Compagni il tempo è scaduto

Fiom_CgilTempi n.2 19 gennaio 2011

II sacro fuoco di formare le coscienze degli operai, la militanza cigiellina e poi il lento accorgersi che la realtà va da un’altra parta. «E forse noi con la nostra lotta di classe eravamo gli unici borghesi in quell’azienda»

di Fabio Cavallari

Era il luogo ideale, quello dove il conflitto di classe poteva esprimere le sue potenzialità. Quando ho varcato per la prima volta i cancelli di una fabbrica, avevo poco più di vent’anni. Non mi sembrava neppure il caso di cercare un lavoro consono al mio diploma: ragioniere. No. Il manifatturiero, era davvero il luogo ideale dove esprimere il mio protagonismo antagonista.

Avevo ben in mente le formule marxiane, il conflitto come pratica dell’agire. I padroni da un parte e i lavoratori dall’altra. Soggetti complementari, mai assimilabili, inconciliabili per natura.

L’ambiente aiutava molto l’immaginazione. Avevo scelto un’azienda tessile, telai e torcitoi che funzionavano notte e giorno, un ciclo continuo che non risparmiava neppure i giorni di festa. A completare l’opera, una struttura societaria aziendale, che oggi farebbe impallidire Marchionne. Gente di destra, tenace, poco incline alla concertazione. Erano gli inizi degli anni Novanta e già allora per stare al passo con le produzioni d’oltreoceano era necessario ottimizzare i tempi.

Sull’altra sponda il sindacato, i rappresentati dei lavoratori e le assemblee. In mezzo le persone in carne ed ossa, uomini e donne che non badavano ai sabati e alle domeniche o ai vincoli del contratto. «Questa è la base ideale dove far attecchire le coscienze» pensavo ad alta voce nella pausa mensa. Mai perso uno sciopero o un picchetto, anche se non ho mai ceduto alle lusinghe degli apparati sindacali. Io stavo a sinistra, perché in fin dei conti «le organizzazioni dei lavoratori, non facevano altro che partecipare alla regolazione dello sfruttamento secondo le regole di mercato».

Parlavamo bene noi comunisti, la nostra spinta ideale aveva una purezza cristallina, il nostro “fare” nulla a che fare con il gioco delle parti. Ci siamo accorti con il tempo, che le nostre ore di sciopero servivano a qualche dirigente provinciale per rivendicare risultati, in verità tutt’altro che esaltanti. Noi ci credevamo, leggevamo le teorie di Georges Sorel e pensavamo allo sciopero generale rivoluzionario, alla scalata al cielo.

Eravamo già fuori tempo massimo. Sarebbe bastato guardare quei lavoratori al nostro fianco, per comprendere che la realtà era cosa diversa dai nostri pensieri. In verità eravamo troppo occupati a seguire i dibattiti del comitato centrale, i comizi dei nuovi guru della sinistra, le pagine de II Manifesto. Eravamo anche in grado di mettere in difficoltà dialettica i “padroni” e quello era un esercizio di stile che sembrava davvero appagare la nostra pretesa. Sostenevamo il sindacato ad insistere, a costringere l’azienda a venire a patti, a scendere a compromessi con il proletariato. Termine desueto che usavamo ad ogni pie sospinto.

Ma chi erano i proletari? Quelli che chiamavamo i “servi dei padroni” o chi teorizzava l’appartenenza di classe? Oggi vien da sorridere, ma forse noi che tentavamo di egemonizzare la fabbrica eravamo gli unici borghesi presenti in quel luogo. Più di cento dipendenti, quattro impiegati e un padrone che lavorava anche il giorno di Natale.

Non c’erano proposte che potevano ricevere un “sì”, gli accordi interni ci sembravano un trucco per fregare le maestranze. Eppure i proletari, cioè quelli veri che lavoravano per mantenere le loro famiglie, già in quegli anni sembravano guardare altrove.

Gli straordinari che noi volevamo boicottare perché falsavano le  coscienze, erano una manna per quelle persone. I temi che oggi scaldano il dibattito imposto da Marchionne, non sono null’altro che gli stessi punti che la piccola e media impresa chiedeva di discutere già vent’anni fa. Nuove regole per le pause, l’assenteismo, i turni di lavoro ed un modello innovativo di relazioni industriali al passo con i tempi. Il nostro “no” era puro, quello di chi trattava nelle sedi del potere sindacale molto meno.

Abbiamo faticato a capirlo persine nel 2003 quando abbiamo sostenuto il referendum proposto da Rifondazione Comunista, per estendere l’articolo 18 alle aziende con meno di sedici dipendenti. Ci dicevano che era una questione di democrazia, il sindacato neppure un anno prima aveva portato in piazza tre milioni di persone per opporsi alla proposta di Berlusconi di sospendere in via sperimentale il suddetto articolo, ma Cofferati rispose picche alla chiamata alle armi di Bertinotti.

