Educazione e maleducazione

maleducazioneLa Civiltà Cattolica n.3846
 18 settembre 2010

Giandomenico Mucci s.i.

Non sono soltanto i vecchi e gli anziani a lamentare da noi il tramonto delle buone maniere. Un po’ da ogni parte ci sono i segni di un turbamento diffuso per la mancanza di rispetto per se stessi e per gli altri. Non ci riferiamo ai grandi crimini. Parliamo di quella maleducazione spicciola che compromette in qualche modo la convivenza civile.

Citiamo a caso. Il televisore tenuto anche di notte ad alto volume, gli scarabocchi indelebili sui muri tinteggiati di fresco, il chewmg gum sputato sulle strade e attaccato perfino ai muri e alle colonne dei palazzi storici, i cellulari che squillano nelle chiese e durante le conferenze e i concerti, lo scarso rispetto per gli anziani, i genitori, i professori, anche da parte dei bambini, il mozzicone ancora acceso gettato dal finestrino dell’auto, l’automobilista che ha torto e pretende di avere ragione urlando, e via dicendo (1).

C’è chi dice che tali sono gli effetti del relativismo o del nichilismo o del permissivismo. Altri parlano di emergenza educativa derivante dall’enfatizzazione senza scrupoli del valore del denaro, del successo e del potere (2). Discutano i competenti. Per quanto riguarda il costume italiano, ci sembrano convincenti le osservazioni storico-fenomenologiche di Sergio Romano. Gli italiani sono cortesi, umani, bonari, fors’anche più di altri popoli. In essi queste qualità scattano quando due persone scoprono di avere qualcosa in comune: la città natale, i passatempi, lo stesso bar, la stessa squadra di calcio, le stesse idee politiche.

Manca però la cortesia formale. Se hanno fretta e devono farsi strada, non usano l’urbano «permesso» e tanto meno chiedono scusa. In luoghi affollati, parlano al cellulare ad alta voce dando fastidio agli altri. Guidano l’auto o la moto come se gli altri avessero il dovere di dare loro la precedenza in ogni caso. Salvo poi a diventare esageratamente cortesi, cioè servili, specialmente con gli stranieri che fanno turismo.

Secondo Romano, sulle cattive maniere degli italiani pesano i due fattori fondamentali, che sono la famiglia e la scuola, senza trascurare l’analfabetismo che è tutt’altro che vinto. Si aggiungono due altri importanti fattori. Il primo è la debolezza della borghesia italiana. Il galateo quotidiano è un’invenzione borghese che è sorta, verso la fine del Settecento, in Gran Bretagna, si è diffusa in Francia e nei Paesi germanici durante l’Ottocento ed è legata alla rivoluzione industriale e al ruolo crescente della borghesia nella politica e negli affari.

Sennonché, in Italia, in altri Paesi del Mediterraneo e nei Paesi slavi, la rivoluzione industriale è arrivata tardi e non ha modificato le norme più elementari della convivenza civile. Fino a non molto tempo fa, gli ufficiali davano del tu ai soldati e i padroni di casa ai domestici: abitudine peraltro non ancora completamente estinta. Il secondo fattore è il comportamento di coloro che godono di notorietà: uomini politici, cantanti, attori, gente dello sport, artisti, intellettuali.

Costoro sono, di fatto, modello e specchio per una parte rilevante della società. Ebbene, questa élite («mai parola è stata così male usata», nota Romano) è formata solitamente da persone che litigano abitualmente, si insultano, usano un linguaggio triviale, raccontano storielle ammiccanti e, soprattutto, ostentano compiaciuti un uso feudale del loro potere (3)

I ragazzi

Come potrebbero ragazzi e giovani sfuggire a questo stato di cose? Non si contano le analisi e le indagini che psicologi e sociologi dedicano da tempo al mondo giovanile. Sono un sintomo certo del malessere della società gli accoltellamenti, le rapine, le aggressioni, gli stupri di gruppo, gli assassini perpetrati dagli adolescenti. E la cronaca nera registra, accanto a questo malessere, at­teggiamenti giovanili che possono essere ricondotti anche alla loro mancata educazione.

