Gioventù ritrovata

ragazzi fuoriTempi, n.9 – 9 marzo 2011

Per i giudici e i servizi sociali erano problemi, fedine penali, situazioni a rischio. Poi hanno incontrato qualcuno che per la prima volta ha dato loro credito. Genova, Napoli, Milano. Così i “ragazzi fuori” cominciano a vivere

di Benedetta Frigerio

Maria ha 16 anni. È seguita dai servizi sociali sin da piccola. Appartiene alla categoria “a rischio devianza/delinquenza”. La sua assistente sociale e lo psicologo cercano appoggio al Centro di solidarietà (Cds) di Genova, diretto da Graziella Avanzino: un giorno si presentano da lei con la ragazzina.

«Eccola», le dicono porgendole una scheda, «questa è Maria». Un insieme di attitudini mancanti sbarrate da decine di X. «Pensi, non sa fare nemmeno il letto», dicono alla direttrice. Graziella domanda loro se qualcuno glielo abbia mai insegnato, ma i due la guardano straniti. I loro test parlano chiaro: «È inutile provarci, serve solo qualcuno che la sorvegli».

Graziella chiede alla ragazza cosa le piace fare. Maria azzarda titubante: «Forse la parrucchiera». Nessuno prima le ha mai rivolto quella domanda. La ragazzina per un mese e mezzo pulisce i pavimenti di un salone di bellezza; qualche settimana più tardi Graziella la ritrova che lava le teste alle clienti. Passa un altro mese e la giovane chiede: «Graziella, l’edicola davanti al parrucchiere mi da 100 euro se dalle cinque alle nove di mattina distribuisco i giornali, posso?». Ora Maria è sposata e madre di un bambino.

Luca, invece, ha 17 anni e sta al Cds da qualche tempo. A cena i ragazzi si ritrovano spesso con Graziella per mangiare insieme e chiacchierare della vita. Una sera, però, Luca non arriva. Non risponde al telefono. Graziella si preoccupa, non sa che fare. Finalmente una chiamata. Sono i carabinieri: Luca è in caserma. Graziella si precipita. «Bisogna punirlo perché ha rubato una felpa», dicono. Luca è lì, in un angolo, da un paio d’ore, e nessuno gli ha ancora rivolto parola, vogliono solo segnalarlo al tribunale.

Nessuno gli ha chiesto perché quel furto. Lo fa, per prima, Graziella. «Io non ho nulla di bello – le risponde il ragazzo – e volevo esserlo per voi». Graziella gli spiega che «c’è un modo migliore per ottenere quello che giustamente desideri». Per farglielo capire gli fa pulire ogni mattina il Centro. «La vera bellezza richiede la tua partecipa zione», dice Graziella a Tempi. «Non che io non li punisca se sbagliano. Ma ai ragazzi, come a noi, serve la ragione delle regole».

Marco è un piromane. Gli assistenti sociali pensano che vada sanzionato: forse così capisce che deve smetterla. Graziella lo interroga e si accorge che il giovane non si rende conto della gravita dei suoi gesti. Così la donna litiga con il tribunale: chiede che Marco possa lavorare nella Protezione civile per la squadra antincendi, e tutti si oppongono. Ma lei non molla. Oggi quel ragazzo i roghi li spegne, e da due anni non ne appicca più: «Si è accorto, fermandoli con fatica, del disastro che provocano».

Tania ha vent’anni e serve la casa per anziani annessa al Cds. Si muove con padronanza, invece è qui solo da sei mesi. «Ho passato diciassette anni a essere punita», spiega la ragazza quasi incredula di poterne parlare. È in carico ai servizi sociali da quando ha tre anni: il suo passato è segnato, per il sistema Tania è schiava della sua storia. Sin da piccola è rimbalzata da un centro all’altro.

Poi ottiene quel che desidera: il liceo artistico. La ragazza disegna bene e ha buoni voti, ma un giorno sbaglia: marina la scuola e l’assistente sociale la ritira dall’istituto. «L’ambiente fuori è troppo pericoloso», le dice. «Io reagivo al contrario», prosegue Tania, «più mi reprimevano, più cercavo di scappare. Siccome mi sentivo etichettata, andavo con chi mi faceva “dimenticare”. Le brutte strade erano “parentesi di liberazione”». Finché nella casa-famiglia una suora si prende a cuore il suo caso.

La religiosa ha sentito parlare del Cds. «Quando arrivai qui, guardai Graziella sfiduciata (è il primo adulto di cui mi sia fidata). Le chiesi se dovevo raccontare anche a lei tutta la mia storia». Graziella le risponde che non le interessa, che con lei si inizia da ora. Le domanda cosa le piace fare: magari la sua creatività può essere spesa in cucina. Tania in sei mesi ne è diventata la padrona e, quando manca la cuoca, gestisce la mensa anche da sola.