Siamo stati i servi sciocchi di un potere che già in tempi non sospetti aveva perso il legame con il suo popolo. Iscritti alla Cgil che votavano Lega e Forza Italia. Se oggi Marchionne usa la mannaia per introdurre una nuova pratica di relazioni industriali, lo si deve ad un ritardo spaventoso, colpevole e anacronistico, condotto dal maggiore sindacato italiano per almeno quattro decenni. Sarebbe bastato osservare la realtà, uscire dalla nostra pretesa per comprendere che chi volevamo rappresentare chiedeva cose diverse dai nostri slogan

I nostri slogan, le loro buste paga

Il concetto di classe prevedeva una difesa coatta e indiscutibile dei suoi appartenenti, così abbiam finito per difendere gli assenteisti, chi rallentava il lavoro, talvolta anche chi cercava di boicottarlo. Noi eravamo puri, ma chi guidava le fila ha il potere di veto per costruire la propria posizione.

Così abbiamo perso gli operai: semplicemente operando su un piano differente da quello del quotidiano. Quando mi è stato chiesto di diventare rappresentante dei lavoratori per la sicurezza, ho assunto l’impegno con la volontà di colui che vuole scardinare il sistema, ma lì, sporcandomi le mani assieme all’imprenditore, ho compreso che nulla è più vero e concreto della realtà.

Nessun “padrone” vuole perdere un operaio per produrre un “pezzo” in più, nessun infortunio giova alla fabbrica. D’improvviso mi sono ritrovato nella stessa situazione dell’imprenditore, lì accanto a lui per produrre negli operai una coscienza della sicurezza condivisa. Una condizione che mi ha costretto ad entrare nel merito di regole e codicilli fuori dal tempo.

Lontani dalla realtà produttiva, ma soprattutto da quegli uomini e quelle donne per cui erano stati scritti. Dov’era il nemico? Chi incarnava il male? Quel “padrone” che rivendicava un’appartenenza “repubblichina” ma si comportava come un padre, o negli ingranaggi distorti del contratto nazionale e dei suoi “pasdaran” cigiellini?

Così mentre i racconti del Novecento sbiadivano, il mondo dell’impresa è stato invaso dagli speculatori, dai faccendieri della finanza, da chi davvero non ha mai toccato con mano la realtà della produzione. E lì dove il sindacato avrebbe dovuto esser presente, il deserto aveva già invaso ogni pertugio possibile. Non è un caso che oggi per protestare sia diventato necessario salire sui tetti, fare uno show ad uso e consumo delle televisioni.

Rimane un sistema bloccato, preda di regole e pratiche ferme ad un’epoca lontana. Checché se ne dica, ci sono ancora gli operai, sono sopravvissuti al crollo del socialismo reale, alla fine della sinistra italiana, alla funzione minoritaria del sindacato confederale e persino all’apertura dei mercati mondiali. Quale ruolo può avere oggi il sindacato? Non serve un soggetto acquiescente o prono, ma persone che sappiano guardare lontano.

La nostra manodopera rimane un’elite qualitativamente alta, qualificata, il valore aggiunto che può consentire al nostro paese di accettare la sfida della globalizzazione. Questo è oggi il terreno su quale il sindacato dovrebbe giocarsi la sfida, anche in competizione con Marchionne.

È finito il tempo delle astrazioni, del potere di veto. Questa è l’ultima fermata, anche per la Cgil.

* * *

A forza di fare i duri e puri noi della Fiom ci siamo screditati

Nel quadro sindacale la Fiom ha sempre rappresentato più una quarta Confederazione che una federazione di categoria. Sempre con uno sguardo benevolo, però, da parte della Cgil, anche quando i metalmeccanici si smarcavano dalla linea, attribuendosi il ruolo di primi della classe.

È però nella seconda metà degli anni Novanta che è iniziata una sua deriva anomala, verso una linea rivendicativa sempre più massimalista e tesa a sconfinare ampiamente in un ruolo politico diretto.

Il preteso primato della Fiom nella rappresentanza, così come quello Cgil, si basa su una serie di scatole cinesi, di matrioske. Fiom e Cgil hanno la maggioranza relativa su ogni singolo sindacato, a volte su Cisl e Uil, ma non su Cisl, Uil, Ugl, Fismic, Cobas e autonomi.

Inoltre, tutti insieme, non rappresentano la maggioranza dei lavoratori. Eppure in atto c’è sempre un procedimento perverso. Si sa che la rappresentanza erga omnes è incostituzionale, ma i custodi della Costituzione vegliano con un solo occhio: quello sinistro, in tutti i sensi del termine. Ciò non impedisce agli iscritti alla Fiom di beneficiare delle migliori condizioni dei Ceni e degli accordi che non firmano.

Peraltro mai nessuna delle controparti ha invocato la clausola della decadenza del diritto alla nomina di rappresentanti, dopo due Contratti collettivi non firmati. Tutto ciò da una rendita di posizione incredibili a Fiom e Cgil che non si sporcano mai le mani con una firma ma restano arroccate sulla protesta continua, l’aggregazione di tutti gli scontenti

Questo accade sul grande palcoscenico della politica sindacale. Fuori dei riflettori, c’è un popolo di lavoratori che tutele proprio non ne ha e conosce miglioramenti solo in occasione di contratti o accordi nazionali.

Quando si va alla conta con un referendum nazionale, questa è la maggioranza silenziosa che vince. Quando in ballo c’è la salsiccia, non si scherza: con le filosofie politiche non si man­gia. Ora può essere che con Marchionne la Fiom stia inseguendo almeno il punto della bandiera. Ma sarebbero solo emuli di Pirro.

Bruno Crespi dirigente Fiom-Cgil Lombardia in pensione