Tutti abbiamo osservato, in molti ragazzi arrestati dopo un crimine, la freddezza e l’indifferenza non soltanto verso le vittime, ma pure verso i propri familiari e verso se stessi: talvolta, almeno all’apparenza, si mostrano insensibili finanche alla prospettiva del carcere, come se il superamento della noia fosse valso l’esperienza del delitto e il dolore di molti. È un’indifferenza riflessa anche nell’abbigliamento monotono: jeans, scarpe sportive, felpa, in qualsiasi occasione, sia la casa o la scuola, il lavoro o il pub, lo sport o la discoteca.

La stampa italiana è stata spesso sensibile a questo cruciale argomento. Non è, infatti, fenomeno da poco che tali ragazzi provengano non soltanto dalle zone di degrado, emarginazione e miseria, ma anche da famiglie, case e quartieri bene: e talvolta l’indigenza, talaltra la crisi di solitudine e di noia, talvolta il gruppo di amici sbagliati formano una miscela esplosiva.

Non un foglio ecclesiastico, ma un foglio laico ha dato risalto recentemente a un dato obiettivo. Oggi la famiglia italiana è debole.

I ragazzi sono privi della costante presenza dei genitori. Ma manca ai genitori il sostegno di altre figure di educatori come i parroci, i maestri, i professori. Capita anzi non raramente che i genitori prendano pregiudizialmente le parti dei figli contro l’opera di questi che dovrebbero essere cercati e accettati come collaboratori dell’educazione impartita in famiglia. «E rinunciare a qualsiasi forma di istruzione religiosa è, ovviamente, una scelta rispettabilissima che però priva la famiglia di un supporto non indifferente» (4). Quelle stesse famiglie, che avanzano critiche più o meno pretestuose contro quei collaboratori, permettono poi passivamente che i figli subiscano il prolungato «magistero» della televisione, «questo leviatano catodico» (5).

Le responsabilità etiche e la funzione spesso diseducativa dei media, particolarmente della televisione, sono state sottolineate dal Papa. I media, essendo gli strumenti attraverso i quali avvengono i processi di mediazione simbolica, inducono una cultura che può condurre all’assuefazione all’egoismo e all’indifferenza: «Ogni giorno, attraverso i giornali, la televisione, la radio, il male viene raccontato, ripetuto, amplificato, abituandoci alle cose più orribili, facendoci diventare insensibili e, in qualche maniera, intossicandoci, perché il negativo non viene pienamente smaltito e giorno per giorno si accumula. Il cuore si indurisce e i pensieri si incupiscono. Siamo tutti attori e, nel male come nel bene, il nostro comportamento ha un influsso sugli altri» (6).

Quale sarà questo influsso sulla formazione dei ragazzi e dei giovani? Quanta parte della maleducazione è dovuta a questo influsso?

Una realistica osservazione di Angelo Panebianco offre un esempio di controeducazione. Le corporazioni o categorie italiane (alti burocrati, magistrati, professori universitari, giornalisti, medici ospedalieri eccetera) comprendono al loro interno professionalità eccellenti, mediocrità e casi di indegnità professionale. L’opinione pubblica finisce spesso per credere che quei gruppi siano composti soltanto di mediocrità e indegnità, perché la presenza in essi delle eccellenze è oscurata dal meccanismo mediatico che porta solitamente sotto i riflettori soltanto le indegnità.

Succede poi che le rappresentanze dei gruppi si impegnino nella difesa a oltranza di tali indegnità per salvaguardare l’immagine del gruppo di fronte all’opinione pubblica e al potere politico. Di fatto, risultano protetti i membri peggiori. Anche qui: come riusciranno i giovani a vedersi riconosciuto «il diritto di essere aiutati a valutare con retta coscienza e ad accettare con adesione personale i valori morali» (7)?

Il sapere umanistico

Educazione vuoi dire cultura. E cultura non significa semplice acquisizione di competenze e di civismo. È stato detto da qualcuno che la cultura è apertura alla consapevolezza del valore moralmente educativo del sapere in quanto tale. E l’idea cara a tutta la tradizione umanistica occidentale. La cultura è rivolta costitutivamente alla verità e alla bellezza ed è in se stessa fonte decisiva di raffinamento etico e di crescita civile.

