Appunti per una filosofia dei giovani

Vita e Pensiero, 1968, V,pp. 399-413

Augusto del Noce

La “rivoluzione studentesca” ha colto di sorpresa così gli intellettuali come i politici. È stata l’improvvisa e imprevista “rivelazione” dello stato d’animo dei giovani; dobbiamo avere il coraggio di dichiararlo, ci siamo trovati davanti al frutto morale dell’ultimo ventennio e non prevedevamo che fosse tale, né in bene né in male. Sulle valutazioni, positive o negative, ha prevalso lo stupore.

Non si può quindi isolare, ne’ gli “studenti” l’hanno isolato, il problema delle rivendicazioni universitarie da una questione assai più ampia. La gioventù contesta i risultati morali degli ultimi vent’anni e disprezza gli intellettuali della generazione ormai matura, quanto più si sforzano di apparire giovani e di essere adeguati al progresso dei tempi. Il che significa: quel che noi giovani sentiamo, il disagio che vogliamo superare, non trova corrispondenza nei modelli anche più avanzati che la generazione degli intellettuali che si è formata intorno al ’40 vorrebbe proporci; e ciò perché ci troviamo ad affrontare una situazione morale nuova, che essi non prevedevano, né sanno ora comprendere. Anche i più estremisti tra loro appartengono al sistema che contestiamo.

Parlo di un contrasto di generazioni: mi si obietterà che il concetto di generazione è equivoco e ambiguo. Certamente lo so, ma penso che qui sia necessario usarlo, come il più approssimato, anche se non lo si è fatto oggetto di un’analisi esaustiva. Consideriamo infatti la recente storia d’Italia: la generazione dei giovani tra il ’43 e il ’45 ha “contestato” quanto avevano fatto coloro che erano stati giovani tra il ’19 e il ’22; oggi la loro opera si trova a sua volta contestata dai giovani del ’67-’68. La corrispondenza temporale non potrebbe essere più precisa, 24 anni: dal 1919, in Italia ogni generazione “contesta il sistema”; la regolarità matematica avrebbe fatto la gioia di Giuseppe Ferrari. Sono, certamente, lontanissimo dall’approvare il giovanilismo, e lo si vedrà. Tuttavia, resta che l’insoddisfazione del giovane rispetto all’anziano è un fatto che deve venire spiegato; e per aspetti negativi che possa contenere, per manifestazioni deteriori a cui possa aver dato origine, può anche contenerne dei buoni.

Quest’analisi che è, insieme, rinuncia alla condanna massiccia, come ai tentativi di giustificazione indiscriminata, è resa necessaria da una situazione che si è manifestata più densa di pericoli di quanto le persone rese accorte dall'”esperienza” non riuscissero a immaginare (perché, per mature e riflessive che siano diventate, continuano a immaginare il ribellismo giovanile nella forma che assumeva al tempo della loro gioventù); ma che pure può dar luogo a un certo filo di speranza.

1. La contestazione

È rivolta contro la società del benessere o tecnologica o tecnocratica o opulenta, come che la si voglia definire. Ma è da capire che per società del benessere si vuol significare quella che pone il benessere come fine; la precisazione è necessaria perché assai spesso la si ritiene quella che, mossa dalla consapevolezza morale e religiosa dell’unità del genere umano, o anche semplicemente dallo scopo di eliminare le tensioni rivoluzionarie (le due finalità possono ben accordarsi), vuole la maggiore diffusione del benessere tra i meno abbienti e i sotto sviluppati. Se così la si intende, si potrebbe forse non approvarla? La società del benessere non avrebbe altro fine se non quello di realizzare l’eliminazione definitiva della schiavitù; sarebbe quindi richiesta dai valori morali tradizionali, anche se essi, nella loro nuova attuazione, debbano incontrare ostacoli diversi da quelli del passato.

Vero è che bisogna ben distinguere tra questi due significati, giacché la società attuale, anche se lontana dall’avere completamente vinto, è la società del benessere nel primo senso. L’avvertenza non è affatto superflua, perché la mancata distinzione ha fatto sì che la maggior parte degli intellettuali cattolici siano stati scarsamente sensibili alla novità della situazione, e non si siano resi adeguata ragione di quel continuo scadimento dei valori religiosi e morali consacrati dalla tradizione, che pure la più elementare esperienza pone sotto i loro occhi.

Oggetto della contestazione è il sistema “occidentale” del dopoguerra nella sua “globalità”, quale si è costituito come alternativa al comunismo; ma l’alternativa è tale che lo stesso revisionismo russo tende a inserirvisi come uno dei poli egemonici. Insomma: gli intellettuali di sinistra avevano, in genere, salutato il nuovo corso russo, come processo di democratizzazione; continuando con ciò il giudizio di coloro (tra noi, in primo luogo Salvemini) che nel 1917 avevano salutato l’opera di Kerenski, come di chi intendeva far entrare la Russia nell’orbita delle potenze democratiche, autorizzando con ciò l’impostazione ideologica della prima guerra mondiale come lotta delle democrazie contro le potenze autoritarie. Allora fu la storia a prendersi beffe di questo giudizio; oggi, il giudizio esattamente simmetrico è beffato dai giovani.

