La libertà e le sue radici

da Il Corriere del Sud 13 Aprile 2011

di Piero Mainardi

Lo studio di Maurizio Ormas, La libertà e le sue radici. L’affermarsi dei diritti della persona nella pastorale della Chiesa dalle origini al XVI secolo (Effatà editrice, E. 17.50), demolisce il principale dei luoghi comuni della critica moderna che rivendica il primato rispetto alla teorizzazione della libertà e alla proclamazione dei diritti umani che sarebbero stati conculcati dalla Chiesa cattolica e dalla superstizione cristiana.

Una tesi che Ormas smentisce attraverso una minuziosa ricostruzione delle fonti giuridiche e canonistiche che fecero da architrave ad una società che dal tardo impero al XVI secolo è stata integralmente permeata dalla fede e dalla cultura cattolica.

Nel passare in rassegna, periodo per periodo, i grandi temi della dignità umana, dell’eguaglianza e della schiavitù, della proprietà, del rapporto sovrano/sudditi, Chiesa/potere politico, emerge un quadro della società medievale di una vivacità e di una ricchezza intellettuale stupefacente, che annullano la presunta superiorità intellettuale dell’uomo moderno.

Soprattutto sul piano politico-istituzionale la civiltà cristiana occidentale costituì un unicum nella storia perché in nessun altro luogo della terra il potere politico non è riuscito ad assorbire la libertà e la dignità umana, e in nessun altro luogo gli uomini hanno potuto dar vita alla cosiddetta “società civile”, nella quale furono vissute forme concrete di libertà. Che cosa ha reso è possibile tutto ciò?

Certamente il fatto cristiano, il suo annuncio, la presenza di una Chiesa che in tutti i tempi, preservando la propria funzione, ha difeso concretamente, direttamente o indirettamente, la dignità della persona e dei suoi diritti. Ciò non per mera credenza soprannaturale quanto per la capacità di valorizzare a pieno la natura umana e la sua razionalità, quale impronta di Dio sulla creatura.

Lo dimostra il fatto che l’excursus di Ormas parte dal pensiero romano, soprattutto da quello stoico, tanto che lo stesso sant’Agostino a proposito di Seneca scriveva: ”che cosa potrebbe dire un cristiano più di quanto ha detto questo pagano?”. Cioè il cristianesimo non inventa niente ma porta a compimento – proprio perché religione rivelata e vera – tutte quelle potenzialità che l’uomo con la sola ragione naturale riesce a cogliere ma non riesce a vivere, sistematizzare ed incarnare pienamente.

Infatti l’eguaglianza tra gli uomini, già affermata da pensatori dell’età classica, solo col cristianesimo poté prendere consistenza perché fondata sull’uomo creato a immagine e somiglianza di Dio che, decaduto e preda del disordine morale, viene riscattato al prezzo della morte in croce del Figlio. Se Dio per la salvezza dell’uomo è giunto a tanto, diviene impossibile ignorare il valore della dignità umana. Ma la dignità umana che il cristianesimo delinea non è un’astratta dichiarazione dei diritti universali dell’uomo, quale quella dei Lumi, ma la concretezza della sua libera risposta alla Grazia offerta da Dio e alla necessità di conformarsi alle Sue leggi morali per vivere secondo giustizia.

Ecco spiegata la grande attenzione del Medioevo, i secoli cristiani per eccellenza, per il diritto.

La storica Maria Zambrano coglie efficacemente lo spirito che animava il diritto medievale: «l’uomo del Medioevo … che si sapeva decaduto, portava in sé …, sia pur offuscata, la presenza viva della divinità. E tale presenza non si manifestava solo in un sentimento di quello che in seguito si è concepito come cuore, ma attraverso la ragione. La ragione era divina. Una ragione trascendente che muovendo dalla divinità attraversava l’intera creazione e stabiliva una dimora prediletta nella mente umana … la ragione illuminata dalla fede e dall’amore».

«Dio – prosegue Ormas – era criterio ultimo per giudicare le azioni umane e le istituzioni stesse. Quanto più si conformano all’equità e al bene che è Dio stesso, tanto più sono da ritenersi legittime. In caso contrario al popolo vengono riconosciuti la facoltà e il diritto di ristabilire l’ordine delle cose». Gli stessi glossatori intendendo il diritto come espressione del principio di giustizia, affermavano che “quando questa caratteristica si imprime nell’animo e nella volontà di un uomo viene chiamata giustizia, quando la giustizia si fa diritto viene chiamata ius». E lo stesso re non era superiore alla legge che doveva rispettare e far rispettare.