Com’è cambiata in così poco tempo? «Ho passato la vita disperata, in gabbia. Per tutti io coincidevo con i miei sbagli, ma in fondo non smettevo di sperare». Dopo 17 anni la risposta: «La bellezza che mi ha fatto vedere Graziella, affidandomi responsabilità più grandi di me, mi ha fatta crescere. Ora ho anche una piccola casa che mi pago da sola», afferma fiera, mentre un senso di liberazione affiora in un sospiro.

«Oggi sono talmente piena di quello che ho, che non ho più bisogno di cercare in brutte strade. E nel futuro vorrei fare per i ragazzi quello che ha fatto Graziella con me. C’è solo una cosa che continuo a non capire: perché mi vuole così bene, diversamente dalle decine di adulti che hanno attraversato la mia vita?».

Già, perché? «Io stessa sono cresciuta grazie al perdono», risponde Graziella Avanzino. «Anche io ho avuto bisogno di qualcuno da cui imparare. È questo che detta il metodo». Quale metodo? «Mettere al centro il ragazzo e il suo desiderio. Farlo ricominciare proprio da dove sbaglia, indicandogli la strada giusta. Trovargli lavoro presso un maestro di bottega disposto a insegnargli la bellezza del fare. Ma non basta: propongo il Cds come una compagnia per sempre».

I “netturbini” del rione Sanità

Lungo il tragitto in taxi dall’aeroporto verso il Cds di Napoli si capisce già che qui è inutile tentare di applicare schemi: «Ho detto ai miei figli di andare via», esordisce l’autista. Nella provincia di Napoli vive il 25 per cento dei giovani d’Italia, «ma la delinquenza ha la meglio davanti alla fame».

In città ci sono vere e proprie zone franche da cui «molti non sono mai usciti. C’è gente che muore lì dentro senza aver mai visto il resto della città». Intorno al Cds, in uno dei quartieri più poveri della città, il rione Sanità, ruotano un’ottantina di amici di Comunione e Liberazione che hanno deciso di vivere qui tra degrado e delinquenza. Sono tanti “netturbini” volontari che da vent’anni ripuliscono queste strade, «perché altrimenti da qui scappi».

Non si sa quanto ci vorrà, ogni giorno si ripulisce un pezzetto che, da irrecuperabile che pareva, diventa un trionfo di bellezza. Il contrasto tra la strada e l’ordine che regna nei locali del Cds basta a spiegare perché, quando questa gente ha deciso di creare «un punto fermo dentro Napoli», hanno iniziato a bussare alla porta frotte di ragazzi.

Patrizia Flammia, la direttrice, spiega così il metodo che ha salvato dalla disperazione tante persone: «Uno cambia quando scopre che nella vita non domina l’inferno, ma esiste qualcosa di diverso». Lo conferma Silvia, 28 anni, mentre tiene in braccio il suo secondo figlio: «Avevo undici anni quando ho salito le scale del Cds: vidi un mondo che non credevo potesse esistere. Ero una di strada con davanti un sogno che non ho più mollato. Ho preso la terza media, lavoro e mi sono sposata. Ed ero destinata a finire come i miei amici: nella droga o nella prostituzione».

Il Milan calcio a Poggioreale

Tonino Romano, responsabile delle attività educative della scuola Sacro Cuore e collaboratore del Cds, racconta di Andrea. Ha 17 anni quando lo arrestano. «Proposi al giudice di portarlo con me in gita», ricorda Tonino. Il magistrato gli da del pazzo, ma lo lascia fare. Tonino dice al ragazzo che dovrà vigilare sugli altri: il silenzio in albergo è a mezzanotte. Andrea sgrana gli occhi, nessuno gli ha mai dato fiducia: «Si è sentito importante, e ovviamente alle dodici non volava mai una mosca», ride Tonino.

Come la scuola di Tonino, anche altre collaborano con il Cds. Sono quattro scuole pubbliche del rione Sanità, «che cercavano di arginare la criminalità ponendo delle regole», spiega Tonino. «Si accorsero di non aver presa sui ragazzi, perciò ci chiesero una mano. Oggi formiamo noi i docenti e così i ragazzi vivono una continuità educativa. Il massimo è quando iniziano a viverla anche a casa».

Infatti anche la vita di tante famiglie è stata stravolta dal Cds. Mara, 40 anni, vede suo figlio Mario cambiato: «Apparecchiava la tavola, cucinava e parlava italiano. Cose che non avevo mai fatto nemmeno io», racconta. «Allora sono venuta a vedere: ho scoperto la luce dopo 35 anni di buio. Oggi parlo italiano, lavoro, cucino e sono uscita dal quartiere. Ho speranza per me e per i miei figli», dice la donna con le lacrime agli occhi.