Ma passiamo ai caratteri morali della società del benessere, intesa nel primo seno. Per semplificare l’argomento, partirò da alcune perfette osservazioni di Felice Balbo: “… quando lo scopo della società non è più quello della ‘vita buona’, ma quello del ‘benessere’ ossia del massimo possibile soddisfacimento dei gusti e degli appetiti — più elementari e necessari, o più raffinati e alternativi non importa —, la filosofia diviene effettivamente superflua… Da quando i termini usuali con cui i filosofi parlano del loro lavoro o giudicano le filosofie non sono più, in primo luogo, ‘vero’ e ‘falso’ ma ‘importante’ e ‘insignificante’, originale e banale, eretico e dogmatico, sincero e retorico, progressivo e reazionario, ecc., si può dire che la fiducia nel filosofare come tale, e non solo in questa o quella filosofia, è scossa alle radici” (Balbo, Opere, Boringhieri, Torino, 1963, pp. 366 e 364).

Se le leggiamo attentamente, ne ricaviamo tre verità essenziali:

1) che quando si fa del benessere il fine della società, la filosofia come tale dev’essere abolita. Quel che resta è la scienza di cui la filosofia, al più, studierà la metodologia.

A partire da ciò riprendono nuova vita tutti i peggiori fondi del tardo ottocento, il mito della Scienza e quello dell’Evoluzione. Infatti la Scienza o, per meglio dire, la scienza moderna, può studiare l’uomo soltanto come animale, di specie e di grado superiore. Questo è il suo limite, non la sua colpa, ma quando la filosofia abdica in favore della scienza e se ne fa l’ancella, la differenza qualitativa fra l’uomo e l’animale va perduta.

Per l’elevazione della scienza a tipo assoluto di conoscenza, viene meno l’interiorità (la presente perdita del pudore non ne è che l’aspetto sensibile; che posto può esserci ancora per il pudore se la scienza aggettiva tutto?) e l’assolutizzazione dello scientismo deve anche significare la fine assoluta delle religioni (teologia della “morte di Dio”, ecc.). È per questa riduzione dell’uomo ad animale (1) che si pensa, una volta soddisfatti nella misura più larga i bisogni sensibili dell’uomo, tutti gli istinti aggressivi verranno a cessare: l’utopia tipica della società del benessere.

2) Quanto sia oggi diffusa, soprattutto presso gli intellettuali, la malafede, si è spesso osservato. Ma non si è segnalata abbastanza la connessione di ciò con lo sviluppo della società del benessere. Di fatto: una società che abolisca i giudizi in termini di vero e di falso, non può non autorizzare il diritto alla menzogna, alla malafede; che saranno riconosciute come lecite quando porteranno chi le professa a un risultato positivo. Giudizio che è poi una variante della celebre frase di Nietzsche sulla storia della morale, come storia della giustificazione dei delitti che hanno avuto un esito felice.

3) L’opposizione alla società del benessere non può essere condotta da un punto di vista reazionario, e ciò semplicemente perché l’opposizione di progressivo e di reazionario è interna al suo linguaggio. Reazionario è chi si oppone al progressivo, nella convinzione, in fondo, di aver già perduto. Criticare realmente la società del benessere, è andar oltre l’opposizione del progressivo e del reazionario.

Due altre osservazioni sono da aggiungere, a riguardo del rapporto tra marxismo e società del benessere e del carattere di novità e di antitradizione di questa.

La filosofia implicita nella società del benessere, è lo sviluppo radicale di un momento del marxismo, quello per cui si presenta come “relativismo assoluto” (conseguente al materialismo storico); sviluppo così rigoroso da giungere a eliminare l’altro, quello per cui si presenta come pensiero dialettico e dottrina della rivoluzione. In breve segna la vittoria del positivismo e sociologismo sul marxismo; di un positivismo che ha deposto gli aspetti romantici che erano propri delle sue forme ottocentesche.

Ma con ciò ha raggiunto una forma di empietà maggiore del marxismo

Perché, pur essendo rigorosamente ateo, pur negando ogni rivelazione e ogni soprannaturale, il marxismo, nella sua versione comunista è infatti una religione, l’Avvenire sostituendo l’Eterno e la Totalità l’Assoluto e la Città di Dio.

Invece, la società del benessere è l’unica nella storia del mondo che non abbia origine da una religione, ma sorga essenzialmente contro una religione, anche se, per paradosso, questa religione è la marxista (ma successivamente, la critica si estende a ogni altra forma di religione). Non a caso il punto di vista del suo intellettuale si riassume nelle due seguenti affermazioni: accettazione della morte di Dio, e posizione critica rispetto al marxismo in quanto ancora, a suo modo, è religioso. Da questa novità deriva il suo antitradizionalismo; la sua prospettiva storica, è, in sostanza, la seguente: nella storia c’è stata una cesura definitiva rappresentata dalla seconda guerra mondiale; non sono stati vinti soltanto fascismo e nazismo, ma l’intera vecchia tradizione europea; e fascismo e nazismo devono essere interpretati come fenomeni conseguenti alla paura del progresso storico, o come si suol dire oggi, della trascendenza, usando questo termine in un significato intramondano. In conseguenza di tale giudizio, chi si richiama alla tradizione è sempre, quale che sia la sua consapevolezza, un “reazionario” o un “fascista” (termini che vengono stoltamente identificati).

