Eutanasia, l’inganno dei "casi limite"

eutanasiaLibertaepersona.org 1 marzo 2011

di Giuliano Guzzo 

Ma il diritto di morire non dovrebbe riguardare, semmai, solo i “casi limite”? Domanda ovvia, si potrebbe rilevare. Il punto è che sono anni che i fautori dell’autodeterminazione ci rassicurano sul fatto che mai e poi mai l’eutanasia, una volta legalizzata, potrebbe sconfinare in abusi, mentre, purtroppo per loro (e per noi), la realtà dice ben altro.

Nella civilissima Olanda, il Rapporto Remmelink, primo rapporto ufficiale commissionato dal Governo sulla “dolce morte”, rivelò che almeno un terzo dei 5.000 pazienti ai quali, già nel lontano ‘91, era stata somministrata la “dolce morte”, non aveva dato alcun esplicito consenso e ben 400 ammalati non avevano neppure accennato alla questione con il loro medico personale. Scusate, e l’autodeterminazione? Dettagli, evidentemente.

Analogamente non si capisce perché si insita nel parlare di “casi limite” per quanto riguarda la possibilità di chiedere di essere aiutati a morire. Non lo si capisce perché basterebbe dare un’occhiata a quel che succede, per dire, nella vicina Svizzera, dove il suicidio assistito è legale e dove, giusto poche settimane fa, Andrè Rieder, uomo di 56 anni afflitto da sindrome maniaco-depressiva, è stato ucciso e pure ripreso, mentre spirava, per un documentario in programma alla televisione svizzera tedesca. Una morte in diretta in piena regola, insomma. Caso limite anche il suo?

Adesso ci mettiamo ad ammazzare i depressi? Sarebbe bene chiarirci su questo punto, perché sono anni che si recano mortalmente in Svizzera persone che, pur non essendo affatto incurabili, vengono aiutate a morire. Un paio di anni fa il quotidiano The Guardian ottenne un elenco di 114 persone inglesi recatesi in terra elvetica per morire: tra queste, alcune erano malate all’addome, altre al fegato, altre ancora di artrite. Di malati terminali, insomma, neppure l’ombra.

E c’è poco di che stupirsi: una volta che s’inizia a discettare del diritto a morire per alcuni, rarissimi “casi limite”, anche se lo si fa in Paesi di proverbiale efficienza come l’Olanda, si finisce inevitabilmente per inaugurare scenari inquietanti. Per diffondere una vera e propria cultura della morte. Se così non fosse non ci si spiegherebbe come mai proprio in Olanda, al St Pieters en Bloklands, un centro anziani di Amerfott, si sia deliberatamente deciso di non rianimare i pazienti al di sopra di 70 anni. Né si potrebbe comprendere come mai si sia affermato, sempre in terra olandese guarda caso, Per volontà propria, un movimento che si batte per chiedere ed ottenere il “suicidio assistito” per quanti, superati i 70 anni, si sentissero “stanchi di vivere”.

La tendenza è talmente grave e crescente che Lucien Israël, luminare francese non credente, osservando gli scenari contemporanei, pochi anni fa, nel corso di un’intervista, ebbe ad avvertire: «Se questa tendenza continua […] gli anziani dovranno difendersi dai giovani. Ma non solo: dovranno anche difendersi da medici e infermieri. Forse si comporteranno come gli anziani olandesi che, oggi, vengono a cercare protezione in Francia e in Italia. Può darsi che un giorno i nostri anziani saranno costretti a cercare rifugio nel Benin» (Contro l’eutanasia, Lindau, Torino 2007, p.86).

Domanda: se anche non credenti come Israel hanno capito e denunciato l’inganno eutanasico, cosa stiamo aspettando a ribellarci contro la “dolce morte”? Perché insistiamo con la tiritera dell’autodeterminazione e ne trascuriamo gli effetti collaterali? E’ davvero il caso di ascoltare altre prediche di Roberto Saviano in materia?

E dire che basterebbe volgere lo sguardo nella vicina Svizzera per aprire gli occhi…