Anche a Maria, arrivata qui cinque anni fa, è stata ribaltata l’esistenza: «Ho tirato su tre figli da sola, ma per poter lavorare cercavo di metterli nei centri ludici. Regole e sfuriate, però, non sono servite a nulla: mio figlio maggiore è in carcere. Poi vengo a sapere del Cds: nell’amicizia coi volontari sono cambiata. Ora sono felice e il mio terzo figlio se n’è accorto. Sembra impossibile, ma adesso vengo qui con lui e ci aiutiamo anche nelle faccende di casa. Lui si è salvato». Maria oggi ride dei suoi guai, mentre ricorda che «ho passato metà della vita a non sapere cosa si provasse a fare una risata».

Con il Cds lavora anche una polisportiva. Mario Del Verme, il responsabile, annuncia che costruiranno nel centro di Poggioreale, un altro quartiere di Napoli ad alto rischio, una struttura d’aiuto allo studio e una ricreativa. Il Milan calcio ha deciso di finanziare, fra tanti, proprio questo progetto: «La vostra amicizia trasmette una diversità», hanno detto i dirigenti della società lombarda.

È stato Ciro, uno degli allenatori, a conquistarli. Il giovane racconta di essere arrivato al Cds a 17 anni: «Ero un prepotente. La mia famiglia un disastro». Il centro gli da un letto e gli affida qualche lavoro. Ma la sua violenza non si placa. «Ad un certo punto mi dissero: “Basta, se non cambi sei fuori”. Mi resi conto che potevo perdere tutto». Ciro va da Romano e gli dice: «Toni, voglio cambia. Non so’ capace però giuro che ci provo». A Romano non interessa cosa accadrà, ma solo il desiderio del ragazzo. Oggi Ciro è «un uomo cambiato. Non da uno sforzo, ma da una decisione presa davanti a un’alternativa: ripiombare nel nulla o questa amicizia».

«La libertà è una palestra»

A Milano, in zona Barona, fra droga, immigrazione e povertà, c’è la Comunità nuova, la Onlus fondata da don Gino Rigoldi, un centro giovanile che ospita i ragazzi del quartiere. Con loro si fa il doposcuola seguendo «l’approccio vincente di Rigoldi», racconta Sara Maida, volontaria. Lo chiama così perché ha visto Leo, 7 anni, «trasformato». Leo è un disastro, intelligentissimo ma ingestibile a scuola.

La mamma, giovane e separata, non sa più che fare. Sara inizia ad andare a scuola con lui. «Il piccolo, che non si fidava di nessuno, inizia ad aprirsi». Il pomeriggio Leo fa i compiti in comunità. «Quello che facciamo non si ferma a un aiuto di tre ore pomeridiane, non basterebbe. I ragazzi hanno bisogno di una educazione unitaria, perciò di un’alleanza e un progetto condiviso fra adulti».

Sara e gli altri volontari studiano con gli insegnanti un programma specifico per ogni ragazzo, e coinvolgono anche le famiglie. «La mamma di Leo non si fidava di nessuno: per lei gli assistenti sociali erano la minaccia che le venisse tolto il figlio. Invece, coinvolta a scuola e qui al centro, ci è venuta dietro». Oggi Leo sta bene, la sua irrequietezza «si è placata e la sua intelligenza educata».

«Tutto questo nasce dalla contemplazione e dall’amicizia con Cristo: non si può educare se non si è educati», spiega don Gino. Cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, Rigoldi vive con quindici ragazzi, cosiddetti a rischio. «Uno di loro è stato abbandonato da piccolo. Per vivere rubava. Io gli chiedevo perché, mi arrabbiavo, gli facevo restituire la refurtiva, ma lui capiva che tenevo alla sua vita.

Con me vedono una possibilità buona dentro la normalità e la fatica del vivere. Tanto che quel ragazzo oggi lavora in un bar e non compie più reati». Il lavoro è lungo e pesante, anche perché è controcorrente: «II carcere e i servizi sociali limitano la libertà di chi delinque e si spaventano perché io faccio l’opposto: la sfida della libertà è la palestra della responsabilità. Quando a un ragazzo si da una possibilità, quando lui si accorge di poterla portare, nel tempo, ne prova gusto. Altrimenti non farà mai un passo: penserà di essere incastrato, definito dai suoi errori. Delinquono anche perché hanno paura della libertà, non la sanno usare e si difendono, resistono alla vita con la violenza».

E perché don Rigoldi ha scelto questa vita? «Io lo faccio perché ho bisogno di essere amato, se non fosse per questo non potrei sopportare tutto. Amando loro, riscopro Dio».

Proprio pochi giorni fa uno dei ragazzi ha chiesto il Battesimo: «Luis, musulmano, spacciava droga. Mi chiedeva perché ero diverso dagli altri adulti, voleva vivere come me. Ha voluto sapere chi è quel Gesù per cui faccio tutto. Abbiamo iniziato il catechismo: adesso se manco è lui a rimproverare me». Ma anche molti “senza Dio” sono rimasti conquistati. «Io non ho fede – spiega Luisa Rani, responsabile delle attività ricreative – ma seguo don Gino perché non posso star bene se chi vive intorno a me è infelice».