Di più, la società del benessere è intrinsecamente totalitaria nel senso che la cultura vi è completamente subordinata alla politica.

Ricavo da un recente notevolissimo scritto di Umberto Segre: “a queste condizioni però, il patto Stato-grandi imprese, assume come unica regola l’efficienza e la crescente produttività. Tutto dovrà essergli sacrificato. Galbraith ha l’onestà di dichiararlo: ‘la tecnologia è sempre bene; l’incremento economico è sempre bene; le grandi aziende hanno come norma interna un incremento indeterminato; il consumo dei beni che esse producono, costituisce l’optimum della felicità: e nulla deve interferire nei confronti che accordiamo alla tecnologia e all’incremento economico, e all’aumento dei consumi’. Una società così configurata non ammette più autonomie di sovrastrutture culturali, religiose e politiche… La cultura è per definizione merce di consumo, o, quando è scientificamente ricercata e apprezzata, è a sua volta strumento per l’ulteriore incremento di efficienza e di produzione” (nella rivista Ideologie, 1968, p. 29).

Qualcuno osserverà che tale società rispetta le forme democratiche; ma è ben debole argomento, perché non c’è potere che non le rispetti, quando dispone di strumenti di controllo e di oppressione reale che abbiano una particolare efficacia.

Può sembrare che con ciò mi sia allontanato dal tema delle agitazioni studentesche”. Mi sembra invece di esser risalito sino alle condizioni minime per intenderle.

Già da quel che ho detto risultano chiare due conseguenze:

1) che l’inquietudine e l’insofferenza “studentesca”, e la loro diffidenza per gli anziani sarebbero per sé dei fenomeni positivi; esprimono infatti la ribellione della natura umana al processo, insieme di dissacrazione e di disumanizzazione, caratteristico delle due società atee, la marxistica e l’opulenta, la prima delle quali ha il destino, correlativo allo sviluppo economico, di rifluire nella seconda; non vogliono appartenere a questo sistema in qualità di strumenti, il che per altro dovrebbe necessariamente avvenire, perché la società del benessere non conosce che strumenti; e nel voler riaffermare la loro umanità, fanno benissimo. Il guaio è che interviene a deviarli l’estremismo, come si vedrà.

2) Che gli “studenti” hanno almeno intravisto, e lo hanno fatto per lavoro proprio, il nesso tra le condizioni della scuola e il sistema sociale che si sta affermando.

Leggo, ad esempio, in un loro opuscolo che le ricerche delle facoltà umanistiche non servono “se non ad aumentare il prestigio di chi le svolge e gli istituti di ricerca delle facoltà scientifiche si sono praticamente trasformati in un reparto dell’ufficio di presentazione dell’industria che finanzia e controlla la ricerca”; e che l’università è una struttura feudale di cui “la ricerca” è il blasone.

Lasciamo da parte l’evidente esagerazione giovanile; dobbiamo però riconoscere che una linea di tendenza è stata individuata. Perché una volta che il criterio del vero, come criterio vissuto, sia messo da parte, e sia stato sostituito con quelli dell’originale, dell’importante, del nuovo, del sincero, dell’autentico, dell’eretico, del progressivo, ecc., è inevitabile che quel che conti sia soltanto l’affermazione di sé. Dunque, nel caso della scuola — in cui non può non riflettersi il clima morale della società, pur incontrando resistenze che però alla lunga saranno vinte — il prestigio del docente; e una ricerca condotta con la sola finalità del suo aumento non potrà risultare, per accurata che si presenti, che come preziosa e accademica.

Tale da non servire a nulla, dice lo stesso opuscolo: col che “i giovani” hanno ragione se vogliono intendere che non illumina per nulla sulle scelte che essi dovranno operare nella realtà effettuale. È troppo facile derivare da questo primo carattere tutti i difetti che saranno essenziali alla scuola universitaria della società del benessere; nelle scuole umanistiche domineranno un estrinseco filologismo o un ermetismo; nelle scientifiche un tecnicismo al servizio dei grandi feudi industriali; intorno al professore il piccolo gruppo dei futuri vassalli; gli altri, gli esclusi. Ho letto, anche se stento a crederlo, che in una facoltà si sarebbero fatti per una disciplina, seicento esami in due giorni: dunque, l’incontro tra il professore e la massima parte degli allievi è durato esattamente cinque minuti, nei quali il professore faceva la parte di giudice e lo studente, più che di esaminando, di accusato!

Non insisto oltre su aspetti di una situazione che è ormai nota a tutti. Quel che mi importava era di ricondurre i difetti alla natura di un sistema, che non si è ancora certo perfettamente attuato, a cui ancora è possibile resistere, ma che è tuttavia in processo di realizzazione. Alla fine della guerra, e davanti alla minaccia comunista, due vie si presentavano possibili: un risveglio religioso, o la società del benessere.

