. Per questo l’eutanasia è come un simbolo, il simbolo odierno della disperazione». (5)

E la dimensione profetica emergeva ancora di più quando Giussani approfondiva il senso di questa disperazione: «Dico che l’eutanasia è come un simbolo dell’assetto disperante della risposta che l’uomo dà al vivere, perché è come la somma del discorso culturale che si fa oggi: la pace, cioè valori sociali che mantengano la tranquillità, che mantengano la pace, la solidarietà, un ottimismo che tutto copra, che copra il baratro disperante in cui l’uomo versa se fissa gli occhi su di sé».

«Perciò l’unica salvezza che il mondo può dare (“mondo” significa “modo normale con cui noi pensiamo”) è la distrazione; una distrazione che permetta di non pensare al fatto che da un istante all’altro può succedere la catastrofe, la catastrofe della morte o la catastrofe di un dolore.  Per questo nell’Antico Testamento, dopo una certa epoca, i profeti che accusavano il popolo di non fidarsi di Dio, di non porre la propria speranza in Dio, che perciò profetizzavano sventure, erano fatti fuori; i profeti erano fatti fuori, come chiunque dice cose vere, anche adesso».

«E tutto è pensabile, anche quanto di più orribile si possa immaginare, tutto può diventare ipotesi per il futuro della nostra realtà. Siamo come gente che naviga in un freddo polare e che cerca in qualche modo una tana, un buco in cui riscaldarsi a vicenda per un momento. Senza Cristo io non riesco a capire cosa possa essere pensato di diverso da questa prospettiva tremenda». (6)

Dio solo sa quanto oggi avremmo bisogno di ascoltare maestri capaci di giudicare la realtà con i criteri della fede, capaci di opporre la verità alla menzogna senza tentennamenti o scorciatoie sociologiche, capaci di correre il rischio di “essere fatti fuori” dal mondo perché scomodi.

Preghiamo perché il Signore mandi altri autentici profeti in mezzo a noi. E ci liberi da quelli falsi.

Citazioni senza omissis:

1 L. GIUSSANI,  Aquél que está entre nosotros (Ejercicios 85 y 86). Cuadernos para la Memoria, 3. Madrid: Comunión y Liberación, 1987, pag. 98)

2 L. GIUSSANI, L’io, il potere, le opere: Contributi da un’esperienza. Genova: Marietti 1820, 2000., pag. 36.

3 L. GIUSSANI, Una presenza che cambia. I libri dello spirito cristiano: Quasi Tischreden, 7. Milano: Biblioteca Universale Rizzoli, 2004, pag. 289.

4 L. GIUSSANI, L’io rinasce in un incontro: (1986-1987) . Prefazione di Julián Carrón. I libri di Luigi Giussani: L’Equipe. Milano: Biblioteca Universale Rizzoli, 2010., pag. 250.

5 L. GIUSSANI, Un evento reale nella vita dell’uomo: (1990-1991). A cura di Julián Carrón. I libri di Luigi Giussani: L’Equipe. Milano: Biblioteca Universale Rizzoli, 2013, pag. 198;

6 L. GIUSSANI, ibidem, pag. 199