Finiremo in serie B?

Italia crisiTracce n.2 febbraio 2011

Un giovane su cinque non lavora. Una famiglia su dieci è povera. Poi il divario tra Nord e Sud, il calo demografico, la difesa dello statalismo e degli interessi di bottega… Dove va l’Italia? Se vogliamo uscire dalla “zona retrocessione”, occorre che qualcuno torni a desiderare. E che «ci sia chi ci educa»

di Giorgio Vittadini

(presidente Fondazione per la Sussidiarietà)

Come hanno fatto notare molti autorevoli commentatori, il referendum della Fiat ha segnato uno spartiacque nel mondo delle relazioni sindacali italiane. Sergio Marchionne ha posto come condizione per effettuare consistenti investimenti in Italia un cambiamento delle regole del lavoro in fabbrica, atte a favorire una maggiore flessibilità e produttività. Non solo la Fiom, ma anche parte consistente della Cgil e della sinistra italiana, ha energicamente risposto «no» a questa richiesta che ha invece avuto l’avvallo delle altre sigle sindacali. La Fiat ha chiamato a referendum i lavoratori che, con una stretta maggioranza, hanno detto «sì» all’accordo.

Fin qui sembrerebbe una tappa della secolare lotta tra lavoratori e capitalisti, se non esistessero altri elementi che rendono la partita per l’Italia e i Paesi occidentali di ben più vaste dimensioni. Marchionne si dice impegnato a rendere la Fiat-Chrysler un colosso di dimensioni mondiali, capace di competere con altri colossi dell’auto: se continuasse a produrre in Italia accettando le condizioni della Fiom non riuscirebbe più a stare sul mercato e sarebbe costretto ad andare a produrre altrove.

I soci della Fiat non sono soprattutto fondi di investimento, ma i lavoratori americani soci della Chrysler attraverso i loro sindacati, il cui primo alleato è il governo americano guidato da quell’icona della sinistra mondiale che è Obama. Competitor della Fiat non sono solo le altre grandi industrie automobilistiche, ma i Paesi emergenti di Asia e America Latina, disposti a qualunque sacrificio pur di accaparrarsi produzioni a discapito del vecchio Occidente.

Si avvera alla rovescia una profezia di Marx che fa da contesto alla questione Fiat: i lavoratori dei Paesi emergenti non fanno la guerra proletaria ai Paesi sviluppati, ma vogliono strappare pezzi di mercato e di sviluppo ai lavoratori del primo mondo. Questo è il fatto nuovo di cui si parla troppo poco: nella vicenda Fiat (e non solo) c’è una variabile indipendente e non controllabile dalla politica e dal sindacalismo italiani, che si chiama globalizzazione e che rischia di mandare l’Italia di nuovo in serie B, come era prima del boom industriale.

I lavoratori americani, avendo capito che la globalizzazione minaccia il loro sviluppo, hanno cambiato le loro strategie, accettando di divenire comproprietari collettivamente dell’azienda a costo di sacrifici contrattuali.

COME SUI TITANIC. Che ne è dell’Italia? L’impressione è che non solo il 47% dei lavoratori Fiat, ma anche gran parte della società, della politica e della cultura italiana continui a ballare sul Titanic, per nulla conscia di questo rischio, anzi addirittura infastidita che qualcuno (pochi) continui a lanciare l’allarme. Come dice giustamente Giulio Sapelli in un intervento sul Sussidiario.net dello scorso 30 dicembre: «La sinistra antagonista coglie nel world manifacturing process e nel salario legato alla produttività la quintessenza dello spirito capitalistico a cui occorre opporre non la negoziazione sindacale e la contrattazione, ma l’antagonismo, ossia l’ipostatizzazione dei diritti svincolati dai doveri».

Eppure, molti altri segnali indicano che il caso Fiat non è un fatto isolato. Lo si vede innanzitutto nel processo di ristrutturazione in atto a seguito della crisi che sta provocando una netta divaricazione nell’apparato produttivo italiano. Ad aziende, medie, piccole e, in misura minore, grandi che stanno reggendo la sfida del mercato internazionale globalizzandosi, diversificandosi, aggredendo nuovi mercati, corrisponde la morte per asfissia progressiva di molte altre aziende incapaci di fare questo salto.

A questo corrisponde una progressiva divisione del mercato del lavoro nel segmento di chi è capace di passare dal posto al percorso (in certe regioni il tempo medio dei contratti di lavoro a tempo indeterminato è più breve dei contratti di lavoro a tempo determinato) e nel segmento dei “vinti” di verghiana memoria: giovani (uno su cinque né studia né lavora), donne (lavora meno di una su due), persone espulse dal mercato del lavoro a 50 anni, persone non qualificate che non entrano mai nel vero mercato del lavoro o, uscite, non riescono a rientrarci.