Le stesse categorie dualistiche mutuate dalla modernità con cui siamo abituati a definire le relazioni tra potere politico e Chiesa sono fuorvianti se non addirittura errate. Accanto e come sviluppo della dottrina di papa Gelasio I della distinzione dei due poteri si afferma la concezione del Sacerdotium e del Regnum all’interno dell’unica realtà della Chiesa, intesa come unica comunità dei credenti: cioè tutta l’organizzazione spirituale civile e materiale del cattolicesimo romano guidata da due diverse gerarchie e da due diverse autorità con compiti diversi ma organici.

Le inevitabili invasioni di campo che si verificarono non ebbero solo conseguenze negative: la Chiesa ebbe un ruolo di moderazione del potere politico e certi imperatori contribuirono alla riforma della Chiesa.

Un dualismo che anche quando non funzionò più perfettamente preservò l’Occidente dal cesaropapismo e favorì lo sviluppo della società civile attraverso gli spazi che si aprivano nel conflitto tra potere politico e papato.

La straordinaria opera di sistemazione e di indagine razionale di san Tommaso riuscì ad armonizzare il pensiero aristotelico con la speculazione cristiana componendo le esigenze della società politica con la dignità della persona recante un’anima ordinata alla conoscenza di Dio. Scrive Ormas: «L’intero universo è retto dalla ragione divina che, proprio per questo, ha carattere giuridico: il diritto eterno coincide con la persona di Dio. Il diritto naturale è la partecipazione all’opera della provvidenza divina … da parte della creatura razionale…la luce della ragione naturale, che ci fa discernere il bene dal male, non è che un riflesso della luce divina in noi e appartiene al diritto naturale». In Tommaso si coglie come in nessun altro la capacità di trovare nella legge naturale la fonte del diritto, una valorizzazione che più che definibile come moderna sembra intuire e precedere i problemi che la modernità finirà per porre senza però risolverli.

Infatti se per certi aspetti si può affermare, come fa il Villey, che Tommaso attraverso la valorizzazione del diritto naturale, abbia fondato «almeno in parte il diritto dell’Europa moderna» opportunamente Ormas ricorda che «la corrente positivista del pensiero giuridico moderno … si congederà radicalmente dalla filosofia tomista, rifiuterà le sue cause finali e la metafisica classica dell’ordine naturale: vedrà nel diritto solo il prodotto della volontà e non il frutto della ragione che indaga la natura per scoprire ciò che è giusto». Dunque un sostanziale ribaltamento dello spirito giuridico classico e medievale.

Duns Scoto

Un ponte invece per la filosofia del diritto moderna arrivò indirettamente dalla teologia francescana che intendeva reagire all’impostazione considerata “razionalistica” che avrebbe sminuito l’onnipotenza divina, Duns Scoto preferì valorizzare la volontà sull’intelletto, la capacità conoscitiva intuitiva del singolare, dell’individuale rispetto alla conoscenza “astratta” degli universali e all’oggettivismo tomista che avrebbe potuto trasformarsi in una limitazione della potenza di Dio e della libertà umana.

Guglielmo da Ockham, francescano, radicalizzò ulteriormente le tendenza dello scotismo in un antintellettualismo e in un volontarismo che finirà per riconoscere come reali solo le istanze individuali, riducendo i nomi delle cose a convenzionalità e quindi abbattendo ogni universale, distruggendo alla base il diritto naturale, staccando di netto il rapporto tra ragione e fede con conseguenze politiche importanti perché, nell’affermare una Chiesa tutta fede e spiritualità, finì per subordinarla al potere imperiale, trasferendo l’attributo della onnipotenza divina allo Stato.

La negazione di strutture naturali cui conformare l’ordine giuridico apriva la strada al soggettivismo e al volontarismo giuridico: sola fonte del diritto è la volontà individuale da cui nacque l’assolutismo politico e giuridico.

Esito non previsto da Scoto e da Ockham ma come osserva un teorico del diritto di scuola progressista come Zagrebelsky «l’idea moderna non muove da un ordine dato ma presuppone che ogni essere umano sia libero, per instaurare l’ordine che ritiene per sé preferibile».