Cultura come storia, letteratura, arti, matematica (8). Un breve cenno a tre problemi, tra i tanti, dai quali è più facile evincere lo stretto legame che esiste tra cultura e educazione. L’insistenza periodica della stampa in proposito sta a dimostrare la dipendenza dell’emergenza educativa da una rinnovata promozione della cultura umanistica.

Occorre innanzitutto superare la visione ideologica sessantottina della storia nazionale. E tempo che la scuola riprenda a raccontarla con il rispetto dei fatti, spirito critico e pietà. Senza oscurare le sue pagine nere che, per gli ultimi settanta anni, si chiamano disfatta militare, guerra civile, terrorismo, scandali, criminalità organizzata. Senza oscurare le sue pagine luminose che, a tacere delle glorie della passata civiltà italiana, si chiamano, per quanto attiene all’epoca della Repubblica, disfatta del fascismo e Italia diventata potenza occidentale, membro fondatore della Comunità europea e sesta o settima economia mondiale (9).

E’ giusto che i ragazzi italiani, che vivono in un mondo multietnico, conoscano e apprezzino i valori delle civiltà dei quali è portatore il suo compagno di banco. Ma è altresì giusto osservare il principio del gradiente, come lo definisce Chiara Frugoni. La preminenza va data alla nostra storia nazionale, antica e attuale, perché là sono le nostre radici e non bisogna rinunciare alla propria identità culturale (10).

A proposito di questa identità da conservare, è un segnale preoccupante che l’editoria italiana, probabilmente schiacciata dal mercato, abbia abbandonato ogni disegno organico di proposte, riproposte e riletture dei classici della letteratura antica e moderna, che è uno dei vessilli identitari dell’Italia, quelli che indicano un progetto e una meta (11). Mario Luzi parlava della «sostanza nutritiva della letteratura» e poneva il suo valore formativo in questo, «che non ci disloca in un mondo parallelo ma ci trattiene nel nostro ordinario incrementando la nostra lucidità e la nostra comprensione» (12).

E qui il discorso cade ancora sulla scuola. Premettiamo che, secondo stime verosimili, in Italia sono circa tre milioni coloro che o non sanno né leggere né scrivere o lo fanno con difficoltà. Una ricerca curata dall’associazione dei direttori del personale (Gidp) rileva che i curricula presentati da persone in cerca di lavoro, anche da coloro che aspirano a funzioni di responsabilità gestionale, sono scritti senza controllo grammaticale.

Noti linguisti, come Giovanni Gobber, affermano che la scuola italiana d’oggi non insegna a scrivere ed è sottovalutata l’importanza dell’ortografia e della pronuncia corretta delle parole (13). E cosa dire della struttura del discorso, dei neologismi strampalati, dell’impoverimento della sintassi (14)? Con questi presupposti, si può pensare seriamente alla formazione culturale dei ragazzi e dei giovani, i quali peraltro disertano spesso i libri, che restano il mezzo principale per imparare a scrivere e ad educarsi alla cultura?

Vogliamo infine accennare al fenomeno degli anglicismi. Sergio Romano si è domandato perché gli italiani, specialmente i giovani, si lascino sommergere da una valanga di anglicismi non sempre utili e necessari. Fenomeno non del tutto nuovo. Le grandi potenze economiche e imperiali impongono regole commerciali, formule contrattuali, strumenti di credito e di risparmio. Le lingue corrono grazie all’influenza degli Stati che le parlano.

Nel Settecento, quando l’influenza della Francia fu grande dall’Atlantico agli Urali, l’aristocrazia e i ceti emergenti della società italiana parlavano francese, leggevano libri francesi, introducevano neologismi francesi: e fu un’importazione così massiccia da rinnovare l’italiano. Vengono dal francese, secondo Bruno Migliorini, cotoletta, baionetta, mitraglia, picchetto, manovra, scialuppa, cerniera, ghisa, aggiotaggio, conto corrente, dipartimento, marionetta, minuetto, giardinaggio, interessante, intraprendente, manifattura, materia prima, rapporto (come relazione tra persone), saggio (come articolo), vignetta, papa.