Non è questa l’occasione di spiegare perché la scelta si sia operata per la seconda. Sotto un certo rapporto, era difficile che ciò potesse non avvenire, senza la comparsa di grandissime personalità religiose (2); ma il movimento avrebbe potuto almeno essere contrastato ed arginato, se gli intellettuali avessero avuto coscienza di quel che la sostituzione dell’ideale del “benessere” a quello della vita buona importa; e se non avessero, per una gran parte, tradito il loro compito, attraverso la ricerca di una generale “demitizzazione” intesa in realtà come critica d’ogni “autorità” dei valori, che accompagna come giustificazione culturale, quel processo di abolizione del sacro che è essenziale alla società opulenta.

Onde il diffondersi nelle menti, senza incontrare che scarsa resistenza, di quel rinnovato sansimonismo in cui si deve ravvisare l’ideologia che unifica cattolici e laici nella società del benessere (Saint-Simon è il vero inventore della mentalità tecnocratica) con le immense devastazioni che vi ha prodotto; anche nei cattolici perché, a mio modo di vedere, il nuovo modernismo cattolico deve necessariamente incontrare nel suo processo il “nuovo cristianesimo” sansimoniano ed esserne assorbito, sino a ripetere il processo da Saint-Simon a Comte, dissolvendo il cristianesimo in una vaga religione dell’umanità; quel “nuovo cristianesimo”, nei cui riguardi si dovrebbe oggi riprendere la critica decisiva che gli fu mossa da Rosmini, in un saggio che è pressoché sconosciuto (3).

2. L’estremismo

Alla considerazione di tale devastazione dobbiamo ricorrere se vogliamo spiegare il modo in cui il pure realissimo e in sé positivo disagio della gioventù ha preso forma; e che è tale da far cangiare nel pessimismo più amaro l’ottimismo iniziale.

Infatti è comparso, sotto forma in apparenza di intransigenza e di consequenzialità, in realtà in precisa funzione, anche se inconsapevole, di estrema radicalizzazione dei mali dell’ordine esistente, un estremismo che della società del benessere è il puro passivo (idealmente) prodotto. Né’ vale rispondere che è un estremismo condiviso da pochissimi; perché la minoranza che esso ha informato è riuscita a imporsi in parecchie delle università maggiori.

Perché puro prodotto? Perché accetta supinamente allo stato di poltiglia frammentaria quei principi ideali che sono all’inizio del processo che ha portato al sistema attuale; quel sistema che vorrebbe contestare.

Consideriamo infatti la sua premessa, il mito giovanilistico. I giovani hanno sempre ragione perché esprimono il senso della storia in movimento, e il compito degli intellettuali è quello di interpretarli; esso nasce nella sinistra hegeliana ed è connesso con tutti i suoi temi filosofici. Non so se l’autorità di san Tommaso goda ancora credito presso i cattolici giovani. Posto che conti ancora qualcosa, è da osservare come egli pensasse altrimenti: per lui l’età della saggezza metafisica era normalmente la senectus tra i cinquanta e i settantenni (cfr. Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo; IV Sent., dist. 40). È sconcertante osservare come il tema “dei giovani”, inizialmente filosofico, accompagni il processo che porterà appunto alla negazione della metafisica e della teologia. Quel curioso passo di san Tommaso non è dunque davvero scritto a caso!

È vero che si appellano a due maestri, a Mao e a Marcuse. Ma, vediamo.

Del maoismo, poco si sa con certezza; un dato solo è sicurissimo, che il marxismo è vitalizzato in Cina da un fortissimo spirito nazionalistico. Nel pensiero e nella prassi della rivoluzione marxista, i cinesi hanno cercato lo strumento di liberazione da umiliazioni senza nome, che duravano da quando il grande piano del padre Matteo Ricci era stato interrotto. Il loro marxismo è del resto elastico e del tutto subordinato alla liberazione nazionale. Si tratta di liberarsi della soggezione anche rispetto alla Russia; quando in Russia vigeva ancora l’ortodossismo fu elaborata l’ideologia dei “cento fiori”; quando la Russia si incamminò per la via cosiddetta del revisionismo, allora fu proclamato quell’intransigentismo dottrinale che domina oggi. Le formule maoiste possono essere anche conformi al marxismo autentico: ma sta il fatto che sono state paradossalmente ritrovate non già per la via classista, ma per quella nazionale. Non si può, insomma, essere maoisti senza essere, per nazione, cinesi.

Si può pensare che i giovani rimpiangano lo spirito, a suo modo religioso, che informava il marxleninismo originario. Oggi però il marxismo può conservare quest’aspetto soltanto nei paesi sottosviluppati; e ricercare le condizioni di sottosviluppo non è possibile; è qualcosa di altrettanto assurdo della ricerca di imporre l’ignoranza. Forse che si può pensare a un accordo tra “studenti” e operai per ristabilirle?