Corrisponde a questo dato un numero di persone che vive in una situazione di povertà crescente (10,8% di famiglie in povertà relativa), secondo una distribuzione territoriale che, come per lo sviluppo produttivo e occupazionale, è del tutto diseguale (al Sud è irregolare un lavoratore su cinque). Dire che si va in serie B collocandosi stabilmente dietro India, Cina, Brasile e – fra un po’ – molti Paesi del Terzo mondo, significa dire che l’Italia sembra rassegnata a una progressiva divaricazione tra Nord e Sud (cioè ad avere la più vasta area di sottosviluppo di un Paese Ocse), e al nascere di nuove divaricazioni anche in aree del Nord.

A tutto questo fa riscontro un dato che, per certi aspetti, è causa, per altri effetto di questi fenomeni: il crollo demografico che pian piano rende ancora più negativo il saldo da sempre non esaltante in Italia tra forza lavoro e persone che devono essere mantenute da chi lavora, e che rende perciò il futuro ancora meno roseo (siamo secondi nell’Ue per tasso di anzianità).

IL CUORE DEL CANCRO. Quanto detto finora sembra già denunciare un’incapacità a leggere quanto avviene e a reagire alla sfida internazionale, ma alcuni fatti mostrano in cosa consista il cuore del cancro che ci attanaglia.

Lungo tutta la storia della Seconda Repubblica l’Italia, invece che affrontare compatta il pericolo del declino, sembra essersi impegnata più che altro ad autodistruggersi in duelli rusticani, come facevano i polli di Renzo di manzoniana memoria. Una quota autorevole di magistratura, fin dall’inizio della Seconda Repubblica, invece di assumersi con professionalità ed equilibrio il compito della giustizia, si è spesa nell’impresa di sostituirsi al potere politico, colpendo in modo diseguale e costruendo teoremi fatti di carcerazioni preventive e processi mediatici, smentiti poi in gran parte dagli organi superiori della magistratura stessa.

In questo modo, oltre a rallentare il suo lavoro fondamentale nella giustizia civile e nel contenzioso economico a cui sono destinati tempi e risorse marginali, sta contribuendo a distruggere il benessere degli italiani, come ebbe a rilevare don Giussani nel 1996: «Una parte esigua di tutto il popolo si erige a maestro illuminato e a giudice di tutti.

È il concetto caratteristico di qualsiasi tentativo rivoluzionario. Da questa pretesa deriva la sovrapposizione di una “classe” a tutto il popolo, l’esasperazione di un particolare che crea nel popolo l’immagine del magistrato come il “puro” per natura, come accadde tra i maestri catari e albigesi. È la fanatizzazione di un particolare, per cui facilmente si trascurano le leggi che il progresso della civiltà ha pensato proprio per salvare l’azione di questo particolare in rapporto all’utilità del tutto. Ma l’esaltazione di un particolare fa dimenticare le regole: si annullano diritti della persona e quasi ogni sentimento di pietà, assicurando un’idolatria agli attori in scena» (cfr. Preghiamo per l’Italia in pericolo, intervista da La Stampa del 4 gennaio 1996; ndr).

Un’analoga situazione di smarrimento si riscontra in ambito politico: la sinistra sembra aver realizzato la profezia di Augusto Del Noce, trasformandosi da sinistra di popolo a sinistra radical-chic, non più garan­tista ma giustizialista, senza un pen­siero e un’identità riformisti definiti, come è avvenuto in altri Paesi (vedi ad esempio l’esperienza legata all’ex premier inglese Tony Blair); il centrodestra, nello sciagurato teorema bipolare voluto da qualche editorialista e salotto bene, invece che attuare una vera svolta liberale ha ideologicamente pensato di affidare all’azione politica di un demiurgo la risoluzione dei problemi immani di una nazione, dimenticando la sussidia-rietà, le realtà popolari e i corpi intermedi, ancora più di quanto era avvenuto nella Prima Repubblica (fa eccezione sostanziale solo qualche regione come la Lombardia e qualche ministro più responsabile).