In quel secolo, anche la lingua italiana esercitò una sua influenza, per esempio nel campo della musica. Si pensi ai tanti libretti d’opera di Haydn e Mozart e ai tanti testi poetici musicati dai grandi artisti europei. Oggi l’influenza linguistica italiana sembra limitarsi alla moda, alla gastronomia e alla criminalità: dolce vita, paparazzo, mafia, camorra, pizza, espresso, cappuccino, tiramisù (15).

Dunque, può piacere o no, ma non è un dramma la presenza degli anglicismi nell’italiano. Ma perché usare parole straniere quando l’italiano ha termini perfettamente equivalenti? Hanno questa abitudine i navigatori di internet e quanti o hanno studiato e lavorato all’estero o svolgono attività di carattere internazionale: finanzieri, agenti di borsa, stilisti, esperti di relazioni pubbliche, impresari della moda e della comunicazione, tecnici delle nuove tecnologie, organizzatori di convegni e seminari.

In questi campi, soprattutto in quello economico e finanziario, la parola inglese indica funzioni e strumenti che provengono dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna. Tutto ciò appartiene all’evoluzione naturale delle lingue e al predominio di una sulle altre per le ragioni segnalate.

La «maleducazione» comincia quando gli italiani, adulti e ragazzi, vogliono ostentare o le loro conoscenze linguistiche o le loro frequentazioni internazionali o la loro malintesa modernità. E questo è snobismo. Incuranti di rendersi poco comprensibili a una larga parte di concittadini, abusano degli esotismi perché pensano che il «parlare difficile» sia segno di intelligenza e di superiorità. E magari storpiano la parola inglese o la usano a sproposito! E l’italiano è inondato da un diluvio di parole inglesi, mal pronunciate, mal comprese e il più delle volte inutili (16). E questo è provincialismo.

Note

1) Cfr A. MUNDULA, «Contro la maleducazione», in Feeria 17 (2009) 12-14; L. TRUSS, I maleducati, Casale Monferrato (Al), Piemme, 2006.

2) Cfr A. ANDREINI, «II coraggio di educare», in Feeria, cit., 32-35.

3) Cfr S. ROMANO, «La maleducazione italiana. Ragioni e responsabilità», in Corriere della Sera, 16 novembre 2008, 31.

4) I. BOSSI FEDRIGOTTI, «I nostri figli senza maestri», ivi, 30 aprile 2009, 1 e 36.

5) R. CHIABERGE, «Ma l’intelletuale non perde il vizio», in Il Sole 24 Ore, 18 gennaio 2004, 28.

6) Cfr F. GlANSOLDATI, «Ratzinger critica i mass media», in // Messaggero, 9 dicembre 2009, 13.

7) Gravissimum educationis, n. 1 c.

8) Cfr E. GALLI DELLA LOGGIA, «Scuola. Così la democrazia diventa catechismo», in Corriere della Sera, 8 novembre 2009, 28 s.

9) Cfr S. ROMANO, «Perché è così difficile insegnare l’amor di patria», ivi, 15 febbraio 2010, 31.

10) Cfr C. FRUGONI, «La storia del mondo è una sciocchezza», in la Repubblica, 13 marzo 2001.

11) Cfr P. Di STEFANO, «L’Italia senza identità non crede nei classici», in Corriere della Sera, 20 ottobre 2009, 42 s; U. MOTTA, «II canone, i classici e i moderni», in Vita e Pensiero 89 (2006) 100-104.

12) M. LUZI, «Inedito», in Avvenire, 27 maggio 2005, 30.

13) Cfr A. SCAGLIA, «Uno su dieci non sa l’italiano», in Libero, 18 agosto 2009, 1 e 6.

14) Cfr C. SEGRE, «Boss, plot, trend: l’onda irresistibile», in Corriere della Sera, 15 febbraio 2010, 29.

15) Cfr S. ROMANO, «II trionfo dell’inglese come cambia l’italiano», ivi, 15 gennaio 2010,51.

16) Cfr Id. «Perché tante parole inglesi in bocca a molti italiani», ivi, 17 ottobre 2009, 49