Marcuse

Passiamo all’altro maestro, Marcuse. Al riguardo del cui pensiero è da osservare: ha inteso assai bene, in anni lontani (Cfr. Marcuse, Ragione e rivoluzione, 1941) il rapporto tra filosofia e rivoluzione in Marx. Più di recente ha messo in luce la necessità per cui il marxismo deve cedere rispetto alla società tecnologica (Cfr. Marcuse, Il marxismo sovietico, 1963):

— ha condotto nell’Uomo a una dimensione una critica rigorosa della società tecnologica, che però è la semplice verifica delle previsioni degli scrittori tradizionalisti e reazionari, di un Guénon, per esempio;

— ma d’altra parte è per lui un assioma che le negazioni metafisiche e teologiche pronunciate da Feuerbach e da Marx non possano più essere messe in discussione. Perciò la via d’uscita a cui si trova costretto è una vaga utopia sulla riabilitazione degli istinti e sulla conciliazione tra la ragione e il senso. Anche se detta molto più elegantemente, è destinata a non differire gran che, quando venga popolarizzata, dalle teorie del Reich sulla rivoluzione sessuale. Dunque, una rivoluzione antipuritana è quel che egli sa proporre: un vero ferro di legno, per una ragione storica intrinseca, che la politica dei puritani fu il primo modello dell’azione rivoluzionaria, e che il motivo puritano è essenziale a ogni posizione rivoluzionaria seria: gli esempi della storia non sono certo difficili a trovare. Marcuse può perciò essere definito come il filosofo della decomposizione della rivoluzione.

Passando dal maestro Mao al maestro Marcuse (autori che, del resto, non si possono conciliare) i rivoluzionari del movimento “studentesco” arrivano alla contraddizione pura.

Non si può negare che il pensiero di Marcuse abbia un reale interesse, ma esattamente per i motivi inversi a quelli per cui oggi è invocato:

— serve a mostrare il nullismo, appena letterariamente mascherato dalla ripresa dei motivi schilleriani sulla libertà e sul gioco, a cui deve arrivare un pensiero che, per un verso, accetti le negazioni di Feuerbach e di Marx, e, per l’altro, coinvolga rigorosamente nella critica le affermazioni del marxismo e quelle del pensiero che sottende la società tecnologica;

— serve pure a mettere in luce come il pensiero rivoluzionario derivi la sua forza, sempre, dall’appropriazione dei temi della critica controrivoluzionaria; già Saint-Simon e Marx lo avevano fatto; Marcuse lo rifà a distanza di un secolo, e a variate condizioni sociali. Ma questo serve pure a mostrare come la critica del pensiero rivoluzionario non possa esser mossa a partire da un punto di vista reazionario (di ritorno al passato); quando si presenta come solidale a tale posizione, il suo riassorbimento da parte del pensiero rivoluzionario è inevitabile;

— inoltre, è pur vero che se si vogliono unificare Marx, Freud e Heidegger — i tre idoli della generazione degli anziani — non sembra che vi sia altra forma all’infuori di quella che Marcuse ha proposto. Anche in ciò si manifesta quanto sia stretta la dipendenza dei nuovi ribelli dai loro padri.

Si è detto che gli estremisti riscoprono inconsapevolmente il fascismo delle origini, nel suo iniziale momento negativistico e anarchico. Ed è osservazione che merita di venire approfondita.

Di fatto, non c’è un solo tema dell’estremismo “studentesco” che non sia ritrovamento di motivi del primo fascismo. L'”io voglio” indeterminato; il diritto di potere che ha la giovinezza in quanto rappresenta la vita; il momento dialettico cercato nella giovinezza e nella generazione anziché nella classe; la pretesa di andare oltre, in posizione rivoluzionaria, alla borghesia e al comunismo; l’idea di una rivoluzione che parta dagli studenti; il negativismo e l’attivismo (ricordiamoci che il fascismo si presentò inizialmente come antipartito); l’antintellettualismo come avversione alla cultura libresca; il mito del nuovo a ogni costo.

Tuttavia, non bisogna andar troppo oltre nelle analogie; il fascismo originario si dava pur un contenuto, nell’idea di nazione: dopo la negazione di ogni autorità dei valori non resta che il puro totale negativismo, la volontà di un indeterminato prossimo al “nulla”. Il recente “movimento studentesco” ha dissociato i due momenti del fascismo originario, l’anarchico e il nazionalistico. È rimasto l’anarchismo di tipo fascista, diverso dall’anarchismo puro, perché questo, è caratterizzato da un amore e da una volontà dell’impossibile, che gli conferisce, anche agli occhi di chi l’avversa, un certo fascino morale. Mentre l’anarchismo fascista è volontà di potere, e in quanto tale, assume un indirizzo totalitario. Le tracce della mentalità totalitaria — e sia pure nel senso di un totalitarismo della distruzione — sono ben chiare nel nuovo estremismo. Consideriamo infatti alcuni dei temi su cui più ha insistito.

