Siamo tutti cristiani d’Oriente

sonodo_MO_2010Tempi n.43 del 3 novembre 2010

La fede in terra ostile vive la stessa crisi e le stesse sfide dell’Occidente. «Il vero dramma dell’uomo non è che soffra per la sua missione, ma che non abbia più una missione». Il grido di dolore del Sinodo

di Benedetta Frigerio

Sono grida di dolore quelle provenute dal Sinodo per il Medio Oriente conclusosi domenica 24 ottobre. Gli interventi dei padri sinodali hanno abbandonato il linguaggio diplomatico, che sembra non bastare più a tutelare le comunità cristiane perseguitate in quelle terre difficili.

«Per te ogni giorno veniamo massacrati!», ha escalmato Thomas Meram, arcivescovo in Iran. «Per la povertà molti cercano di emigrare. Per poter facilitare il viaggio cambiano i loro nomi in musulmani e sono costretti a rinnegare le loro radici», ha detto il presidente del Consiglio della Chiesa Etiopica. In Egitto si è parlato di una situazione di «ghettizzazione e ostilità». Mentre il vicario apostolico in Arabia ha descritto così gli Emirati Arabi: «Leggi severe sull’immigrazione, restrizione del numero dei sacerdoti. Diritti individuali e assistenza sociale limitati. Nessuna libertà di religione. Limitata libertà di culto».

La denuncia di Georges Casmoussa, arcivescovo siro cattolico di Mosul, riguarda invece le «ondate di terrorismo, ispirate da ideologie religiose islamiche… Il cristiano orientale in un paese islamico è destinato all’esilio o a scomparire». Ha stupito tutti l’audace intervento di monsignor Ruggero Franceschini, vicario di Smirne, in Turchia.

In un quadro in cui la Chiesa aveva sempre prudentemente evitato di prendere posizione sulla natura dell’assassinio di monsignor Luigi Padovese, vicario apostolico dell’Anatolia, Franceschini ha denunciato «l’omicidio premeditato, dagli stessi poteri occulti che il povero Luigi aveva, pochi mesi prima, indicato come responsabili dell’assassinio di don Andrea Santoro, del giornalista armeno Dink e dei tre protestanti di Malatya; cioè un’oscura trama di complicità tra ultranazionalisti e fanatici religiosi».

Un fuoco di fila di denunce coraggiose, esplicite e soprattutto nuove nei confronti degli Stati mediorientali. Nel settimo secolo i cristiani costituivano il 95 per cento della popolazione, oggi sono meno del 6 per cento e si prevede che nel 2020 si dimezzeranno ancora. Ma è davvero la persecuzione il motivo principale del grande esodo che affligge le terre dove il cristianesimo è nato? O l’escalation delle violenze sta facendo emergere problemi antichi mai affrontati?

Il Pontefice all’apertura dei lavori ha ricordato che la preoccupazione del Sinodo doveva essere anzitutto pastorale. Individuando nelle divisioni interne alle Chiese orientali il primo male che affligge i cristiani: la mancanza di «fede nel Dio vivo». Il problema della Chiesa mediorientale sarebbe quindi lo stesso di quella occidentale. La perdita dell’identità cristiana e il secolarismo che minaccia una fede viva, da cui derivano gli scontri fra cristiani «per cui prevale l’appartenenza etnica», come ripetuto da più padri sinodali.

Il documento presentato alla fine della prima settimana di lavori conferma l’analisi di Benedetto XVI. Parla, infatti, di un pericolo per i cristiani che «non deriva soltanto dalla loro situazione di minoranza né da minacce esterne, ma soprattutto dal loro allontanamento dalla verità del Vangelo, dalla loro fede e dalla loro missione».

«La duplicità della vita, per il cristianesimo – si legge – è più pericolosa di qualsiasi altra minaccia. Il vero dramma dell’uomo non è il fatto che soffra a causa della sua missione, ma che non abbia più una missione, per cui perde il senso e lo scopo della propria vita». La svolta è in un documento che non valorizza soltanto la presenza dei cristiani in terre ostili, ma sottolinea la necessità di rieducare alla fede da cui nasce la testimonianza di una vita cristiana reale. Il che implica la possibilità del martirio, una parola che pare cancellata dalla moderna catechesi mediorientale.

«È indispensabile – riporta ancora il documento – la formazione missionaria dei nostri fedeli» e ciò passerebbe per la riscoperta della propria identità. «Gli Apostoli e la Chiesa nascente nelle nostre terre sono stati fedeli a questo comandamento del Maestro: portare la fede in Gesù Cristo fino agli estremi confini della terra, spesso a prezzo del martirio. Il loro sangue è stato seme di numerose Chiese. Le prime Chiese sono il frutto della morte e della risurrezione di Cristo. Le nostre Chiese sono state l’avamposto delle missioni».

Solo da questi presupposti, hanno concluso i padri, sarà poi possibile rinnovare anche il dialogo con ebrei e musulmani. Don Rino Rossi, uditore all’assise e direttore della Domus Galilea in Terra Santa ha, infatti, ribadito che il problema in Medio Oriente è quello di «una forte secolarizzazione», per questo «dobbiamo aiutare i nostri cristiani a riscoprire la fede, perché altrimenti scompare la Chiesa… c’è il pericolo di farsi prendere dai molti problemi, da tutti i conflitti politici che ci sono ed esistono, ma questo può sviarci dalla prima missione, la cura del gregge».

La vera rivoluzione

Dalla fede, ha sottolineato il Papa nell’omelia d’apertura, bisogna ripartire, per riconoscere «il dono dell’unità e quindi testimoniare». «I cristiani in Terra Santa – ha insistito Benedetto XVI – sono chiamati a ravvivare la consapevolezza di essere pietre vive della Chiesa». Il Pontefice ha poi descritto la via per ravvivare questa coscienza, che sola può permettere al cristiano di vivere anche in enormi difficoltà: «La salvezza passa attraverso una mediazione determinata, storica: la mediazione del popolo di Israele, che diventa poi quella di Gesù Cristo e della Chiesa».

Questa è la «porta della vita aperta per tutti, ma, appunto, è una “porta”, cioè un passaggio definito e necessario… La vita di comunione attende la nostra risposta». Perciò è fondamentale l’educazione a «rafforzare l’identità cristiana mediante la Parola di Dio e i Sacramenti», da cui nasce la «vita comune». Nell’omelia finale Benedetto XVI ha poi ricordato la preghiera, che «è tanto più potente quanto più chi prega è in condizione di afflizione».

Perciò ha incoraggiato i fedeli a non desistere «finché l’Altissimo non sia intervenuto e abbia ristabilito l’equità» in regioni dilaniate dai conflitti. Il resto? Sono tutte conseguenze. Perché solo un cuore convertito e in preghiera e che si accosta ai sacramenti è in grado di essere fattore di pace, «di rompere il circolo vizioso della vendetta», ha ricordato alla conclusione del Sinodo il Pontefice. «Il compito missionario», infatti (tema del prossimo Sinodo del 2012), non è «rivoluzionare il mondo», ma «gustare il dono della sua Presenza».