Al culmine di questo percorso storico Ormas pone Francisco De Vitoria, il celebre filosofo della scuola di Salamanca. La scoperta dell’America con la problematica degli Indios suscitò un vasto dibattito che culminò con l’opera del De Vitoria, la Relectio de Indiis del 1539 nella quale venne formulata per la prima volta esplicitamente una teoria sui diritti umani, per Ormas l’esito maturo di una riflessione che coerentemente con i principi evangelici, dalla patristica attraversando il medioevo, perviene a una rigorosa difesa dei diritti umani fondata su basi razionali.

Il De Vitoria infatti utilizzando la riflessione dell’aquinate intendeva valorizzare la razionalità e il diritto naturale come elementi comuni ad ogni uomo e ad ogni popolo. Una operazione questa che nel dibattito sulle popolazioni del Nuovo mondo gli consentì di affermare la loro piena umanità, il loro diritto al dominium (cioé la legittimità dei loro possessi e delle loro autorità), fino ad arrivare a regolare  il rapporto tra spagnoli e indios sul piano dello ius gentium, che il De Vitoria radica sul piano della naturale socialità e della naturale comunicazione fra i popoli, all’interno del quale gli spagnoli aveveno il diritto di portare l’annuncio evangelico senza tuttavia coartare gli indios.

Ormas non nega la brutalità e le efferatezze di una parte dei conquistadores, ma rileva come fin da subito la Chiesa (coi domenicani e con Alessandro VI, il pur famigerato papa Borgia), e i reali di Spagna si preoccuparono di tutelare gli indios, considerati persone a tutti gli effetti da evangelizzare e sudditi con gli stessi diritti.

E malgrado gli abusi, il dibattito di cui il De Vitoria fu protagonista, consente ad Ormas di sottolineare che «la Spagna fu l’unica potenza del Cinquecento e del Seicento che si pose, anche drammaticamente, il problema della legittimità morale e giuridica della propria impresa coloniale» che, seppur tra errori e contraddizioni portava il crisma della evangelizzazione e divenne anche una grande opera di promozione e integrazione umana.

Tuttavia nelle risposte del De Vitoria e della scuola di Salamanca si intravedono i germi di una crisi nei cui sviluppi siamo ancora involti.

Infatti la modernità come categoria filosofica rivoluzionaria ha svuotato i diritti umani dal suo principio fondante, cioè Dio, ed ha relativizzato se non negato quel diritto naturale che sulla scia di Tommaso il De Vitoria vedeva come principio unificante razionale e universale.

Lo stesso De Vitoria nello sminuire teoricamente l’autorità politica dell’Imperatore e del papato, finiva per abbassare l’universalismo cristiano medievale teocentricamente fondato ad una concezione antropocentrica. Tanto da indurre lo stesso Ormas a domandarsi quanto il De Vitoria sia stato fedele alla concezione di san Tommaso, rigorosamente unitaria, nella quale comunque il fine verso cui tutta l’esistenza è orientata è quella della visione beatifica di Dio.

E quanto invece sia debitore della Seconda Scolastica e in modo particolare del Commento alla Summa del Caetano nella quale la concezione unitaria di Tommaso si divarica in uno sdoppiamento tra natura e soprannatura cui fanno riscontro una duplicità di fini e di beatitudini: naturale e soprannaturale (effetto riscontrabile anche in molti neotomisti, si pensa a Maritain).

Ma se l’ordine naturale è autosufficiente allora quello soprannaturale diventa una aggiunta estrinseca e debole che ben presto si dilegua eliminando dall’ordine naturale il suo fondamento soprannaturale, riducendosi ad un umanesimo autoreferenziale che perde il senso dell’oggettività del conformarsi e del partecipare a un ordine superiore.

L’umanesimo divenuto antropocentrico finisce per eliminare l’appetitus beatitudini a vantaggio dell’appetitus societatis, cioè al desiderio di vivere pacificamente in società finendo per secolarizzare integralmente tutta la vita sociale. Non c’è più da dedurre un diritto da una natura umana che reca l’impronta dell’immagine divina, ma solamente il far valere la volontà umana avente un’autonomia assoluta.

Rispetto anche al gran parlare che oggi si fa dei diritti umani con l’evidente tentativo di nasconderne le radici cristiane se non addirittura di contrapporle ad esse, il saggio di Ormas costituisce una coraggiosa opera di chiarificazione nella quale lo splendore della civiltà cristiana finisce per l’ennesima volta per avere la meglio sulle menzogne laiciste che ancora imperversano nella Scuola e nella cultura ufficiali.