L’esempio delle scuole di Mao opposto a quello delle scuole sovietiche? Cioè l’educazione deve venire dal basso in quanto gli studenti comunicano direttamente con la volontà del nuovo stato incorporato in una persona. Insomma, il culto della personalità. Almeno la Russia, abolendo il culto della personalità, intendeva liberarsi dagli aspetti che accomunavano comunismo staliniano e nazismo.

L’appartenenza della sovranità all’assemblea degli “studenti” per cui ogni professore dovrà essere sottoposto periodicamente all’esame da parte di comitati di “studenti”, per controllarne il grado di adeguamento ideologico e culturale? Lasciamo da parte l’esame culturale: evidentemente gli “studenti” non potranno condurlo che a partire da giudizi di qualche altro più gradito professore. Più importa quello ideologico. In che forma si svolgerà? Forse un test può essere rappresentato da un articolo, che mi è accaduto di leggere su una rivistina della “nuova sinistra”, in cui l’illustrazione della figura di don Milani era occasione per rivolgere le più volgari offese e ingiurie alla memoria di Pio XII.

Un esempio, dunque, potrà essere questo. Il professore dovrà svolgere il tema: dimostrare come Pio XII sia stato per il vecchio cattolicesimo quel che Giuliano l’Apostata fu per il paganesimo; o come sia stato un pontefice nazista; il risultato della ricerca sarà cioè prefissato; e il professore dovrà applicarsi a documentare le tesi prestabilite per ragioni politiche. A parlar chiaro, questa si dovrebbe chiamare scuola della falsificazione della cultura.

Si dirà che a tali eccessi non pervengono che pochissimi tra i pochissimi; pure è l’esito conseguente del presente negativismo assoluto che ha il destino prefissato di giungere alla negazione della cultura.

L’estremismo non rappresenta affatto l’intransigenza e la consequenzialità nella reazione contro la trasformazione feudale dell’università. Al contrario è la posizione di coloro che non riescono a concepire l’università che come feudo; e che al blasone “ricerca” vogliono sostituirne un altro, quello della subordinazione della cultura alla politica.

Ripropongono il vecchio tema, che i comunisti non osano più sostenere, della partitarietà della filosofia e della cultura in genere. All’interno di una società che speriamo conservi la sua funzione di garantire la libertà, vogliamo impiantare un modello di “stato totalitario dell’università”. Le dichiarazioni ultrademocratiche contano poco; c’è bisogno di ricordare che ogni totalitarismo incipiente parla sempre di assolute rivendicazioni democratiche?

Che gli estremisti sentano se stessi come i più radicali e integrali antifascisti, è certo. Ma c’è antifascismo e antifascismo; e il loro è quello che risulta dalla negazione del momento nazionalista e tradizionalista del fascismo; hanno operato, questa è la loro originalità, una dissociazione per cui del fascismo viene mantenuto il puro momento anarchico.

D’altra parte non si deve essere neppure troppo severi con gli estremisti, perché ciò porterebbe a ignorare i torti degli anziani. Sono essi che non hanno saputo dare alla nuova generazione un sereno giudizio storico sul fascismo. Ed è in conseguenza di ciò che i giovani, che non l’hanno vissuto e che ne hanno sentito parlare come di un fenomeno delinquenziale o poco meno, ne hanno riscoperto il peggiore degli aspetti, credendo di portare l’antifascismo sino al grado estremo.

Solo la storiografia, l’autentica e non la partitaria, può immunizzare da certi mali; più a fondo del contrasto delle generazioni c’è una carenza storiografica. Come spiegarla? Per complesse che siano le ragioni, già se ne è indicata l’essenziale; è interesse della società del benessere mantenere l’interpretazione apocalittico-demonologica del fascismo, ed è da osservare come sia a partire da essa che trova spiegazione la forma della rivolta “studentesca”. In quale altro modo tale interpretazione può infatti ripercuotersi nei “giovani” se non nello stato d’animo di un’attesa millenaristica (il progresso scientifico non distrugge affatto l’archetipo millenarista) dell’assolutamente nuovo, e nel conseguente atteggiamento distruttivo rispetto a ogni tradizione? La società del benessere sconfigge così la rivoluzione costringendola alla forma del negativismo puro.

Si imporrebbe qui una riflessione, a mio giudizio, di estrema importanza.

Dato che il fenomeno della rivoluzione “studentesca” è mondiale (anche se, naturalmente, occorrerebbe distinguere accuratamente tra i moti che avvengono nella società cosiddetta occidentale e quelli dei paesi comunisti; rispetto ai quali dovrebbe evidentemente venir condotto un discorso assai differente), e dato quel carattere filosofico, su cui ho assai spesso insistito, della storia contemporanea, sarebbe possibile la domanda se la forma che ha assunto non riveli la fine di un’essenza, quella della rivoluzione come sostituzione della politica alla religione nella liberazione dell’uomo.

Quest’essenza ha avuto il suo ultimo atto nel marxismo, che realizzandosi storicamente ha dato luogo al suo opposto, la società del benessere: che non è possibile oltrepassare per la via della rivoluzione, ma soltanto per quella della restaurazione della dimensione religiosa e dell’autorità morale dei valori.