Ne è esito quella difesa dello statalismo mossa, da una parte, da giacobinismo e odio anti-popolare degno del miglior Crispi, dall’altra da sciatteria, interessi di bottega da ladri di polli e presunzione che sembra affermare un «più Stato meno società» come linea emergente. La difesa dello statalismo ha peggiorato la lentezza e l’inefficienza della burocrazia, malattia che atrofizza tutto il sistema educativo e formativo. Così non vengono più curati master, dottorati, internalizzazione, eccellenze: fattori che fanno la differenza in un sistema universitario. Il welfare statalista, incapace di valorizzare i numerosi tentativi esistenti di risposta ai bisogni di sanità e assistenza dei cittadini, è l’unico ad essere sostenuto.

Per non toccare i mille privilegi di gente legata a una politica che non è più espressione del popolo (non potendo più neanche scegliere chi eleggere), la spesa pubblica non viene mai strutturalmente tagliata. Questo statalismo, difeso in modo ancora più colpevole perché inefficiente e ideologico, ci sta mandando sempre più in serie B. Quanto esposto fin qui stenderebbe i fisici più robusti, ma non è ancora tutto.

La situazione del nostro Paese tra il 1880 e il 1915 con venti milioni di emigrati e quella a seguito della distruzione del primo dopoguerra vedevano l’Italia in condizioni socio-economiche più drammatiche di quelle odierne. Inoltre, la contrapposizione ideologica tra democristiani e comunisti, prima della caduta del Muro, era particolarmente feroce; lo statalismo dell’Italia sabauda e fascista, se non più invadente, era certamente più ideologico; l’ignoranza fino all’analfabetismo era più grande e, fino agli anni Settanta, più diffuso. Perché l’Italia ha saputo reagire allora?

Qui viene in aiuto quanto ha detto don Giussani all’Assemblea della De lombarda nel 1987 ad Assago, ripreso da Juliàn Carrón alla scorsa Assemblea Generale della CdO e dal volantino di CI a commento del rapporto Censis: il desiderio, inteso non solo in qualità di virtù civile, come nel rapporto Censis, è la struttura profonda dell’uomo; il desiderio di verità, giustizia, bellezza, bontà è nella persona umana, ma è più grande di essa, e trae origine dal rapporto con l’Infinito che l’ha creata.

IN UN MONDO CHE CAMBIA. Di fronte alle difficoltà, quando l’analisi delle condizioni strutturali sembra non lasciar scampo, è questa intuizione di esser fatti per le cose più grandi che accende il motore e rende ragionevole l’appello a un cambiamento necessario, altrimenti affidato al moralismo, alla paura, all’impeto per la riuscita, elementi inevitabilmente parziali. Ci sono Paesi governati da dittature che realizzano uno sviluppo spesso svincolato dalla libertà e dal rispetto per i diritti umani dei più.

L’Italia ha come suo punto di forza, nel consesso delle nazioni, il valore dato al desiderio della singola persona che è fonte di creatività, amore alla bellezza, capacità di inventiva, accettazione del sacrificio. La fede in un Dio incarnato è stata educazione continua all’irriducibilità di questo desiderio nel popolo, spesso ad onta di potenti e intellettuali che in ogni epoca hanno cercato di ridurlo.

Questa stessa fede è stata strumento di conoscenza “realista”, aperta alla realtà delle cose concepite come dato e come segno di qualcosa da cui provengono, e non meri oggetti da analizzare in un’ottica pragmatista. Come è diverso chiedersi a chi possa servire un bicchiere e perciò migliorarne la fattura, invece di riprodurlo in modo standardizzato!

Come è diverso interloquire con un uomo considerandolo una risorsa, invece di disquisire di risorse umane! Un desiderio educato dalla fede spinge a costruire famiglie stabili, a mettersi insieme in associazioni, movimenti, corpi intermedi: fattori di educazione, solidarietà, sussidiarietà, democrazia, pluralismo. L’educazione del desiderio, generata dalla fede, ha influito anche sulla tradizione del movimento operaio e del mondo socialista italiani, amanti della giustizia e attenti al valore della singola persona, unica e irripetibile; e ha fatto sì che il mondo liberale capisse che il progresso non si misura sui freddi numeri, ma sul benessere del singolo.

GlUSTIZIALISMO E POVERTÀ. Se l’attenzione alla singola persona costituita di desiderio infinito vien meno, la giustizia diventa giustizialismo ipocrita giacobino e distruttivo; la ricerca del progresso diventa individualismo che crea competizioni darwiniane distruttive tra gli uomini (come si è visto nella recente crisi finanziaria) generando quegli isolamenti all’origine delle peggiori povertà.  Se l’Italia non vuole tornare in B accettando la sfida dell’inevitabile cambiamento posto dal mondo che si trasforma, occorre che qualcuno torni a desiderare accettando di essere educato da chi è in grado di farlo.