D’altra parte, anche un’altra essenza è ormai giunta a una crisi definitiva, l’idea di Utopia. Utopia e rivoluzione si distinguono infatti in modo radicale. La prima è il sogno di un mondo da cui i conflitti siano eliminati; la seconda, invece, ha un carattere realistico, e vuol giungere alla società dei liberi e degli eguali attraverso l’esasperazione massima dei conflitti.

Il mondo occidentale ha inteso dimostrare che il contenuto dell’utopia, che in fondo non è altro che la garanzia del benessere per tutti, è realizzabile (e in parte è già realizzato; i paesi scandinavi come “modelli”).

Hans von Balthasar

Ma, con ciò, ha tolto all’utopia il contenuto senza però soddisfare al bisogno profondo che la genera: “il sentimento profondo dell’essere umano di trovarsi gettato nell’esistenza senza necessità vera” (J. Servier). Privata del suo contenuto, l’utopia si è congiunta con una rivoluzione puramente eversiva e distruttiva. Da ciò l’estrema importanza ideale della presente agitazione “universitaria”; come lampo che ha rischiarato per un attimo, perché presto è rientrata nelle categorie consuete (4), l’effettiva situazione morale, e ha mostrato l’inadeguatezza alla realtà della cultura oggi prevalente.

Idealmente ha confermato le tesi sostenute dalla grande tradizione del pensiero cattolico (mettiamoci tra i contemporanei, ad esempio, Gilson e Maritain, Journet e Urs v. Balthasar) sul pensiero utopistico e sul rivoluzionario, della cui dissoluzione è testimonianza; al tempo stesso che ha dimostrato la inadeguatezza della critica tradizionalista e reazionaria al presente, perché essa ha il destino di essere captata dal pensiero rivoluzionario, o di rovesciarsi nel modernismo.

Praticamente, però, per la sua assenza di contenuto si presta a essere strumentalizzata. Da chi?

3. La strumentalizzazione politica

Gli estremisti vogliono andar oltre l’imborghesito partito comunista e rifiutano di essere strumentalizzati. Il loro slogan è: “contro tutti i partiti, perché contro il sistema”.

Come dunque è avvenuto che l’atteggiamento dei comunisti, a cui mantenere il monopolio della causa rivoluzionaria è essenziale, e che non possono certamente essere accusati di tenerezza verso gli eretici, è stato sostanzialmente benevolo?

Evidentemente, perché li hanno visti come ricuperabili (5). Ciò conferma la diagnosi che si è fatta prima. Per il comunismo, infatti, gli assolutamente irrecuperabili sono gli anarchici puri; i fascisti sono ricuperabili dopo un viaggio che può essere lungo o brevissimo.

Se il movimento fosse stato soltanto di natura maoista, non c’è dubbio che sarebbe avvenuta la condanna. Se ciò non è avvenuto, è stato per la partecipazione dei cattolici di sinistra. Il termine è certamente vago: ma qui intendo quei cattolici che uniscono il dissenso dalla residuale componente cattolica nella D.C. con le posizioni ideali neomodernistiche.

Da quel che si è detto è già risultato abbastanza come la contraddizione non sia soltanto accettata dagli estremisti, ma addirittura eretta a principio: chi più si contraddice, più ha ragione. Ora, su questo terreno della contraddizione non c’è alcun dubbio che i cattolici di sinistra meritino il gran premio. Perché per un verso vorrebbero dare un carattere religioso alla rivoluzione, ma tale carattere religioso è nel comunismo legato all’integrale ateismo; per l’altro, vogliono separare il comunismo dall’ateismo: ma come possono farlo se non attraverso la separazione tra materialismo storico e materialismo dialettico, cioè attraverso quella che è la premessa teorica del revisionismo comunista e del suo inserimento nella società del benessere?

Da più di vent’anni sono in questa contraddizione, che in realtà è insuperabile; sicché hanno finito col dimenticarla non rinunciando però a “testimoniarla”. Quindi, stanno con un piede nella rivoluzione più accesa, e con l’altro nel comunismo di rito sovietico ammorbidito. Ottima situazione per servire da mediatori per il recupero.

Non c’è quindi bisogno di insistere gran che sulla necessità di cui il movimento è prigioniero; come già per i primi fascisti, non c’è altra possibilità politica per i ribelli, oltre a quella di congiungersi con una delle forze del sistema, non già in qualità di guide, ma di strumenti. Nell’unità delle sinistre avranno la funzione di avanguardia d’assalto e di guastatori. Lasciare ad altri il compito eversivo, concedere l’appoggio, presentarsi successivamente come principio di ordine, raggiungere il controllo; non c’è davvero occasione migliore per il partito comunista.

4. Conclusione

Nel riguardo del rapporto delle generazioni, la situazione si presenta, dunque, incerta; non devono venir sottovalutati i pericoli, che sono assai gravi, ma neppure trascurate le possibilità positive. La differenza che separa la minoranza estremista dal resto degli studenti, non è nella necessità, in fondo universalmente ammessa, della contestazione. Ma nel fatto che se per gli studenti più seri la contestazione è un problema, per gli estremisti è invece una soluzione: di qual natura si è visto.

Perché la maggioranza ha così spesso (anche se non dappertutto) accettato o subito le posizioni dei pochi attivisti? La ragione è semplice, non aveva soluzioni di ricambio; perciò non si è, in pratica, fatta molto sentire. Ciò è dipeso da un fatto che bisogna scrivere a tutte lettere: la cultura eversiva rispetto alla tradizione, ha, negli ultimi vent’anni, occupato il campo del presente, senza trovare un’opposizione fortemente impegnata; quella che invece avrebbe dovuto mediare tra la novità e la tradizione, si è troppo spesso rifugiata nello studio del passato e nella specializzazione; come se quel che avveniva nel mondo della politica e della società, e delle stesse valutazioni morali, non la riguardasse.

Da un esame spassionato della situazione deriva dunque questo insegnamento: se la nuova generazione è stata sensibile ad argomenti, in sostanza, infantili, ciò è avvenuto perché è mancata una cultura veramente seria, atta a guidarli nelle loro scelte.

Certamente si deve ammettere che il produrla non è cosa facile, data l’enorme complessità del mondo contemporaneo; e che non si tratta di ordinario lavoro, e neppure di volontà impegnata. Tutto il lavoro possibile, e il massimo impegno di volontà, non bastano per trovare idee risolutive; è però vero anche l’inverso, che senza quest’impegno e questa attenzione, tali idee non possono mai farsi presenti; gli intellettuali devono dunque prendere consapevolezza che la rivoluzione “studentesca” non è stato un episodio da carnevale, ma un segno provvidenziale per richiamarli alla coscienza delle loro responsabilità; e se l’opposizione deve essere ferrea rispetto alle imposizioni e alle proposte che da altro non dipendono che dalla tentazione totalitaria, diverso deve essere l’atteggiamento rispetto al genuino, anche se confuso, disagio morale.

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Note

(1) Questa asserzione deve essere intesa alla lettera. In pagine decisive Max Scheler ha illustrato la tesi tradizionale della distinzione qualitativa tra l’uomo e l’animale, dimostrando che essa non è affatto il risultato dell’osservazione empirica, ma una conseguenza dell’idea di Dio e della dottrina che mostra nell’uomo la Sua immagine. Perciò tesi prima, o presupposto iniziale del pensiero evoluzionista, positivista, pragmatista ecc. è la distruzione del carattere qualitativo di questa differenza, per sostituirvi una semplice differenza di grado: l’uomo è un animale che si serve di segni (il linguaggio) ecc. (cfr. L’homme et l’histoire, pp. 29 ss.). Questo punto è di estrema importanza per intendere il mondo contemporaneo. Poiché la società del benessere è caratterizzata dalla finalità della conservazione e dell’incremento dell’animalità dell’uomo, ha un nesso sostanziale con la cultura positivista ed evoluzionista; irreligiosa per essenza, può tollerare la religione solo nei limiti in cui tenta di conformarsi attraverso compromessi a tali concezioni; altrimenti l’avversa e lentamente la spegne, anche senza aver bisogno di ricorrere a persecuzioni dirette.

(2) Nel recente splendido suo libro Cordula, Urs von Balthasar ha scritto che per sopportare lo sforzo sovrumano che la situazione di oggi le impone, la Chiesa avrebbe bisogno non solo di teologi, ma di santi “come di figure che dovrebbero svolgere la funzione di fari”. Ed è curioso osservare come io stesso pensiero fosse già stato formulato, poco dopo la fine della seconda guerra, da Benedetto Croce, che, per laico che fosse, aveva però profondamente sentito il carattere religioso di una crisi che è andata sempre più accentuandosi: “Ma eccomi ritornato a uno dei miei pensieri che, per essere stato più volte ripetuto, rischia di prender l’aria di una fissazione. Al pensiero che la crisi presente nel mondo sia la crisi di una religione da restaurare o da ravvivare o da riformare, e che a soccorrere ad essa non bastino i soli politici e guerrieri, ma ci vogliono i geni religiosi e apostolici, dei quali noi, non vedendo la presenza, non perciò non sentiamo più o meno oscuramente, il bisogno, e come una tarda invocazione, nei nostri cuori”.

(3) I Sansimoniani, scritto intorno al 1830, pubblicato nel 1840, e ora ristampato, insieme ad altri saggi fondamentali per farci intendere la formazione del pensiero del Rosmini, nel volumetto Storia dell’empietà, Sodalitas, Domodossola 1957.

(4) Inizialmente, infatti, fuoriusciva dalle contrapposizioni consuete di fascismo e di antifascismo; per ciò che oggetto della contestazione era la società che si è formata dopo la fine della guerra, a cui nessuno potrà dare l’appellativo di “fascista”. Ma l’estremismo, proprio per il suo carattere di fascismo rovesciato, e il conseguente scambio di questo rovesciamento con l’antifascismo più radicale, ve l’ha fatta rientrare.

(5) Questo scritto era già composto, quando è uscita, a sua conferma, la risoluzione del Comitato Centrale del P.C.I.